22 dicembre: Quelli che sono in cammino

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1. I magi sono protagonisti del racconto di Matteo, nel quale la nascita di Gesù appare solo come una cosa già avvenuta, quasi una premessa, si direbbe. Ma vale il discorso fatto sopra per i pastori: se conta, ovviamente, che Gesù sia nato, per noi conta di più che egli venga trovato, accolto, riconosciuto. E questo è un problema di allora e di oggi, e questa è la ragione per cui stiamo facendo questa Novena: ritrovare Gesù, perché si rischia di perderlo, e per far questo ci facciamo aiutare dai primi che lo hanno trovato, tornando a riflettere sulla loro ricerca, sulla loro gioia nel ritrovamento, e sulle conseguenze che tale ritrovamento ha portato nella loro vita.

Non è facile. Anche i magi, come i pastori, sono diventati figurine da presepio: rivestiti dalla poesia del Natale, magari anche travolti dalla stupenda grandiosità del brano di Isaia che si legge all’Epifania, e che vede una Gerusalemme rivestita di luce e polo di attrazione per tutte le genti, la loro storia ha dato vita, soprattutto nel tardo medioevo, a sfarzosi cortei in cui sfolgora la magnificenza e la gloria dei grandi. Non per niente, alla semplice e un po’ vaga qualifica di magi, la tradizione ha appioppato loro la qualifica di re, che è rimasta talmente incollata al loro nome fino a diventare unica: i tre re li chiamano in certe nazioni.

Diciamo la verità: con un simile rivestimento, che credo continui a sedimentare nella nostra mente fin dall’infanzia, è difficile collegare questi personaggi, che non si sa neanche quanti fossero (il numero “tre” è derivato dal numero dei loro doni), a una situazione di deserto. Ma basta fare un po’ attenzione al racconto per cogliere la loro fatica.

2. Per cominciare, mentre i pastori si mettono in viaggio per andare poco distante, a Betlemme, i magi vengono da molto più lontano. In base a un esile segno, una “stella”, intraprendono un cammino che deve essere stato lungo e pieno di ostacoli e di imprevisti: non c’erano allora le comodità aeree offerte oggi dalla compagnia degli Emirati!

Credo che molti sappiano che l’inglese travel vuol dire “viaggio”, ma la parola ha assunto questo significato derivandolo dal francese travail, lavoro, che è il nostro travaglio!

Ed è ancora Andrewes a descrivere così il loro cammino: «È stato duro venire, faceva freddo, / proprio il tempo peggiore dell’anno / per un viaggio, per un viaggio così lungo, / le strade fangose e il clima rigido, / nel cuore stesso dell’inverno».

T.S. Eliot ne ha fatto l’incipit del suo Viaggio dei magi, tutto orchestrato non solo sulla fatica del viaggio, ma anche su un arrivo che non sembra essere esattamente il premio atteso dopo tanta pena: «arrivammo a sera, non un minuto prima / trovammo il posto: in fondo potevamo anche essere soddisfatti».

Nella loro storia non c’è, come per i pastori, un fulgore luminoso che quasi li acceca, ma solo una “stella”, per la precisione la “sua” stella, il che richiede già uno sforzo di discernimento, non granché, si direbbe. Anche loro si sentono smarriti. Per cercare informazioni finiscono nel posto sbagliato, perché era naturale che nascesse in una reggia colui che era stato profetizzato come «Re dei giudei» (Nm 24,17).

La città è sconvolta, Erode si allarma, chiede agli esperti, e la risposta è «Betlemme» (cf. Mi 5,1-3). A questo “turbamento” di tutta la città non segue niente: sacerdoti e scribi, che da esperti conoscono i libri sacri, danno l’indirizzo, lo ripetono da professori, ma non sembrano crederci neanche loro: non fanno un passo. Non basta conoscere la Bibbia a memoria per avere la fede! A muoversi sarà Erode, che teme un rivale potenziale: anche lui vorrà trovare il Bambino, ma non certo per adorarlo.

3. I magi proseguono il cammino. La stella, che sembrava fosse sparita da una città cieca e sorda, ora riappare e li guida al luogo dove si trovava il bambino. Al vederla «provarono una gioia grandissima». Entrati nella casa, «videro il bambino con Maria sua madre, e si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra».

Hanno dovuto operare una conversione, rivedere le loro aspettative, a cominciare dalla loro idea di regalità. Hanno faticato nello scrutare il cielo, hanno penato dovendo percorrere un lungo tragitto, si sono grossolanamente sbagliati nella ricerca del “luogo”, ed è probabile che, alla fine, la scena che si sono trovati davanti (anche se Matteo non parla più di una stalla, ma di una casa) non abbia contribuito molto ad attenuare il loro sconcerto.

Quando Eliot, con fine ironia britannica, fa dire loro alla conclusione del viaggio. «In fondo, potevamo anche essere soddisfatti», intende probabilmente esprimere la sensazione che, alla fine, non era poi andata così male!

Al di là delle sfarzose trasfigurazioni che ne ha fatto l’arte del tardo medioevo, questo credo che sia il senso vero della storia dei magi.

E deve averlo capito bene Pasolini che, nel suo Vangelo secondo Matteo, fa scendere i magi lungo un sentiero dirupato giù verso una povera casa.

Ma già ci aveva pensato Bosch, nel Trittico dell’Epifania del Prado, a fare del “luogo” una capanna sconnessa e piena di fessure, che sembra sul punto di sfasciarsi.

E però, nel racconto troviamo tutti i passi necessari come tappe del cammino di fede: l’attenzione a un “segno” che fa partire un cammino, la decisione di seguire il segno anche se il percorso che si apre è un procedere a tentoni, la richiesta di aiuto a chi sa le cose, il ritrovamento di quanto si cercava cui segue la “grandissima gioia” della scoperta e, infine, la confessione di fede che si esprime nel prostrarsi ad adorare il bambino.

Non è certo un cammino trionfale, non è certo quell’idea di fede che servirebbe a rendere facile tutto! È sicuramente un percorso che assomiglia più alla traversata di un deserto, immagine peraltro che prende tutto il suo realismo nel paesaggio orientale da dove i magi provenivano.

4. Ma forse ciò che colpisce di più in questa storia è l’ostinazione dei magi nel proseguire la loro ricerca. Nonostante la povertà del “segno”, nonostante la non incoraggiante risposta di Gerusalemme, che dà informazioni ma non si muove, loro non si fermano se non quando hanno raggiunto il loro obiettivo: adorare il «re dei giudei».

Scrive Giuliana di Norwich: «Il cercare con fede, speranza e carità piace a nostro Signore, e il trovare piace all’anima e la riempie di gioia» (Una rivelazione dell’amore, c. 10, p. 160): queste sono le due gambe su cui cammina la vita di fede.

Allora non è più una sorpresa il fatto che il titolo dato da loro al bambino coincida con quello che sarà posto sulla croce: «Questo è Gesù, re dei giudei». Ma già avevamo visto che, in Cristo, la greppia anticipa la croce! Basterebbe questo a farci leggere questi racconti dell’infanzia non come favole per bambini, ma come preludio di quanto avverrà nel Gesù adulto. Perché il mistero qui rivelato è poi il cuore del vangelo. Se è vero, infatti, che la greppia porta alla croce, è altrettanto vero che la croce diventa, in Cristo, una greppia, un luogo di rinascita dove possono trovare una risposta i nostri deserti: dove lo smarrimento trova una direzione, dove la solitudine trova un compagno, nella sofferenza come nella gioia, dove il senso di sterilità trova una fecondità persino nella morte!

5. C’è un ultimo punto da rimarcare in questa storia, ed è che i magi, dopo che sono arrivati, hanno visto, si sono prostrati e hanno offerto i loro doni, è come se scomparissero: al centro del quadro rimane il bambino. «Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese».

A differenza dei pastori, il loro atteggiamento sembra meno “missionario”: non proclamano, non annunciano: tornano a casa.

Ma, allora, non è cambiato niente? Non proprio. Già andrebbe notato il fatto che ora la loro strada è altra, è diversa. Non credo sia solo per sfuggire a Erode, penso piuttosto che il dettaglio indichi in loro un mutamento di prospettiva, di sguardo sulla vita, una conversione.

L’ha ben capito Eliot, che ci dice come i magi si rendano conto di un ribaltamento inaspettato: «questa Nascita / è stata dura e amara agonia per noi, come una morte, la nostra morte». E aggiungono: «Siamo tornati ai nostri luoghi, nei nostri regni, / ma non siamo più a nostro agio qui, nell’antica legge / in mezzo a un popolo straniero incollato ai suoi dei».

È la condizione del cristiano che ha avuto la rivelazione del Dio nella mangiatoia, del Dio crocifisso, del Dio che si fa “trovare” nei margini, nei deserti dove ha scelto di abitare. È quell’aspetto della fede per cui il credente si ritrova a vivere la fatica di un naturale disagio per rimanere fedele a una logica diversa da quella in cui si trova immerso.

Mentre Erode vuole eliminare chi ne minaccia il potere, mentre i capi e gli scribi “citano” le Scritture senza trarne alcuna conseguenza, i magi hanno capito che la legge della vita, proclamata e mostrata da questo nuovo messia, è la logica del dono. Questo è il loro messaggio, il loro vangelo.

Ed è chiaro che, in “regni” dove invece trionfano l’egoismo, la rapina, la sopraffazione e lo sfruttamento, loro, che hanno conosciuto un salvatore venuto a mettersi nelle nostre mani, non riescano più a convivere pacificamente con questa altra logica, è naturale che si sentano “a disagio”.

Sarebbe bene che, ad ogni Natale, il credente ritrovasse un po’ di tale disagio, ricordando che, pur rimanendo nel mondo e vivendone in pieno la vita, egli vi rimane pur sempre come «ospite, straniero e disperso» (cf. 1Pt 1,1; 2,11).

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