XXV Per annum: Il primo? Ultimo e servo

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Nel vangelo di Marco, che è considerato dalla tradizione il più vicino all’insegnamento di Pietro, la figura dell’apostolo è tratteggiata come una rappresentanza emblematica della condizione generale e dell’itinerario di conversione di tutti i discepoli di Gesù.

La sua fatica di accogliere la mentalità e il progetto di Gesù sono un esempio della “durezza di cuore” (cioè della difficoltà o resistenza a comprendere) di tutti coloro che si trovano di fronte alla consapevolezza di Gesù di essere un messia incamminato verso la croce.

Il secondo annuncio della passione

Il riconoscimento esplicito da parte di Pietro innesca un insegnamento intensivo di Gesù ai discepoli, che nel vangelo marciano prende la forma di un triplice annuncio.

Se l’attesa del popolo e dei discepoli andava verso una manifestazione gloriosa del Re di Israele, liberatore dallo straniero, Gesù predice loro il proprio traguardo di sofferenza e di morte. Questo giustifica anche quel clima di silenzio e di riservatezza che Gesù chiede di mantenere attorno alla sua identità messianica, e che il facile entusiasmo delle folle e dei miracolati rischia di compromettere.

Ogni volta, nel vangelo di Marco, l’annuncio di Gesù è seguito da una reazione insufficiente dei discepoli, che non capiscono e si ritraggono dal confronto con Gesù, discutendo invece di prestigiosi posizionamenti nel futuro vittorioso scenario del regno messianico. Se il primo rimprovero di Gesù è toccato a Pietro, poi è la volta dei discepoli, tutti insieme, a essere messi a confronto con la straniante scala di valori di Gesù.

In questo secondo annuncio, Gesù richiama ancora più sbrigativamente l’esito di tradimento e di morte che lo aspetta. I discepoli, che non hanno il coraggio di interrogarlo, passano invece tutto il tempo a discutere delle loro future gerarchie, manifestando tutti un’incongrua ambizione a primeggiare. Gesù propone loro come modello della vera grandezza “nel regno” la capacità di accogliere e servire i più piccoli.

Non si tratta di riprodurre comportamenti inadeguati per età e formazione, quanto di dare valore, invece che al prestigio o al potere, alla capacità di accoglienza e di servizio. L’accoglienza della debolezza del bambino diventa il simbolo della gratuità e del distacco interiore da se stessi che deve esprimere ogni autorità conforme al regnare di Gesù messia. In questo chinarsi verso il piccolo fino a riconoscersi in lui sta tutta la grandezza a cui i discepoli possono aspirare: quella che fa assomigliare a Gesù.

Il valore di questa gratuità viene espressa dalla benedizione misteriosa che Dio accorda a chi decide di assumere il suo stesso stile e i suoi stessi criteri, così come Gesù li ha compresi, praticati e insegnati anche ai suoi.

Il servizio per i cristiani cessa di essere una virtù morale, misurata sulla buona volontà o sulle disposizioni dei singoli, ma diviene luogo teologico della manifestazione e comprensione autentica del Padre di Gesù, rivelazione del suo volto e cammino di trasformazione profonda.

L’uomo, che fin dall’inizio è posto nel giardino di Dio “per servire e custodire” (Gen 2,15), è il Figlio; egli rivela il volto del Padre, chino sul più piccolo dei suoi. L’uomo che accoglie e serve i “piccoli” della storia, realizza la sua vocazione di “immagine e somiglianza” (Gen 1,26) con Dio.

Così, il paradosso della realizzazione umana trova in Gesù il modello di riferimento, già annunciato e illustrato dall’autore della Sapienza di Salomone nel giusto perseguitato dagli empi.

Con una figura ardita, l’autore fa parlare gli empi, solo per concludere che «la pensano così, ma si sbagliano» (Sap 2,21). Eppure, sono affermazioni che vanno a comporre la maggioranza delle aspettative popolari sull’intervento divino nella storia! Per l’autore, invece, Dio è solidale con il giusto, proprio come il giusto è solidale con Dio nella difesa del bene e delle sue ragioni, nell’unico modo possibile: con il servizio che trasforma la propria vita.

Fedeltà fino alla fine

Appunto come dice Giacomo nella seconda lettura: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,17-18).

Il bene non esiste in confezioni da mezzo chilo. Si dà sempre come storia di libertà e di scelta, che trasforma il cammino personale, a partire dall’interiorità. Per conoscere il bene, bisogna necessariamente diventare buoni, come Dio: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio» (Mc 10,18); «Siate misericordiosi come Dio, il Padre vostro, è misericordioso» (Lc 6,36).

Come il bene è realizzato massimamente in Dio, che è il sommo Bene, così il confronto di Dio con la storia degli uomini espone il bene alle scelte della libertà umana. Il rifiuto da parte degli uomini del bene “tocca” un Dio “disarmato” e “vulnerabile”, pur se per nulla “sconfitto” e tanto meno “rassegnato”.

Il giusto, che è “figlio di Dio”, ossia della sua stessa specie, del suo ambito divino, non è tale perché invulnerabile e atarassico, indisturbato: è tale perché coinvolto, quale terminale storico e personale di questo conflitto che interessa anche lui, e che anzi lo attraversa.

Paradossalmente, il giusto sa che non sarà abbandonato, perché Dio è fedele a se stesso, è il vero Bene; e darà al suo Figlio la sua vittoria sul male, quella della fedeltà fino alla fine, quella che farà dire a Gesù: «Il principe di questo mondo viene; ma in me egli non possiede nulla» (Gv 14,21).

Anzi, proprio per questa fedeltà di Gesù fino alla fine, il male viene sconfitto nella sua morte, accolta per amore quale suprema consegna di se stesso al Padre e ai fratelli: «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al compimento» (Gv 13,1).

Quella morte, frutto della violenza più tragica e vile, è la dichiarazione suprema della solidarietà e della vicinanza di Dio a tutti uomini, offerta di perdono infinito e servizio di riscatto e liberazione anche per i condannati (Lc 23,43; Rom 3,23-25).

La morte di Gesù, che ama e perdona anche i suoi crocifissori e riscatta chi con lui è condannato, fa esclamare al centurione: «Realmente quest’uomo era giusto” (Lc 23,47); oppure, secondo le parole di Marco: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il dono di sé

Vivendo il dono di sé in solidarietà con il Bene che è Dio, il Padre, Gesù realizza in sé la vocazione originale dell’uomo, e da pioniere apre e porta a compimento per primo il cammino di ogni giusto, figlio autentico di Dio: «Infatti a colui, per il quale e per mezzo del quale sono tutte le cose, che conduce alla gloria dei numerosi figli, conveniva rendere perfetto, per mezzo della sofferenza, l’apripista della loro salvezza» (Eb 2,10).

«Anche noi, dunque, dal momento che abbiamo una tale nube di testimoni che ci circonda, con pazienza corriamo la gara che ci viene messa innanzi, dopo aver deposto tutto ciò che appesantisce e il peccato che ci assedia, avendo lo sguardo fisso su Gesù, autore e perfezionatore della fede, il quale, in luogo della gioia che gli si proponeva davanti, si sottopose alla croce, sprezzando l’ignominia, e ora siede alla destra del trono di Dio» (Eb 12,1-2).

Il soccorso di Dio per Gesù avviene proprio per la sua preghiera «a Colui che poteva liberarlo dalla morte» (Eb 5,7), non di essere esonerato dal passaggio della morte, ma di realizzare la volontà del Padre (Mt 26,39-44), che è la vita di tutti nel suo Figlio (Gv 6,40; 11,25-26; 1Gv 5,11-12). E fu esaudito per il suo atteggiamento di profondo rispetto e di totale affidamento (Eb 5,7; Gv 11,41-42).

Perciò, anche Paolo esorta i Filippesi (e noi con loro) ad avere lo stesso modo di pensare di Gesù (Fil 2,5-11), che ci rivela il progetto del Padre (1Cor 2,16).

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