XXV Per annum: O Dio o i soldi

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Molto concreto il messaggio delle letture liturgiche odierne. Il discepolo del Signore non vive in cielo, ma sulla terra. Ma vive sulla terra col cuore che serve il cielo, non schiavo di alcunché. Non ci sono “zone franche” per le quali la parola di Gesù non abbia qualcosa da dire nella verità per la felicità. Il vangelo è una buona notizia liberante per ogni campo d’azione dell’uomo, anche per quella prettamente economica o sociale ad ampio spettro. Il suo fine è infatti è quello di portare le persone da un ‘ābad a un altro ‘ābad, dalla schiavitù al servizio.

Ruggito

«In verità, il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo piano ai suoi servitori, i profeti. Ruggisce il leone: chi non tremerà? Il Signore Dio ha parlato: chi non profeterà?». YHWH ha ruggito di fronte alla situazione del suo popolo e Amos non può non mettersi a profetare. Fare il profeta non era il suo mestiere. Come ricorda nello scontro al calor bianco con il sacerdote Amasia (Am 7,10-17), egli non faceva parte della confraternita dei veggenti né aveva qualcuno nella famiglia che avesse fatto in precedenza questo mestiere.

Secondo Am 1,1ss Amos era un allevatore di una certa importanza nel villaggio di Teqoa, 9 chilometri a sud-est di Betlemme (l’attuale Khirbet Taqu‘a), strapiombante a est sul deserto di Giuda. Il termine “allevatore/nōqēd” – che ricorre solo qui in tutta la Bibbia – designava nella stele di Mesha i notabili di un paese. In Am 1,1 designa forse un allevatore di bestiame di livello superiore a quello di un semplice mandriano.

In Am 7,14 il profeta descrive il suo mestiere precedente alla vocazione profetica come quello di un “mandriano/bôqēr” e “pungitore” o “scortecciatore” di sicomori (bôlēs šiqmîm), operazione forse necessaria per farli diventare commestibili. Gli studiosi hanno appurato che nessuna di queste due attività veniva compiuta a Teqoa. Egli dovette quindi probabilmente spostarsi per il suo lavoro, acquisendo in tal modo molteplici conoscenze.

Amos visse al tempo dei regni divisi di Israele e di Giuda. Al nord (con capitale Samaria) regnava Geroboamo II (783-743 ca. a.C.), re di Israele, mentre a sud comandava Ozia (781-740 a.C.), re di Giuda. Amos profetizzò tra il 760 e il 722 a.C., forse per breve tempo.

Sconvolto dal ruggito di YHWH e messo a parte dei suoi piani, Amos (“il portato/il portatore di un fardello”) si trova catapultato da sud a profetizzare a Bet El, nella tana del leone. A Bet El c’era il santuario fatto costruire da Geroboamo I al confine meridionale del regno del nord per evitare che la gente andasse a Gerusalemme per il culto. Di fatto, era diventato la cappella reale. Il profeta si trova a portare il fardello del peccato del popolo di YHWH e il fardello di annunciare ad esso la parola del Signore senza se e senza ma.

A ognuno il suo oracolo

L’attività di Amos non si limitò alla proclamazione della parole di YHWH al regno del Nord (= Israele), il contenuto cioè delle visioni avute (“Parole di Amos… che vide in visione/Dibrê ‘Amôs… ‘ăšer ḥāzāh”, Am 1,1), ma si estese nel suo raggio di azione anche con contro Giuda e le nazioni straniere. YHWH infatti è re di tutti i popoli e ha una parola di giudizio per ciascuno essi.

Dopo gli oracoli contro le nazioni, contro Giuda e Israele (Am 1,3–2,16), il libro di Amos annuncia il castigo previsto da YHWH nei confronti di Israele (3,1–6,14): alle accuse e alle minacce (3,1–4,13) segue una serie di “guai/hôy”, lamenti profetici accorati di fronte al male compiuto (5,1–6,14). Le visioni vere e proprie di Amos sono raccolte in Am 7,1–9,10) e prevedono la fine della casa di Israele. Il libro si conclude però con una nota positiva nella quale viene intravista la restaurazione delle sorti di Israele (9,11-15).

Ingiustizie sociali e “spolveratine” clericali

Il santuario di Bet El era diventato di fatto la cappella reale e Amasia, il profeta venduto al potere regale, permetteva che al suo interno si dicessero solo parole gradite al regnante d turno. Sentita la forte predicazione di Amos, lo invita ritornare al suo paese e a guadagnarsi là il proprio pane profetizzando visioni. Amos gli risponde sul muso, prendendolo a male parole e prevedendo per lui un futuro fosco segnato dall’impurità totale e da una morte spregevole (cf. Am 7,10-17). Amos rinfaccia ad Amasia di essere un mestierante prezzolato, mentre lui si è trovato “costretto” a profetizzare solo su un impulso “leonino” di YHWH.

Amos non è un letterato raffinato, ma un uomo legato al lavoro manuale, a contatto con la fatica quotidiana dell’“uomo della strada”. Trovandosi catapultato al centro religioso e politico del regno del Nord, Israele, vede immediatamente le storture inaccettabili del sistema. Il prolungato tempo del regno di Geroboamo II era segnato dalla prosperità economica e dalla tranquillità politica. Questo nascondeva però grandi disparità sociali tra ricchi e poveri, tra i ricchi possidenti e latifondisti e i poveri salariati ridotti quasi in schiavitù alla loro mercé. Il lusso sfrenato della corte di Samaria, con i suoi letti d’avorio (resti dei quali trovati negli scavi archeologici) e le sue orge che coinvolgono maschi e femmine, fanno a pugni con la miseria totale della stragrande maggioranza della popolazione.

Ammantare tutto questo con una giustificazione religiosa soffiata sopra come una “spolveratina” da parte dei profeti cultuali e da sacerdoti prezzolati dal re come Amasia fa infuriare il concreto “laico” Amos, dai piedi ben piantati per terra. Un vero vir probatus che potrebbe guidare benissimo anche oggi molte comunità di cristiani…

Facciamo “cessare” i poveri

Tra la quarta visione in cui il profeta preannuncia che è maturata la fine di Israele (8,1-3) e la quinta in cui si intravede il crollo del tempio (9,1-4), il libro di Amos contiene una serie di oracoli sulla fine di Israele (8,4-14).

Alla denuncia dei commercianti disonesti, dei fraudolenti e degli sfruttatori (8,4-8, la lettura odierna), segue l’annuncio del castigo consistente in un giorno di oscurità e di lutto (8,9-10), al quale subentrerà una misteriosa ricerca affamata e assetata della parola di Dio (8,11-13). Il castigo del culto contaminato non potrà che realizzarsi in maniera ineluttabile (8,13-14).

Le parole di Amos prendono di mira direttamente per primi coloro che “calpestano il povero” (haššō’ăpîm ’ebyôn) e “annientano i miseri della terra/lašbît ‘ăniwwê-‘āreṣ” facendoli “riposare/lašbît” per sempre nel riposo eterno…

Amos li invita ad ascoltare con attenzione le sue parole, perché lo sfruttamento dei poveri (cf. 2,6-7) è una delle principali ragioni del giudizio di Dio contro il suo popolo (cf. anche 4,1; 5,11). Secondo Os 1,4 sarà YHWH a “far riposare/distruggere” la casa di Israele! Amos ha di mira le persone arroganti, i potenti a livello socio-economico, che mettono in ginocchio le classi sociali inferiori.

Le accuse si specificano. Prima di tutto, nel mirino entra il commercio disonesto. Innanzitutto Amos denuncia come i commercianti vivano un culto vuoto di significato, un’ipocrisia religiosa. Esso è per loro una pura osservanza sociale che non incide sul loro vissuto religioso. Con efficace astuzia retorica, Amos mette in bocca agli stessi accusati i loro propositi. I commercianti aspettano con ansia che trascorra la festività religiosa del novilunio, vissuta a malincuore, per tornare quanto prima al loro commercio di grano.

Le feste religiose – in fondo YHWH stesso… – non sono altro che un intralcio che fa ritardare o interrompere il flusso delle transazioni commerciali. La festa mensile della “luna nuova” (cf. Nm 10,10; Is 66,23; Ez 46,1) è bissata da quella settimanale del sabato, che ogni sette giorni impedisce di “aprire il sacco” (espressione tecnica per “vendere i cereali”). “Vendere il grano/šābar šeber” non è però un’espressione innocente. Contiene in sé il verbo šābar che significa anche “rompere”, distruggere”. Il gioco di parole di Amos sembra voler dire che ogni attività commerciale tende di fatto, nella sua radice, a danneggiare in vari modi i poveri, affamandoli e portandoli alla distruzione fisica.

La disonestà dei commercianti si manifesta tramite la manipolazione dei pesi e delle misure. Come pesi si usavano pezzi d’argento, che potevano essere “aggiustati” in modo fraudolento. Le misure principali dei cereali erano invece l’efa (circa 36 litri) e il siclo (circa 12 grammi) che serviva a pesare l’argento. In tal modo si falsificavano le bilance. «Ridurre l’efa significava rubare sul peso della merce e aumentare il siclo significava richiedere più denaro del dovuto. Il retto utilizzo delle bilance è raccomandato in più punti dell’Antico Testamento (cf., p. es., Lv 19,36; Ez 45,10), che ne condanna l’uso ingannevole (cf., p. es., Mi 6,11; Pr 11,1). In questo versetto, tuttavia, il crimine della disonestà nel commercio viene abilmente coniugato con l’ipocrisia religiosa» (L. Lucci).

Un povero per un paio di sandali

La religiosità di questi commercianti è falsa, vuota. Il loro culto è insensato. Lo vivono a malincuore, perché time is money. Il culto fa perdere tempo al business, e al business disonesto… A loro non interessa YHWH, ma il denaro, il loro vero idolo. Guardando solo ad esso, non si guarda in faccia a nessun altro, fossero anche delle persone (oggi anche continenti interi!) ridotte in miseria per ogni genere di motivi.

Sono i “poveri economici/dalli” (equivalenti al “povero/’ebyôn” successivo) – poveri perché impoveriti –, che sono costretti a vendersi al miglior offerente per ripianare i loro debiti o portare a casa la sera qualcosa da mangiare per la famiglia.

Agli occhi dei commercianti disonesti e senza scrupoli di alcun genere essi valgono quanto un paio di sandali. Schiavi o liberi, per loro gli esseri umani valgono quanto una parte infinitesimale di merce. E poi c’è sempre lo scarto del grano da vendere, magari facendolo passare per buono o facendolo in ogni caso pagare come fosse di prima qualità.

Time is money, tutto si compra o si vende. Ogni cosa o persona ha il suo prezzo.

Memoria d’elefante

Puntuale giunge il giuramento di YHWH e l’annuncio del suo castigo (vv. 7-8).

YHWH giura per se stesso, per la sua signoria (“orgoglio di Giacobbe”, cioè di Israele, il regno del Nord). La memoria di YHWH non conosce alcun vuoto. È una memoria di ferro, una memoria di elefante. Nessuna delle azioni (malvage) dei ricchi potenti del regno del Nord sarà dimenticata.

Il castigo è espresso con il linguaggio apocalittico che descrive una teofania punitiva di YHWH. La terra si scuoterà di dosso i suoi abitanti peccatori. Il “terremoto” seminerà morte e provocherà lutto e lamento. Sarà come l’esondazione annuale del fiume Nilo (“il Fiume/Ye’ôr”). Abbassando il livello delle proprie acque dopo l’esondazione, il Nilo lascia limo, fango e detriti che fecondano la terra. Non sarà il caso di Israele. Esso vedrà solo l’esito mortale delle proprie azioni malvage, il fango sterile e i detriti aridi di una vita passata all’insegna della falsità, della religiosità ipocrita e dell’ingiustizia sociale.

Ricchezza: Giano bifronte

Le strutturazioni retorico-letterarie proposte da R. Meynet sono sempre illuminanti, anche per chi non le condivide in pieno per l’articolazione delle pericopi o per la loro titolazione. Secondo l’autore, Lc 15,1–17,10 è una lunga sequenza intitolata “Ciò che fra gli uomini è esaltato è abominio davanti a Dio”. Si riferisce alla parola di Gesù riportata in Lc 16,15b. Egli articola la sequenza in modo concentrico:

15,1-32  Accogliere il fratello peccatore che si pente: tornato dal lavoro dei campi, non

               inorgoglirsi di non aver disobbedito ai comandamenti del padre.

        16,1-8         L’amministratore scaltro si fa degli amici con il denaro: conta sulla misericordia

               16,9-13 Il denaro, simbolo o idolo

                   16,14         I farisei amici del denaro si fanno beffe di Gesù

               16,15-18       La Legge, simbolo o idolo

        16,19-31 Il ricco stolto non si fa amici con il denaro: conta sulla Legge

17,1-10  Perdonare il fratello che si pente: tornato dal lavoro dei campi, non inorgoglirsi di

               aver fatto tutto ciò che era stato comandato.

Il c. 16 del Vangelo di Luca tratta del tema della ricchezza e della sua ambiguità e pericolosità per il discepolo di Gesù.

Il brano evangelico di oggi inizia con la parabola dell’amministratore infedele (per i più, cf. BJ), disonesto (S. Grasso), scaltro (L. Bovon), astuto (G. Rossé) (Lc 16,1-9 Crimella, Bovon; 16,1-8 BJ). Infedele o astuto? Dove cade di fatto l’accento della parabola, dove si trova il suo tertium comparationis tra il racconto fittizio costituito dalla parabola e la realtà che costituisce il referente extradiegetico, cioè la realtà indicata dal brano: il regno di Dio, il Padre, il Figlio, il giorno escatologico del Giudizio…?

A livello letterario sembra di dover distinguere fra la parabola (16,1-8a), l’applicazione fatta da Gesù (vv. 8b-9), altre applicazioni (vv. 10-13) e alcuni detti sui farisei amanti del denaro e alcuni detti sulla Legge (vv. 14-18).

L’amministratore disonesto, ma scaltro

Nella parabola, un amministratore viene accusato di “sperperare/diaskorpizein” i beni di un uomo ricco che lo aveva assunto come “economo/amministratore/oikonomon”. L’amministratore è solo accusato del fatto, ma l’accusa non viene dimostrata nel resto del racconto.

Risulta difficile identificare le modalità operative con le quali l’amministratore danneggiasse la consistenza e stabilità dei beni del proprio signore, “sperperandoli”. È ipotizzabile che l’amministratore “sperperasse” i beni del suo padrone per via della quota supplementare che egli imponeva di propria iniziativa come spesa di commissione spettante a lui oltre alla somma dovuta dai vari acquirenti come debito nei confronti del proprio padrone per l’acquisto di derrate alimentari o prodotti agricoli vari. La somma totale del debito veniva in tal modo ad aumentare in modo considerevole, così da indurre vari clienti a procrastinare l’estinzione del debito con il pagamento completo dell’importo se non addirittura a sottrarsi totalmente a tale impegno, arrecando un danno economico più o meno consistente al proprietario dei beni, che non poteva rientrare in tale modo dagli investimenti fatti, ricavandone un guadagno più o meno consistente da reinvestire eventualmente in altre attività.

Che la realtà fosse questa o un’altra, che l’amministratore potesse dimostrare la propria innocenza e correttezza amministrativa o no, egli si premunisce immediatamente verso proprio il futuro assicurandosi buone relazioni con le persone debitrici maneggiando con scaltrezza il denaro. Abituato al lavoro sedentario tipico di un amministrativo, egli sente di non avere le forze fisiche sufficienti per intraprendere un lavoro manuale in proprio e in un lavoro dipendente. Non se la sente neppure di andare in giro a elemosinare, per la profonda vergogna che il fatto avrebbe inflitto alla sua onorabilità.

Lode all’astuzia preveggente

L’astuto amministratore – ancorché disonesto – convoca i vari debitori e fa annullare la quota di commissione prevista per ciascuno dei loro importi, stimolando in tal modo la loro buona volontà a onorare l’estinzione totale del loro debito nei confronti del suo padrone. Allo “sperpero” egli aggiunge così una frode nei documenti contabili, il falso in bilancio.

Che agendo in tal modo egli svelasse la propria coda di paglia dimostrando in modo inoppugnabile la verità delle voci negative sul suo modus operandi o che egli mettesse in campo una strategia studiata in modo da assicurarsi il proprio futuro tramite buone relazioni umane istituite con i debitori, resta il fatto che la sua scaltrezza viene lodata dal “signore”.

Per alcuni studiosi questi è il padrone dei beni (S. Grasso), per altri è il Signore Gesù, che non loderebbe la disonestà ma la scaltrezza dell’amministratore nel procurarsi in pochissimo tempo, quello che precede l’eventuale/probabile licenziamento in tronco per giusta causa, le risorse umane ed economiche che lo avrebbero protetto nel futuro, assicurandogli giorni sereni e senza preoccupazioni.

L’incertezza su chi sia il “signore” che loda l’astuzia dell’operato dell’economo fa terminare la parabola al v. 7 per chi pensa che sia il Signore Gesù a lodare (così G. Rossé), vedendo nei vv. 8-9 il giudizio di Gesù e l’applicazione della parabola.

Personalmente, con S. Grasso e F. Bovon, credo che al v. 8a sia “l’uomo ricco”, il signore/padrone della parabola a lodare l’astuzia del suo sottoposto: «… osservo che il padrone non si complimenta con l’amministratore in assoluto, ma lo loda per aver agito con intelligenza, cioè nel proprio interesse e a proprio vantaggio (il che rientra nella prospettiva di un uomo ricco). Da buon perdente il kyrios, il “signore” si inchina davanti alla classe del suo amministratore. Non è la prima volta né l’ultima – annota ancora F. Bovon – che il Gesù di Luca scandalizza il borghese e presenta comportamenti indegni per mettere meglio in evidenza quello che un esegeta spagnolo [M. de Burgos Núñez, ndr] chiama “lo scandalo della giustizia del regno di Dio”. Con un’argomentazione a minori ad maius».

Amici con la disonesta ricchezza

Al v. 8b Gesù nota come «i figli di questo mondo» – cioè coloro che appartengono in pieno (“figli”) a un modo di vivere e di pensare puramente umano – siano “più scaltri/saggi/astuti/phronimōteroi” verso coloro che condividono la loro condizione esistenziale rispetto a quelli che appartengono al mondo della luce, al mondo di Dio rivelato da Gesù nel vangelo.

Gesù invita i discepoli ad essere saggi e preveggenti come l’amministratore scaltro, facendosi degli amici con la ricchezza, che in un mondo o nell’altro è sempre collegata nel suo inizio e nel suo accrescersi a una dose più o meno grande di ingiustizie varie: sfruttamento delle persone e delle risorse (sopra e sottosuolo), egoismi privati e collettivi, prezzo basso del pagamento per le materie prime…

Lo si può fare con il giusto prezzo pagato per le materie prime, la giusta ridistribuzione degli utili, investimenti produttivi per il territorio, finanziamento di progetti in paesi impoveriti, sostegno ad opere caritative strutturate in modo intelligente e continuativo…

Gli amici fatti servendosi della ricchezza ingiusta sono i poveri, qualunque volto essi possano avere. Al momento del pieno compimento del regno di Dio essi accoglieranno con gioia i loro benefattori per condividere una vita di comunione divina iniziata già sulla terra servendosi dei beni materiali.

“Sperperatore” il Figlio?

[Domanda provocatoria: non potrebbe essere anche Gesù l’amministratore “prodigo/sperperatore” che “disperde” i beni del Padre per far del bene e farsi amici i fratelli poveri che lo circondano? Se il Padre è “prodigo” (cf. Lc 15,1-32, la lettura evangelica di domenica scorsa, che precede immediatamente il brano evangelico odierno), perché non dovrebbe essere “prodigo e sperperatore” anche il Figlio? (cf. Lc 15,1-3, accusa ben precisa avanzata dai farisei e dagli scribi!). A minori ad maius? Cf. sotto].

Fedeltà e affidabilità

Le applicazioni della parabola (vv. 10-13) si basano sul riscontro di «un parallelismo tra una buona gestione dei beni materiali e la gestione della ricchezza vera: il denaro non può che rimanere uno strumento» (L. Lucci).

Le applicazioni spostano quasi sempre leggermente l’asse argomentativo della parabola e la sua pointe (avviene anche nel nostro caso) per “applicare” la sua logica dominante a sotto-argomentazioni che esprimono però altre linee di forza argomentativa che si dipartono e divergono in parte da quella principale espressa nella parabola.

Chi è fedele/affidabile/pistos nel poco/poco importante (pistos in greco significa prima di tutto “affidabile”) lo sarà anche nel molto/molto importante (di qualsiasi genere), così come è vero il contrario.

Chi non è stato fedele/affidabile nell’amministrare il mammona connotato dall’ingiustizia non si vedrà assegnata l’amministrazione del mammona vero. Il denaro viene designato con un termine aramaico, traslitterato in greco, che rimanda alla fissa solidità (mamōna < √ ’mn) del denaro (che nel Medio Oriente antico consisteva, come nel caso del talento, in un pesante blocco di argento che variava dai 26 ai 40 kg) in cui si finisce per credere come ad uno strumento solido di salvezza, un idolo a cui sacrificare tutto e tutti. Del resto, anche ai nostri giorni, in tempi di crisi, si ricorre all’investimento in lingotti d’oro… A chi è stato infedele/inaffidabile nell’amministrare il denaro connotato sempre più o meno dall’ingiustizia, non sarà affidata di certo la ricchezza vera, la vita divina quale fioritura della vita evangelica che sboccia nella pienezza del regno inaugurato da Gesù.

Chi non è stato fedele/affidabile nel gestire (la ricchezza) altrui non si vedrà assegnare di certo la gestione della ricchezza propria, quella vera ed esente dall’ingiustizia, la vita divina.

Dio o i soldi?

L’ultima applicazione va alla radice della questione.

Gesù afferma che come nessun “servitore domestico/oiketēs” può “servire/douleuein” due padroni contemporaneamente, mettendo a disposizione totale di ciascuno di essi la propria vita, le proprie forze, l’intelligenza, l’affetto ecc. Il suo cuore sarebbe diviso e sarebbe indotto a fare preferenze, finendo in tal modo per amare di più uno e “amare (molto) meno/odiare” l’altro. L’espressione “odiare” col significato di “amare di meno/ in seconda battuta, come “seconda scelta”, si ritrova varie volte nella Bibbia applicata anche alle relazioni coniugali di un uomo con più mogli, delle quali una è “la preferita” e l’altra/le altre è definita “l’odiata”. Si finisce per affezionarsi maggiormente a un padrone e a trascurare/disprezzare l’altro.

L’applicazione finale di Gesù, radicale, giunge in tal modo ben preparata ma secca nella sua formulazione: «Non potete “servire come schiavi/douleuein” Dio e Mammona/il denaro/i soldi».

Economia circolare

Tirando le fila che partono dalla linea argomentativa principale della parabola fino ad arrivare alle varie diramazioni semantiche attuate nelle varie applicazioni, Gesù conclude le sue parole ai suoi discepoli scongiurando la sciagurata possibilità che l’uomo possa trovarsi nella condizione di vivere da schiavo del denaro.

Questo accade quando esso non è più visto come strumento per la vita e per il fare del bene ai meno abbienti, ma un vero e proprio fine a cui sacrificare tutto, un idolo ben fisso, stabile, rassicurante a cui affidare la propria vita nel mentre stesso che la prosciuga con l’ingiustizia, lo sfiancamento delle forze per acquisire sempre profitti maggiori, lo stravolgimento di ogni affetto familiare e sociale… Una vita succhiata via dal cuore e dai polmoni, intossicata di lavoro e di droga per mantenere i ritmi imposti dal sistema, senza più margini di tempo da dedicare alle realtà umane e divine fondamentali, che fanno espandere la vita umana nella sua pienezza di vita divina, filiale, fraterna, comunionale.

Dio vuole essere l’unico a essere servito con dedizione totale. Egli però non è un padre padrone, un idolo manipolabile a piacimento ma che finisce per succhiare la vita. Egli è la fonte della vita d’amore e di comunione manifestata totalmente in Gesù.

Servire Dio non significa vivere da schiavi (il douleuein greco e l’‘ābad ebraico) ma “servire(cultualmente)” la vita, l’amore, la liberazione. Essere a servizio esclusivo della vita divina e della sua potenza comunionale fa fiorire la vita che spinge dal di dentro dell’uomo per trovare espressione piena nella comunione con Dio e con gli uomini. Il denaro resterà un semplice strumento di cui servirsi per il bene, non un idolo da adorare pensando che ci faccia più liberi, nel momento stesso in cui ci fa diventare schiavi dalla vita rinsecchita.

Il Dio di Gesù è un Dio che libera, espande la vita, crea comunione.

Servire questo Dio è libertà, servizio (cultuale-esistenziale) che rigenera l’uomo nella sua dignità e nella sua verità, perché collocato in una linea d’onda di connaturalità con le spinte vitali più vere che animano il cuore dell’uomo: amare creando comunione attorno a sé.

Dio o i soldi?

Dio.

Dio è la vera economia circolare.

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