II Per annum: La missione del “servo”

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L’inizio del Tempo Ordinario aggancia con la conclusione del ciclo di Natale. La figura del servo, descritta nel primo dei quattro “canti” di Isaia letto domenica scorsa, viene ora ripresa e posta all’inizio del cammino di fede che la liturgia dispiega nel Tempo Ordinario. Non è un dettaglio, ma la precisa indicazione di un programma: i passi della nostra fede rimangono ogni giorno marcati dal riferimento a questa figura, i cui tratti erano stati riassunti nella festa del Battesimo di Gesù in due atteggiamenti di base: mitezza e fermezza, mitezza nel modo di proporsi, fermezza nella lotta per affermare il diritto e la giustizia.

Ora, il secondo canto del servo ci propone altri dettagli che contribuiscono ad arricchirne e a precisarne la figura (Is 49,3.5-6). IL testo è molto denso e pressoché ogni parola, i verbi soprattutto, va soppesata perché potenziale generatrice di varie suggestioni. Le raccogliamo sotto due campi di significato: l’origine del servo, anzitutto, e l’orizzonte della sua missione.

Avere il respiro del mondo

L’origine rimanda alla creazione riassunta in tre verbi: il servo esce dalle mani di Dio, che lo ha plasmato dal seno materno, lo ha onorato, e gli ha dato forza. La prima è un’immagine di grande tenerezza che rimanda alle mani del vasaio che, accarezzando una creta informe (cf. Ger 18,6; Is 29,16; Sal 119,73), la modella in svariatissime forme di bellezza.

Il gesto della creazione è stato tradotto in modo mirabile in una versione di Madre Lioba Munz, benedettina di Fulda, che fa piuttosto pensare al Creatore come a una mamma che tiene amorosamente tra le mani la testa del suo bambino.

Segue l’onore che dona dignità al servo non solo in quanto frutto della creazione, ma nel fatto stesso di averlo elevato alla gloria di essere servo del suo Signore: ricordiamo l’affermazione di un’antica colletta: «servire Dio è regnare»!

Infine, come coronamento di tutto, al servo viene donata la forza stessa di Dio, perché, così equipaggiato, sia messo in grado di realizzare la sua missione. Questa, infatti, è grande e si muove su un orizzonte immenso caratterizzato da altri quattro verbi: anzitutto restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele, ma poi diventare luce delle nazioni e portare la salvezza di Dio fino alle estremità della terra!

È il fondamento di quella che chiamiamo la “cattolicità” della Chiesa, termine su cui conviene tornare ogni tanto per evitare di strozzarlo in una qualifica settaria. Il significato di “cattolico” indica infatti, etimologicamente, un movimento verso tutto e tutti, una spinta che porta a scoprire, annunciare e sostenere il messaggio di Gesù in ogni evento e in ogni persona, ricordando che tale presenza di Gesù può esserci già prima che arriviamo noi, che il nostro annuncio potrebbe essere, più spesso che no, la scoperta di una sintonia, che nel vivere tale messaggio tutti possiamo essere di sostegno gli uni agli altri.

Se questo è vero – come è vero –, essere “cattolico” non può mai essere qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi, e men che meno come un’etichetta da usare come una clava contro chi “non appartiene” al gruppo quale si visualizza nell’istituzione. Essere cattolici significa, in tutta umiltà, essere nella gioia di aver ricevuto un dono, avere in noi il respiro del mondo.

Detto ciò, diventa per noi un insegnamento prezioso e un criterio di “evangelizzazione” trovare che la sequenza dei quattro verbi ci avverte che la cattolicità è radicata nella vocazione stessa di Israele, un popolo che, nel suo percorso storico guidato dai profeti, ha scoperto pian piano come la sua elezione ad essere “popolo di Dio” era “troppo poco”, tale da non poter essere considerata come un privilegio a proprio esclusivo vantaggio, ma da vedere piuttosto come una missione dal valore e dalla traiettoria mondiale, perché – come qualcuno ha detto molto bene – non c’è “vocazione” se non all’interno di una “convocazione”! Per il che san Paolo VI giustamente ricordava che la Chiesa o è missionaria o, semplicemente, non è.

Grazie e pace

Tale dilatazione di orizzonti è quella che Paolo respira dal giorno in cui, sulla via di Damasco, ha capito quali fossero i confini della sua vocazione: gli estremi confini della terra, nientemeno! Paolo si rivolge ai fratelli della «Chiesa di Dio che è a Corinto» (1Cor 1,1-3), che qualifica come «coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata».

La santità, dunque, prima di essere il traguardo glorioso raggiunto da qualche grande cristiano, è un dono che esiste già nella e dalla chiamata, e dunque va vista non come una medaglia da appendere al collo in premio dei nostri meriti, o un’aureola che circonda il capo di eroi della fede, ma piuttosto come una “provocazione” che ci spinge a comportarci all’altezza della nostra dignità che abbiamo ricevuto nel battesimo. E il primo compito che ci aspetta è quello di annunciare, con la parola e con la vita, «grazia e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo», come scrive Paolo.

La grazia è il cuore dell’annuncio cristiano, perché «per grazia siamo salvati» (Ef 2,8-9); da qui scende la gratitudine, che celebriamo ogni volta che ci raduniamo per l’eucaristia, che significa – come è noto – «rendimento di grazie»; infine, la “gratuità” resta lo stile di fondo del comportamento morale: vedi Mt 10,8. La vita di fede, e la santità che la deve caratterizzare e rivelare, è tutta qui.

La «pace», che è l’altra parte della vocazione/missione del cristiano, nasce e cresce se rimaniamo immersi costantemente nel circolo virtuoso della “grazia”.

L’Agnello e “il peccato del mondo”

Per chiudere il cerchio del discorso, il vangelo ritorna sull’evento del battesimo di Gesù nella versione che ne dà Giovanni (1,29-34). Nelle parole del quarto evangelista, quel momento rivela la coincidenza in Gesù dell’Agnello di Dio con il Figlio di Dio. L’Agnello è una figura che ci capita spesso di evocare, se non altro nel triplice Agnus Dei che accompagna il rito della comunione al corpo e sangue di Cristo nella messa.

Forse oggi potrebbe essere l’occasione di illuminare un po’ questa figura, anche solo perché, nell’immagine dell’agnello dei sacrifici ebraici, la prima generazione cristiana ha riconosciuto la figura misteriosa oggetto dei quattro “canti del servo” di Isaia, di cui abbiamo letto i primi due in queste ultime domeniche.

È l’Agnello che salva, che toglie con il suo sacrificio «il peccato del mondo», non solo nel senso che con la sua morte “paga per noi”, ma soprattutto perché, con il suo esempio portato fino all’estremo del dono della vita, mostra due cose:

1) il peccato del mondo è sempre causato dall’ingordigia di potere;

2) il peccato può essere eliminato ogni volta che viene fatta la scelta opposta: vivere la vita come dono di sé.

Torniamo al discorso della grazia, della gratitudine e della gratuità fatto sopra. Non è un caso che Giovanni, dopo aver indicato Gesù come Agnello, a differenza dei sinottici che traducono il senso del battesimo di Gesù anzitutto nei cieli che si aprono, ricostruendo così il contatto tra cielo e terra, dichiara la sua testimonianza così: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui». La colomba è il segno che gli viene dato, insieme allo Spirito, per riconoscere che il personaggio prima designato come agnello è il Figlio di Dio.

Se l’agnello richiama il sacrificio, la colomba è il simbolo dell’amore, e lo Spirito è amore. Essere battezzati «nello Spirito» significa dunque essere immersi nell’amore, quello che si traduce in dono, come suggerisce la figura dell’agnello.

Mi piace ricordare in proposito la sintesi espressa in una formula felice da un teologo americano, per il quale «il sacrificio è il linguaggio fisico dell’amore».

Sono nato e cresciuto in un’epoca in cui l’educazione al sacrificio era un punto centrale della formazione alla vita cristiana, fin da bambini, a partire dalle piccole mortificazioni, o “fioretti”, che eravamo invitati ad autoimporci per imitare Gesù e prepararci ad affrontare le difficoltà della vita. Poi è venuto un tempo in cui si cominciò a sorridere su queste cose, fino a che la logica tutta moderna del consumismo pare le abbia fatte sparire del tutto dall’orizzonte pedagogico. Peccato.

Temo che la figura dell’Agnello oggi faccia piuttosto pensare d’istinto alle innocue pecorine del presepio. Forse farebbe bene una bella ripassata del libro dell’Apocalisse, dove invece questa figura abbonda e troneggia.

L’Agnello, vittima e pastore

L’ultimo libro del Nuovo Testamento è nato in un contesto di turbamenti e di violente persecuzioni contro la Chiesa nascente e. per quei cristiani, la figura dell’Agnello è diventata il loro modello di riferimento, nella sofferenza e, insieme, nel trionfo finale. Essi si descrivono come «quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14); la loro sofferenza ha segnato però la sconfitta dello spirito del male: «essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello e alla parola della loro testimonianza, e non hanno amato la loro vita fino a morire» (12,11).

Questo loro sacrificio ha trasformato l’agnello in pastore, la vittima in capo e guida: «l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita» (7,17). Per questo la moltitudine celeste di angeli, esseri viventi e anziani, canta: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione… A Colui che siede sul trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli» (5,12-13).

Quest’ultima citazione forma il coro possente che conclude il Messia di Handel. Ascoltare quelle note trionfali che martellano al suono delle trombe uno ad uno tutti i sostantivi rivolti a lode dell’Agnello, che si rincorrono e si accavallano in una fuga maestosa, basta per dare al cuore una forza inaudita e a rendere con magnificenza fastosa la vastità immensa della “cattolicità”!

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