XII Per annum: Sulle acque dell’instabilità

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Oggi siamo a fare i conti con l’ambiguità naturale dell’acqua: abbondante e imprescindibile sorgente di vita, causa di spaventosi disastri quando supera le frontiere destinate a contenerla. Il tema è già ben espresso dalla prima Lettura (Gb 38,1.8-11), tutta centrata sul secondo e distruttivo aspetto dell’acqua, quello che fa più paura.

Ecco quanto dice il Signore: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde?”».

Il linguaggio figurato è molto bello, e mostra Dio molto più potente del mare: lo chiude, lo fascia di buio, e gli comanda di starsene quieto entro i limiti che gli sono stati fissati. E proprio la parola “orgoglio” fa pensare d’istinto alla ribellione degli uomini, emblematizzati nei due progenitori, che vogliono uscire dai confini imposti dal Creatore, e dominare il mondo al suo posto. Tentazione pericolosa, origine e radice di tutte le altre, perché suggerisce un sovvertimento totale dell’ordine della creazione.

La reazione di “paura”, se non di vero e proprio “terrore”, forma il tessuto di quella parte del Salmo 106,23-31, che mette in scena «coloro che scendevano in mare sulle navi», che nella tempesta sono presi dal panico, il che li porta a invocare aiuto. La scena si ripeterà nel brano evangelico, come si vedrà.

Quattro timori

Credo, dunque, che sia utile analizzare le nostre paure, per fare discernimento tra quelle che sono nocive, e quelle – se ci sono – che possono rivelarsi invece salutari. Non è certo un caso che l’ultimo dei sette doni dello Spirito Santo, sia il “timor di Dio”. Oltretutto, la stessa situazione in cui ci ha precipitati la severa pandemia, ci costringe fare chiarezza tra una paura e l’altra. L’operazione non è poi così difficile.

Ricorro – come faccio di frequente – ai miei maestri che, grazie a una lunga frequentazione, popolano da tempo la mia memoria. In questo caso Giuliana di Norwich, le cui Rivelazioni hanno precisamente lo scopo di recare conforto, e dunque intendono aiutarci a superare, tra l’altro, varie forme di paura. Nel cap. 74, con il puntiglio e la precisione caratteristiche della sua scrittura, la grande mistica inglese del Trecento elenca «quattro specie di timori».

Uno è «la paura di un attacco che prende l’uomo per la sua fragilità. Questo timore fa bene perché aiuta l’uomo a purificarsi, come una malattia fisica o qualsiasi altra sofferenza», pandemia inclusa.

«Il secondo è la paura del dolore, […] e questo timore ci spinge a cercare il conforto e la misericordia di Dio. E così questo timore ci aiuta come un punto di partenza e ci rende capaci di giungere alla contrizione sotto il tocco beatissimo dello Spirito Santo».

Il terzo è «il timore che nasce dal dubbio. Questi dubbi, proprio perché ci trascinano nella disperazione, Dio vuole che li trasformiamo in amore aiutandoci con la conoscenza del vero amore, voglio dire che l’amarezza del dubbio deve essere trasformata nella dolcezza di un amore gentile, per opera della grazia. Perché non potrà mai piacere a nostro Signore che i suoi servi dubitino della sua bontà». Mi pare che, dal contesto, si ricavi chiaramente l’idea che non si tratta di dubbi teologici, che riguardano problemi di fede, quanto piuttosto di quei dubbi “esistenziali”, legati alla fede, come il problema del male e della morte, che possono avere effetti devastanti.

Il quarto è «il timore riverente, e non c’è alcun timore che piaccia tanto a Dio quanto il timore riverente, e questo è molto blando: quanto più lo si possiede tanto meno lo si avverte, per la dolcezza dell’amore. L’amore e il timore sono fratelli, le loro radici sono state piantate in noi dalla bontà del nostro creatore, ed essi non saranno mai strappati da noi in eterno» (Una rivelazione dell’amore, c. 74, pp. 306-307).

Si ricordi che costantemente nell’opera di Giuliana, Dio appare «familiare e cortese», amabile e gentile sì ma, nel contempo, esige rispetto e giusta distanza. Questa endiadi è cruciale, e impedisce di farsi un Dio sulle proprie misure, come un idolo da portarci dietro dove vogliamo.

“L’amore di Cristo ci possiede”

Il brano di 2Cor 5,14-17 non potrebbe giungere meglio a proposito, soprattutto a partire dell’incipit decisamente rassicurante: «Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede». Basterebbe questa affermazione, da fissare bene in mente, per trovare risorse inesauribili davanti a ogni attacco di sconforto e scoraggiamento, fosse pure quello che ci arriva dalla difficoltà a superare il peccato. Soprattutto è il caso di ricordare, in proposito, che ogni concentrazione sui propri sbagli, che abbia un effetto paralizzante, è un falso pentimento. Esso viene dal demonio, il quale tra i suoi mezzi ha precisamente anche quello di farci perdere la fiducia nella grazia, e anche nei nostri mezzi.

Una paura da superare

Il brano di Marco (Mc 4,35-41) mette un sigillo luminoso al percorso descritto sopra.

Ricordo con precisione un momento della mia vita in cui mi trovavo in uno stato di crisi, in quel vuoto mentale ed emotivo in cui ogni cosa, ogni azione, ogni progetto perde senso. Partecipavo alla messa e, alla lettura del brano – era la versione di Matteo di quello odierno –, la domanda «Perché avete paura, gente di poca fede?» (Mt 8,26), mi colpì come una martellata in testa. Produsse uno scossone che bastò per farmi ripartire.

Si usa dire che la pericope della tempesta sedata è una teofania, cioè una rivelazione della presenza di Dio. Certo, il dover dominare la fluidità di una materia come l’acqua – noi che abbiamo bisogno di tenere i piedi per terra! – non può non spaventarci.

E qui conta piuttosto sottolineare alcuni dettagli tipici del secondo evangelista. Sono particolari che enfatizzano la violenza della tempesta (le onde si abbattono sulla barca che si riempie d’acqua) e, insieme, la tranquillità di Gesù (sta a poppa e dorme su un cuscino), e soprattutto la paura dei discepoli che si sentono abbandonati («Maestro, non ti importa che noi andiamo a fondo?»).

Ma il particolare più rilevante è che Gesù tratta l’acqua impetuosa come materializzazione del demonio, al punto che, ritrovando la situazione dell’indemoniato di Cafarnao, che aveva guarito ordinando al demonio: «Taci! Esci da lui!» (Mc 1,25), dice al vento e al lago: «Taci, sta zitto!», o “chiudi la bocca!”, che è un po’ di più del «càlmati» della traduzione CEI. E fu grande bonaccia.

In questo, l’abilità narrativa di Marco e il suo realismo superano le versioni di Matteo e di Luca, che stanno già andando verso la trasformazione dell’episodio in parabola. Il che è vero, perché lo scopo dei vangeli è di istruirci mentre raccontano quanto ha fatto Gesù: storia e ammaestramento, come si sa.

Ma è noto che l’insegnamento riceve forza ed efficacia dal vivace realismo del racconto: sono due sottolineature che non andrebbero trascurate.

Sulla stessa linea è il rimprovero di Gesù, che si divide in due interrogativi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Anche in questo caso credo che Marco sia ancora una volta più efficace di Matteo e di Luca, perché, separando la domanda, Gesù si stupisce anzitutto della loro “paura” tutta umana, ma poi ne offre la ragione: la “mancanza di fede”.

Qui però, sorprendentemente, i discepoli non sono del tutto rassicurati, perché il timore rimane, ma ora è un altro, è totalmente diverso. Ed è quel sentimento che si sposa con lo “stupore”, e che porta al «Chi è dunque costui?», un interrogativo che attraversa come un filo rosso la prima parte di Marco, a cominciare dalla guarigione di Cafarnao, dal «Che è mai questo?», che dice la reazione della gente davanti a quello che era accaduto davanti ai loro occhi, per continuare poi con altre guarigioni (Mc 2,12), fino a che Gesù proibisce ripetutamente ai miracolati di esprimere il loro entusiasmo, e questo per non rischiare che la sua opera taumaturgica sia fraintesa, in quanto una visione completa e integrale della figura di Gesù aveva bisogno del finale sul Calvario, dove soltanto troveremo la piena professione di fede del centurione pagano.

Cosa raccogliere da questa storia? Pare chiaro che, per la comunità primitiva, ancora presa tra coraggio e paura, una vicenda come questa era fatta proprio per esortare a credere di avere ancora con sé la presenza del Maestro, anche nei momenti in cui poteva sembrare che egli dormisse.

Tale fiducia però ha di continuo bisogno di essere rafforzata, e a questo provvede in grado sommo l’eucaristia settimanale, dove ci nutriamo del corpo e sangue di Cristo (si veda quanto è stato scritto in proposito nella festa del Corpus Domini), ma solo dopo esserci nutriti alla mensa della Parola.

Finché non si capisce che la fede, per vivere in modo illuminato e pratico, ha bisogno di queste due mense, la partecipazione alla messa domenicale andrà gradualmente diminuendo, con il rischio conseguente che la stessa “trasmissione” della fede illanguidisca lasciando comunità di abitudinari poco significativi.

Concludo riportando la preghiera che Silvano Fausti appone a questo brano: «Signore, fa’ che io creda nella tua parola più che alle mie paure; che la fede mi permetta di accettare il mio nel tuo silenzio, la mia nella tua morte, senza lasciarmi suggestionare dalle resistenze ostinate che si scatenano in me».

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