XVI Per annum: Tra riposo e accoglienza

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Ci fu un tempo – me ne ricordo ancora bene – in cui la domenica pomeriggio si celebravano in chiesa i Vespri seguiti dalla Dottrina, una forma di catechesi sistematica e ordinata che seguiva i programmi del catechismo organizzati in trattati e schemi chiari e definiti, anche se piuttosto astratti. Il testo base era il Catechismo di Pio X, nato, se ricordo bene, in contesto antimodernista.

Ormai solo la mia generazione rammenta come erano trasmesse le verità di fede negli anni quaranta e cinquanta, e dunque temo che i più stentino a farsi un’idea di come allora andavano le cose.

Il sistema prevedeva che si imparassero a memoria frasi che puzzavano di latino tradotto alla lettera. Ancora ne ricordo qualcuna, come la “grazia” definita «un abito soprannaturale inerente all’anima nostra», un linguaggio tutto enigmi che mi chiedevo come potesse capirlo un bambino, e non solo. O là dove alla domanda: «C’è differenza tra Chiesa docente e Chiesa discente?», la risposta era: «C’è, e profondissima»!

Non intendo fare un processo al passato. Mi premeva solo segnalare l’immensa svolta suscitata dal Concilio quando la Parola di Dio fu messa al centro della catechesi e, se si poteva ancora parlare di Dottrina come illustrazione del Catechismo (non so se tale tradizione esista tuttora, so che resistette a lungo nella prassi pastorale: c’era chi continuò a dire: “altro che liturgia, è la dottrina che conta!”), certamente il cambio era rivoluzionario.

Ricordo ancora l’abitudine che presi, dalla fine degli anni sessanta, di frequentare le Settimane bibliche curate dall’Associazione Biblica Italiana, cui univo l’abbonamento a Bible et Vie Chrétienne pubblicata dall’abbazia belga di Maredsous, per poter essere in grado di commentare con intelligenza e profitto le letture bibliche del tutto nuove, dopo il passaggio al ciclo triennale A, B e C in sostituzione di quelle sempre uguali per ogni anno, volentieri centrate su Matteo.

Il Pastore e i pastori

Questi pensieri mi sono venuti davanti alle letture di questa domenica, dove il linguaggio non ha niente di astratto o teorico, ma è di una concretezza sorprendente e commovente.

Il tema, peraltro, è di quelli che si prestano a una visione di Dio percepito non come il “motore immobile” della filosofia classica, ma come “pastore” che ha cura del suo gregge. Il tema è diffuso nella Bibbia, e oggi ci viene presentato nella versione che ne dà Geremia (23,1-6). Come nel capitolo parallelo di Ez 34, il quadro presenta un dittico fatto di un contrasto totale: da una parte, la figura del pastore cattivo, dall’altra, quella del pastore buono, o bel pastore, generalmente più noto nella versione di Gv 10.

Certo, per apprezzare il testo nella sua densità semantica, è necessario lasciarsi prendere, e incantare, dalla ricchezza delle immagini, e studiarsi come farle rivivere nel linguaggio della predicazione. L’efficacia di un’omelia dipende in gran parte proprio dal linguaggio che viene usato, quello, per intenderci, che riesce a creare una sintonia anche emotiva con l’uditorio, e per ottenere questo risultato, le immagini sono di un’utilità suprema).

Come quasi tutti i profeti, Geremia è molto severo con i cattivi pastori, che «fanno perire e disperdono» il gregge del Signore. La ragione è che «non se ne prendono cura, e addirittura le scacciano». Il rimedio è subito presentato dal Signore stesso: «Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni, e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno».

Per un “gregge”, la dispersione è il male peggiore, così come per il “popolo di Dio” la disgregazione. Ma l’intervento di Dio non è diretto e non si sostituisce alla responsabilità degli uomini, piuttosto passa per la loro mediazione: «Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore». Nutrire, proteggere, radunare: la potenza delle immagini parla più di tante teorie, fossero anche quelle di certa teologia “sistematica”.

Così il pastore buono diventa una persona concreta, ancora una volta descritto come “germoglio” (si riveda quanto scritto nei commenti alla domenica 14a), nel quale è ovvio vedere il Figlio di Dio che si fa uomo, secondo quella speranza nel Messia che ha nutrito per secoli l’attesa di Israele.

Tutto ciò che segue è una fantastica profezia di colui che deve venire: «spunterà da Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio, ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra».

La storia si incaricherà poi di precisare che tipo di “re” sarà costui, in cosa consisterà la sua “giustizia”. Per ora conta sapere che, quando apparirà, «Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo». Il punto è tenere viva questa speranza.

Abbattere i muri

Se si vuole, anticipando i tempi della storia, vedere la realizzazione della profezia, non c’è via migliore che sostare sulla pagina mirabile di Ef 2,13-18. Il primo grande tema, che attraversa tutto il brano, richiama l’opera del pastore buono per radunare le pecore disperse.

Questo risultato si ottiene unendo i lontani con i vicini, abbattendo tutti i muri delle separazioni, così che si possa dire che «Egli è la nostra pace, colui che dei due ha fatto uno cosa sola». Il vertice del discorso è raggiunto quando si dice che per ottenere questo risultato, il pastore buono «ha abolito la Legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia».

Un nuovo pastore, una legge nuova, per una creatura nuova! Ecco realizzato alla perfezione uno degli obiettivi maggiori, se non il primo, del pastore buono.

I discepoli e la folla

Il vangelo (Mc 6,30-34) ci presenta un altro aspetto di questa figura: la cura delle pecore che si materializza nella compassione. Agli apostoli che tornano dalla loro missione raccontandogli tutto ciò che avevano fatto e insegnato, Gesù propone una pausa di riposo. La delicatezza di Gesù si dispiega pienamente nel modo con cui è fatta la proposta, basta che si stia minimamente attenti al linguaggio: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’».

Le figure non possono non evocare il celeberrimo Salmo 22, oggi recitato, o sarebbe meglio cantato, dopo la prima lettura: «Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce, rinfranca l’anima mia!». Quattro circostanze elencate in un brevissimo spazio per descrivere un riposo quieto e tranquillo! Ciò si spiega benissimo se si considera che, a causa del lavoro di accoglienza e di annuncio, i discepoli «non avevano neanche il tempo di mangiare».

Succede però un imprevisto, perché la folla che li aveva visti partire su una barca per raggiungere l’altra parte del lago, «da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero».

Che fare? Semplice, perché si crea come un circolo virtuoso: Gesù, che ha avuto compassione dei suoi discepoli affaticati, è lo stesso che ora ha “compassione” della folla, «perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose», e sarà lo stesso che appare nel successivo brano di Marco, dove, davanti alla folla che ha fame, dirà ai discepoli: «Date voi stessi loro da mangiare» (Mc 3,37).

La compassione di Gesù, che ricorre altrove in Marco (1,41; 8,2; 9,22), si esprime sempre con un termine greco, che è la forma verbale del sostantivo splanchnon, che significa letteralmente “le viscere”, a indicare metaforicamente il luogo delle emozioni così come del cuore. Ancora una volta è il caso di notare come il linguaggio di Marco, e non solo, voli molto lontano dalle astrazioni eteree e vaporose.

E che tipo di “riposo” Gesù regala ora alle folle? «Si mise a insegnare loro molte cose». Più in là nel percorso la compassione lo porterà a moltiplicare i pani per saziare una folla affamata. Qui però la precedenza è l’insegnamento. Strano, perché Marco, a differenza degli altri sinottici, riporta ben poco di quello che diceva Gesù. Ma questo non gli deve essere rimproverato, perché solo che si stia un poco attenti al testo, l’abilità narrativa del secondo evangelista è tale che i suoi racconti sono già delle “prediche”.

Siamo per natura abituati a pensare che l’insegnamento sia fatto di parole, ma sappiamo molto bene che i fatti sono spesso più eloquenti delle parole. Su questo, capita di frequente di sentir citare una celebre affermazione di san Paolo VI, che una volta ebbe a dire nella Evangelii nuntiandi che «il nostro tempo, più che di maestri, ha bisogno di testimoni». Su questo penso che si possa essere tutti d’accordo. Solo che viene da chiedersi: dove sono questi testimoni? Come possiamo riconoscerli?

La conseguenza naturale di quanto appena detto è che l’omileta deve acquistare, se ancora non ce l’ha, una familiarità con l’analisi linguistica dei testi di carattere “narrativo”, spesso più utile e convincente di quella più facile e abituale del linguaggio teologico, condizione essenziale per trarne la grande ricchezza dei contenuti e quindi trasmetterli agli uditori.

Mi chiedo in che misura, nell’insegnamento dei seminari, si tenga conto di tale esigenza. Il lamento sulla qualità “piatta” di certe omelie è costante, e il primo maestro impegnato su questo fronte è lo stesso papa.

Ebbi a imparare anch’io tale metodo di analisi molti anni fa, quando la riforma liturgica estrasse Marco dal cassetto e lo mise, provvidenzialmente, nelle nostre mani.

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