XXI Per annum: La porta stretta

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Pellegrinaggio di tutte le genti

Il libro del profeta Isaia si chiude con una grandiosa scena di raduno universale delle nazioni a Gerusalemme, nel giorno decisivo – conosciuto solo a YHWH – del giudizio e della salvezza definitivi.

L’elemento del giudizio finale non è trascurato. Al v. 16 si ricorda, infatti, che YHWH giudicherà «ogni carne» col fuoco e con la spada. Momento di purificazione (“fuoco”) della ganga, con separazione delle realtà positive dalle scorie della storia, apportatrici di male e di morte. Momento di separazione netta (“spada”) fra bene e male, fra opere e pensieri lontani dalla volontà di YHWH rispetto quelli che sono in consonanza con essa.

La menzione del giudizio cede però rapidamente il passo alla scena positiva del raduno universale e pacifico di tutte i popoli «sul monte santo a Gerusalemme» (v. 20): “vengo… a radunare tutti i popoli/’ānōkî… bā’ [corretto con apparato della BHS] leqabbēṣ ’et-kol-haggôyim”.

Si realizza il sogno intravisto fin dall’inizio del libro (cf. Is 2,1-5), nell’oracolo – molto posteriore al profeta storico – che vedeva il convergere di tutti i popoli a Gerusalemme per imparare i sentieri e le vie di YHWH, inclusi nel suo insegnamento, nella sua Torah. Trovare cioè la vita.

YHWH radunerà tutte “le lingue/hallešōnôt”, invertendo la dispersione “provvidenziale” attuata contro la superbia dell’egemonia culturale oppressiva e soffocante di “Babilonia”. Cf. Gen 11,9: «Per questo la si chiamò Babele (Bābel), perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra (kî-šām bālal YHWH šepat kol-hā’āreṣ) e di là il Signore li disperse (hĕpîṣām) su tutta la terra».

Tutti i popoli verranno a contemplare la gloria di YHWH (kebôdî), la sua totale alterità rispetto agli abomini degli uomini («mangiano carne di porco, di topo e altri abomini», v. 17). Chi partecipa a questi riti idolatrici è avvertito, in modo che possa allontanarsi dagli abomini, evitare il fuoco e la spada del giudizio e trovarsi invece fra “i superstiti/pelêṭîm” scampati al castigo divino. Essi riceveranno sopra di sé un “segno/’ôt” della loro nuova appartenenza religiosa.

Missione testimoniale inculturata

Scampati per grazia e impegno proprio, persone e gruppi scelti fra le nazioni liberate da YHWH e segnate con il sigillo di appartenenza a YHWH, saranno inviate da lui (wešillaḥtî) alle genti: Spagna (Tarshish) e Grecia (Yavan), che rappresentano le “isole lontane” dell’occidente, conosciute oggi come Europa; Libia (Put) e Lidia (Lud), terre africane; Meshek (Frigia) e Tubal (Cilicia), le terre dell’Asia.

Tutto il mondo allora conosciuto sarà raggiuto dall’azione testimoniale non di Israele in prima persona, ma delle genti che hanno aderito a YHWH. Un’opera di evangelizzazione («annunceranno la mia gloria») inculturata e rispettosa delle lingue, culture, situazioni vitali diverse per ogni paese, totalmente ignare di YHWH («mai sentito parlare di me») e dell’esperienza della sua alterità («vedere la mia gloria»).

Raduno universale

Le popolazioni inviate come testimoni evangelizzatori di YHWH e della sua gloria fra tutte le genti condurranno di là i giudei sparsi fra loro nella diaspora («i vostri fratelli»; cf. Is 60,4-5) e tutte le genti. Il loro trasporto “sul monte santo, a Gerusalemme/‘al har qodšî Yerûšālaym” (cf. Is 2,2-3) sarà un cammino che esprimerà visivamente “un’offerta a YHWH/minḥah laYHWH”, non più cultuale, ma personale, esistenziale. Un’offerta delle proprie persone, vite, culture, traguardi raggiunti, elaborazioni culturali espresse. Tutti valori che saranno assunti, trasformati e nobilitati dal loro ingresso definitivo ed escatologico nella città santa di Gerusalemme, sul monte del tempio che allora sarà escatologico, trasfigurato rispetto a quello terreno distrutto dalle potenze mondane.

Sacerdoti imprevisti della gloria di Israele

I popoli arriveranno a Gerusalemme con ogni mezzo di trasporto possibile: cavalli, carri, portantine e dromedari. Saranno un’offerta non cultuale ma esistenziale “in un vaso puro/biklê ṭāhôr”, simile ma diversa da quelle presentate dagli israeliti quando salgono al tempio di YHWH a Gerusalemme.

Tra i missionari evangelizzatori della gloria di YHWH – genti divenute appartenenti al Dio di Israele – che portano i popoli a Gerusalemme, YHWH si sceglierà dei sacerdoti e dei leviti (così interpreta anche il sommo esegeta ebreo medievale Rashi). Con il loro semplice mettersi a disposizione per offrire le genti al Signore, essi diventeranno sacerdoti e leviti non cultuali di un tempio fatto di persone che offrono se stesse in appartenenza totale a YHWH.

Verranno portati sul monte della gloria, Gerusalemme.

Al vedere il bambino Gesù, portato dai genitori nel tempio di Gerusalemme, l’anziano ebreo Simeone esclamerà: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,29-32).

In Gesù, gloria del popolo, si rivela alle genti la gloria di YHWH. Con lui è iniziato il pellegrinaggio escatologico universale. Gesù ha inaugurato una «via nuova e vivente» (Eb 9,20) per andare al Padre: il suo corpo di sacerdote esistenziale e non cultuale, offerto sul monte di Gerusalemme e glorificato nella risurrezione.

A tutti i popoli è ormai aperta la strada nuova del loro ultimo pellegrinaggio.

Li porta a spalle la stessa gloria di YHWH.

Lui apre la via, porta i deboli sul suo seno, attende felice sulla soglia del Regno.

La porta stretta

Dopo aver preso la decisione irremovibile («fece la faccia dura») di dirigersi verso Gerusalemme, il luogo in cui presentiva che avrebbe incontrato la fine dolorosa del proprio cammino (cf. Lc 9,51), Gesù la mantiene ben ferma (cf. Lc 9,53; 13,22; 17,11; 18,31; 19,28). Infatti, «non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33b).

Durante il cammino di continua offerta-di-sé compiuta da Gesù nella strada concreta di tutti i giorni, un tale gli pone la domanda sul fatto che siano pochi o no “coloro che si salvano/hoi sōizomenoi”.

Nel mondo giudaico si discuteva molto sulle condizioni richieste per la salvezza (cf. Lc 10,25; 18,18). Il participio presente medio-passivo (qui con senso medio) indica uno stato (o una “qualità”) in cui una persona si sforza in continuità di raggiungere la propria salvezza. Il significato medio sembra l’interpretazione migliore.

Anche se nel mondo giudaico la salvezza era attesa da YHWH al momento di entrare nel Patto stipulato con lui (to enter; così ha mostrato E.P. Sanders nella sua fondamentale opera Paul and Palestinian Judaism del 1976), era innegabile che anche al credente si richiedesse l’impegno fattivo a livello spiritale, morale e cultuale per rimanere nel Patto (to stay in).

Gesù invita l’interlocutore – ma rivolgendosi a tutti i presenti – a ingaggiare una continua lotta agonistica senza riserve (agōnizesthe) per entrare attraverso la porta stretta. Con l’immagine della porta stretta si alludeva alla serietà richiesta nel cammino della fede. Molti – preannuncia Gesù – cercheranno in futuro (quello escatologico) di entrarvi, ma non ci riusciranno. Nel passo parallelo di Mt 7,14 saranno pochi addirittura coloro che la troveranno.

Gesù è in cammino verso Gerusalemme e sta già attraversando la porta stretta del dono totale di sé…

Una lotta dura, come si rivelerà in modo eclatante nella “lotta/agōnia” della notte decisiva sul monte degli Ulivi (Lc 22,44 “genomenos en agōniai/diventato/entrato in lotta”).

Si è già alzato una volta…

Dopo aver dato molti insegnamenti sulle realtà definitive, ultime, escatologiche, con parabole e ammonimenti vari sul Regno e sulla vigilanza da attuare per potervi accedere (cf. Lc 12,35-59; 13,1-9), con la “parola-gancio/mot crochet” “porta (di casa) /thyra”, Gesù collega l’imperativo appena pronunciato con un racconto parabolico incentrato sulla “porta (di casa) /thyra” (e non “pylē/porta della città”) e su un “padrone di casa/oikodepotēs” molto autorevole, con potere decisivo su chi far entrare e chi escludere.

L’immagine del padrone di casa è molto comune negli insegnamenti di Gesù per alludere al Padre e all’incontro decisivo con lui che tutti gli uomini avranno al termine della loro vita per poter accedere al Regno da lui portato a pienezza.

Non debba succedere – intende ammonire Gesù – che voi perdiate l’occasione opportuna di trovare la porta ancora aperta e non la troviate ormai sbarrata ermeticamente (apokleisēi). Quando il padrone di casa si sarà alzato personalmente a chiudere la porta, non ci si potrà minimamente aspettare che lo faccia una seconda volta. Un autorevole padrone di casa mediorientale non compie mai siffatti gesti, che ledono la propria onorabilità e la gravità della decisione attuata una volta per sempre.

Il tempo è scaduto. La porta è rimasta aperta tutto il giorno. Adesso è chiusa.

Non vi conosco

A quel momento – prosegue Gesù, tenendo sempre sotto mira gli interlocutori – sarà inutile stare fuori, in piedi, e bussare ossessivamente alla porta chiedendo che il padrone in persona apra (kyrie, anoixon). Egli vi risponderà di non conoscere “di dove/pothen” siete, quale sia la provenienza della vostra vita, quale sia la radice da cui voi traete l’alimento del vostro cammino e la luce per seguire la direzione giusta.

Nel Vangelo di Giovanni la preposizione di provenienza “di dove/pothen” esprime una domanda fondamentale delle persone su Gesù: nessuno sa di dove sia o da dove provengano la sua potenza e la sua opera (cf. Gv 2,9; 4,11; 7,27bis.28; 8,14bis «so da dove vengo e dove vado»; 9,29.30 19,9), mentre lui sa benissimo che la sua origine è dal Padre (cf. Gv 13,1-3).

In quel frangente ultimo della vita, decisivo, sarà inutile – prosegue Gesù – accampare credenziali molto generiche. Se mangiare e bere alla stessa mensa era nel mondo mediorientale antico (e attuale) un segno di massima intimità, questo vuol dire poco quando si mangia in piazza con mille persone in una sera d’estate (o addirittura con quattro o cinque mila persone se si ha avuto la fortuna di essere presenti alla moltiplicazione dei pani compiuta da Gesù…). Troppa gente, troppi imboscati… Essere presenti ad ascoltare un comizio in piazza con migliaia di persone non significa poi minimamente avere una comunione profonda e personale con l’oratore di turno, anche se fosse Gesù.

In quel momento decisivo non ci sarà alcuna scorciatoia. Nessuna vip gate, nessun biglietto omaggio o posti riservati.

Operatori di ingiustizia

Gesù scivola ormai verso l’applicazione della parabola.

Il padrone di casa non sa di dove siano le persone che bussano, ma sa che sono “operatori di ingiustizia/ergatai adikias”.

La salvezza è sempre grazia e oggetto dell’azione sovrana e insindacabile di YHWH/Padre, unico Giudice e Salvatore. Ma l’“ingiustizia/adikia”, l’opposizione completa (a-dikia = “senza giustizia”, con alfa privativo iniziale), concreta e fattiva (ergatai < ergazō = “lavorare”) al patto stretto da YHWH col suo popolo (“giustizia = fedeltà al patto = ebr. edāqādh”) è senz’altro un elemento ostativo all’entrata nel Regno.

La misericordia di Dio è senza limiti e la salvezza dell’uomo è opera che spetta solo a lui. Resta fermo, in ogni caso, il forte ammonimento dell’apostolo Paolo: «O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?» (Rm 2,4). La giustizia umana, pallido ed esangue – ma ineludibile – elemento previo alla “giustizia” di Dio (cioè alla fedeltà salvifica al suo patto), è un requisito importante da esibire alla porta del Regno.

Gli “operatori di ingiustizia” saranno esclusi dal regno della giustizia e di pace inaugurato da Gesù in nome del Padre e dal Padre portato a compimento alla fine dei tempi (cf. Rm 14,17: «Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo»).

Gli ultimi, primi

Gli “operatori di ingiustizia” saranno gettati fuori del Regno, in uno stato di buio e di freddo, lontani cioè dalla vita e dal calore di Dio. Gusteranno il fallimento totale della vita, che inizia già adesso se si esclude la giustizia di Dio dalla propria vita. Gesù prospetta minacciosamente l’eventualità dei fatti, perché questi in realtà non accadano. Lui è venuto a salvare il mondo, non a condannarlo. (Cf. Gv 3,16). Non gode del fatto che l’empio muoia, ma del fatto che si converta e viva (cf. Ez 33,11).

Per Gesù non esiste alcun automatismo salvifico. Nessuno deve presumere di ottenere o di raggiungere la pienezza della vita («entrare nel Regno») per meriti acquisiti per appartenenza etnica a Israele o per una conoscenza superficiale di Gesù, del suo insegnamento, della vita ecclesiale e sacramentale.

Per entrare nel Regno occorre una profonda esperienza personale e vitale di comunione con Gesù che passa per la porta stretta del dono totale di sé per gli altri. Entrare nel Regno sarà la fioritura, il frutto maturo di questa esperienza.

Esperienza di fede, unita ad un amore fattivo per gli altri fratelli di viaggio.

Ci saranno persone e popoli che sono considerati ultimi per conoscenza esplicita di Gesù, ma che saranno stati operatori di giustizia secondo coscienza. Diventeranno primi.

Passeranno avanti a coloro che hanno avuto una conoscenza anche superficiale di lui, ma che sono stati di fatto operatori di ingiustizia.

Non senza l’aiuto dello Spirito Santo, passeranno per la porta stretta dell’onestà, del dono generoso della propria vita, come ha fatto Gesù.

Primi, ultimi.

La logica di Dio. La logica del Regno.

Primi, ultimi; ultimi, primi.

Non dubitiamo però della volontà esplicita del Padre: Primi tutti! (cf. Mt 20,1-16).

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