XXVI Per annum: Hanno Mosè e i profeti

di:
“Hôy/Guai!”

Nel commento alla prima lettura della domenica scorsa, XXV del tempo ordinario C, abbiamo già introdotto la figura del profeta Amos, allevatore e coltivatore di sicomori che da Tekòa, un villaggio del regno di Giuda a 9 km a sud-est di Betlemme, si trova catapultato a predicare nel santuario di Betel e a Samaria, la capitale del regno del Nord (= “Israele” nel linguaggio di Amos) sotto Geroboamo II (789-748 a.C.). La sua predicazione è rivolta contro le disparità sociali e le sopraffazioni dei ricchi verso i poveri, combinate con una religiosità esteriore e vuota vissuta dai potenti.

La seconda sezione del libro (Am 5,1–6,14) è costituita dal “Libro dei guai”. L’accorato grido profetico “hôy/guai” non è una maledizione, ma un’invettiva addolorata e piena di pathos che il profeta rivolge agli interlocutori per rimproverarli delle loro mancanze verso YHWH e le fasce più deboli della popolazione, in vista della loro conversione.

Am 6,1-14 è la parte conclusiva della sezione dei “guai” e, con un tono oracolare, prende di mira soprattutto il senso di sicurezza dei capi di Samaria. Essa sarà disintegrata miseramente. Am 6,1-7 accusa i benestanti di Samaria, gaudenti e infingardi, mentre 6,8-14 è una collezione di frammenti sul castigo che attende gli abitanti di Israele. Tutti due i brani sono specificazioni articolate del primo “guai” di Am 6,1a, sottinteso anche in 6,3 e 6,13.

Spensierati

Amos si rivolge con parole sferzanti, anche se addolorate, contro coloro che, con un atteggiamento continuato nel tempo, “si sentono sicuri/spensierati” e “sono fiduciosi” in ciò che rappresenta “Sion” in Giuda e “Samaria” in Israele: organizzazione politica, potere economico e sicurezza religiosa. La comprensione del testo non è del tutto agevole. Ci aiutiamo con le indicazioni degli esegeti Horacio Simian-Yofre e Laila Lucci nei loro pregevoli commentari.

Con «casa di Giacobbe» (Am 3,13) e «casa di Giuseppe» (Am 5,16) Amos designa la casa regale. «Casa di Israele» (Am 6,1b) sembra invece riferirsi a un gruppo previlegiato del popolo. «Resto di Giuseppe» (5,15) e «rovine di Giuseppe» (6,6) indicano, infine, l’insieme del popolo.

“Crema” o “feccia”?

Gli “spensierati e fiduciosi” sono definiti da Amos come “i marchiati/i designati/i notabili”. Sono i membri della “casa di Israele” in qualche modo distinti o previlegiati da parte dei loro protettori potenti, sempre che rimangano fedeli ad essi. Il privilegio di “marchiati/notabili” è stato dato loro dalla (a differenza della traduzione CEI 2008) «prima della nazione», un titolo applicato altrove solamente ad Amalek (Nm 24,20). Si tratta di Israele e della sua capitale Samaria. «Prima» è chiamata anche Babilonia come città (Gen 10), assieme ad altre del regno di Nimrod (Gen 10,10).

I notabili della casa di Israele si sono rivolti fiduciosi ai regnanti della prima fra le nazioni. Il “confidare/bāṭaḥ” può avere significato positivo (di fiducia nel Signore (Is 12,2; 26,4) o negativo per la fiducia in se stessi, negli alleati militari o negli idoli (Is 32,9; 36,4-9; Mi 2,8; 7,5; Ab 2,18; Sof 2,15; 3,2). «La prima delle nazioni» rimanda forse anche al senso di continua protezione che il popolo presumeva di avere continuamente da parte del proprio Dio, YHWH. L’elezione diventa presunzione di impunità (cf. Am 6,2ss). La tranquillità economica e politica goduta sotto il lungo regno di Geroboamo II poteva indurre a questa fallace presunzione.

Le persone altolocate (i “perforati/incisi/designati/notabili”) sono designati con un termine raro, forse aristocratico: il loro essere “notabili/nequbê” potrebbe trasmettere l’idea di “crema della società”, intendendo invece dire “la feccia della società”… A questa gente, dalla moralità discutibile, si rivolge nonostante tutto la casa di Israele, intesa qui forse come l’insieme del popolo.

Questo quadro dei capi della nazione, ricchi gaudenti e spensierati, completa la descrizione delle ingiustizie sociali da essi commesse, descritte nei capitoli precedenti e sintetizzate più avanti in Am 6,6b: «Non soffrono per la rovina di Giuseppe».

Orge e avori

I “marchiati/notabili” non possono certo soffrire o dolersi per la sorte del popolino (il «Resto di Giuseppe», 5,15; le «Rovine di Giuseppe», 6,6a). “Rovine di Giuseppe” chi?

Sono troppo presi dal loro stile di vita lussuoso, spensierato, avulso dalla realtà, forse addirittura uno strumento della loro politica. Un mondo fatto di orge megagalattiche, lauti pranzi a base di teneri agnelli e vitelli succulenti strappati ai poveri contadini o procurati da fidati amici del “mondo di mezzo”. Crapule stratosferiche consumate attingendo senza pudore da larghi crateri di vini prelibati, senza accontentarsi delle più normali coppe… Meglio usarli per questo scopo i “crateri” – devono aver pensato –, invece che per il servizio al tempio (Nm 7; 1Re 7; Ger 52,18-19).

Troppo comodi questi divani-letti su cui stravaccarsi, sbracati comodamente fra compiacenti “amici di merende”. L’avorio dei letti (ritrovato negli scavi archeologici insieme a vari pettini) brillano alla luce delle lampade, fino a stordire.

Non c’è bisogno della band. Pensano di essere loro stessi imitatori più che degni del grande cantore di salmi, il re Davide. Si azzardano addirittura a fabbricare loro stessi strumenti musicali alla bisogna, e non sono certo salmi quelli che escono dalle loro tumide labbra. «Canticchiano al suono dell’arpa» (L. Lucci) oppure «Parlano al modo dei balordi» (H. Simian-Yofre), sentenzia seccamente Amos.

Flessuosi i loro corpi, ammorbiditi e profumati da intensi oli ricercati. A che serve usarli per i re (Davide, 1Sam 6,12-13), sacerdoti (Aronne, e figli, Lv 8,12.30), per le offerte e gli oggetti sacri (Es 25,6; 29,2.7.36; 30,25-26, Lv 2,4 ecc.)? Meglio usarli per il fitness e il welness…

Un clima da orgia rumorosa, più che banchetti raffinati. Bunga bunga. Baccanali di gentaglia, parvenus. Peones dalla testa ormai andata in fumo, drogata dall’atmosfera della capitale, lontani da casa… Drogati di “alta” lega.

Perciò, l’esilio!

L’esilio è la punizione ben meritata di questa “crema” (andata a male)/feccia”.

Dopo l’oracolo di accusa addolorato, l’hôy, giunge infatti puntuale come una stilettata l’annuncio classico del castigo: “Per questo/lākēn”… (cf. Am 5,5.27; 7,11.17). Appartenenti privilegiati alla “prima/rē’šît” delle nazioni (6,1c), i “marchiati/notabili” se ne “andranno in esilio/yiglû” (< gālāh) “per primi/be rē’šît” come scelta avanguardia… (cf. 4,2).

Finiranno i “crateri di vino/mizraḥê yayin” (v. 6a), e con essi “finirà /sār” anche il “cratere/orgia/baldoria/mizraḥ” (v. 6b; cf. v. 6a) degli “sdraiati/serûḥîm”. E non sono i giovani a essere sdraiati…

Un attimo. Finito il vino, finita la musica, finita l’orgia. L’occhio si apre, il pensiero tenta di far memoria locale e già ci si trova in cammino verso l’esilio.

Nel 722 a.C., caduta Samaria sotto Sargon II, camminando in colonna verso Damasco gli “sdraiati” avranno tutto il tempo per rimettersi in piedi, smaltire la sbronza, rimpiangere i boriosi sogni di potere annichiliti in un attimo, contemplare amaramente il pallone gonfiato del loro senso di impunità, ammosciato per sempre ai bordi delle piste del deserto siriano.

Il grosso del popolo, povero, rimarrà a casa.

Povero sì, esiliato no.

A sé-ità

La musica non cambia nella parabola evangelica raccontata da Gesù. L’evangelista Luca la recupera, solo fra i sinottici, forse perché il problema della ricchezza e della povertà era molto sentito nella comunità destinataria del suo vangelo.

Il ricco che ogni giorno banchetta lautamente, riccamente vestito, vive in un mondo tutto suo. Anche lui non si cura certamente delle “rovine di Giuseppe”. Banchetta tutti i giorni (che noia!), ammalato di bulimia asociale. Nessun commensale è menzionato accanto a lui. I cinque fratelli compaiono solo alla fine del racconto. Sei fratelli, una famiglia “imperfetta” e senza alcun tocco di delicatezza femminile proprio di una sorella.

Al ricco di solito si porta la spesa a casa. Così non ha bisogno di uscire per strada e ac-cor-gersi che ci sono anche delle persone umane a questo mondo. Non occorre vedere gli altri per sopravvivere, altrimenti si sarebbe costretti a vivere da esseri umani, di badare al cor

Vive da solo, mangia da solo. Una monade, una a sé-ità completa.

Il ricco “epulone”, lo si chiama. Il suo nome combacia con ciò che mangia: “lat. epulae: vivande, cibi, alimenti, convito, banchetto, pasto, pranzi”. Qui l’uomo è veramente un tubo digerente, è ciò che mangia.

Senza nome, senza origine, senza futuro di fama e di ricordo riconoscente. Senza volto e senza anima. Innominato. Banalità del puro esserci. Sommato ai suoi fratelli, una globalizzazione dell’indifferenza.

Il ciel l’aiuta

Il “povero/ptōchos” Lazzaro (gr. Lazaros, ebr. ’El ‘āzar/Dio aiuta”) giace alla porta del ricco, “buttato /ebeblēto” lì (< ballō = gettare) dalla vita e dalla malvagità degli uomini. Desidera riempirsi la pancia degli avanzi che cadono dalla mensa del ricco, ma il suo desiderio viene frustrato. La donna sirofenicia vedrà invece soddisfatto il suo desiderio di mangiare le briciole dei figli (Mc 7,24-30)/dei padroni (Mt 15,21-28). Gesù “cambia idea” e decide di ac-cor-gersi di lei, guarendo a distanza la sua figlioletta.

Non sarà il caso del povero Lazzaro. Di fronte a lui sta uno cieco, sordo e muto. La bocca solo per ingoiare, non per emettere suoni propri della specie umana.

Solo i pericolosi cani randagi (kynes) vengono da Lazzaro e gli leccano le ferite, aggravando la sua situazione. I kynes infatti non sono i cagnolini domestici di cui parla la donna sirofenicia… (kynaria, Mt 7,27; Mt 15,26).

Lazzaro è solo come un cane e… di fatto Cane non mangia cane, come dice il proverbio.

Muore il povero, muore il ricco. Muoiono allo stesso modo. Sorte comune dei mortali. No comment.

Lazzaro, secondo l’immaginario del tempo, viene portato nell’intimità del padre di Israele, Abramo. Si ricongiunge con la sua radice lontana.

Non ha fatto niente di bene, niente di male. Non ha pregato, non ha imprecato, Non ha fatto nulla, ma “il povero il ciel l’aiuta”. La beatitudine è per loro, il regno è per loro: «Beati i poveri/hoi ptōchoi, perché vostro è il regno di Dio», è la prima beatitudine pronunciata nel “discorso della pianura” nel Vangelo di Luca (Lc 6,20b).

Dio dona la sua felicità al povero, a prescindere. Egli è beato perché viene Gesù con il Regno, e venendo prende la loro parte.

A prescindere.

Grande abisso

Muore il ricco. «Fu sepolto». Si trova nell’Ade (greco, di Luca), regno non solo delle ombre in attesa di vita migliore (lo Še’ōl ebraico), ma ormai visto come sede dei puniti con i tormenti del fuoco, del freddo e dello stridore dei denti.

La lontananza totale da Dio fa male. Freddo glaciale, caldo mortale.

Il ricco non ha maledetto, né bestemmiato, non ha neppure pregato. Non ha fatto alcunché di male, non ha fatto mai niente di alcunché nella sua vita. Ha solo mangiato. Questo non sembra una colpa così grave per cui si debba andare nell’Ade/gli Inferi.

Eppure è lì che si trova. Ed è da lì che intravede il padre dimenticato da tanto tempo, Abramo.

Chiede sollievo al suo bruciore, il misero. Chiede un servizio di schiavo al povero Lazzaro che neppure conosce, ma che adesso ricorda molto bene, col suo nome addirittura.

Il tormento aguzza la memoria. Troppo tardi.

«C’è un grande abisso fra noi e voi», ricorda “il padre” Abramo al “figlio” perso epulone. Questi non ha nome né nell’aldiqua né nell’aldilà. È da sempre e per sempre un emerito “Signor Nessuno”.

La radice c’è – Abramo –, il popolo di appartenenza pure – Israele –, ma il ramo si è staccato da tempo.

Non c’è solo il ribaltamento delle situazioni post mortem, come se la vita futura fosse una semplice ricompensa che ribalta le sorti e ricompensa le sventure vissute in terra secondo una ferrea legge della retribuzione.

Il dramma non sta solo nell’opposizione dei destini finali di Lazzaro e del ricco epulone, ma nel “grande abisso/chasma mega” che esiste da sempre – fin da questa vita – fra chi non si accorge degli altri e il Dio di Israele che invece ha un occhio tutto particolare per i poveri.

Chi non si ac-cor-ge e non si cura degli altri, in special modo dei poveri, non è in linea col cuore del Dio della Bibbia, il cuore di YHWH.

Il ricco doveva conoscere il contenuto della Torah e le ammonizioni dei libri sapienziali.

Non serve appellarsi ad Abramo, dopo aver ignorato per tutta la vita le normative di YHWH emanate per mano di Mosè.

Troppo tardi qui, troppo tardi là.

YHWH, il Dio dei poveri

Per i poveri YHWH ha stabilito molte leggi, messe per iscritto nella Torah, nei Profeti/Nebi’îm e negli Scritti/Ketubîm.

La Torah è chiara. I libri del Levitico e del Deuteronomio sono infatti ricchi di regolamentazioni in materia.

La protezione per i leviti, i forestieri, l’orfano e la vedova – poveri per antonomasia secondo la Bibbia – era assicurata dalla decima triennale: «Alla fine di ogni triennio metterai da parte tutte le decime del tuo provento in quell’anno e le deporrai entro le tue porte. Il levita, che non ha parte né eredità con te, il forestiero, l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città, mangeranno e si sazieranno, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro a cui avrai messo mano» (Dt 14,28-29).

Ci sono anche norme per le spigolature e le racimolature: «Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,9-10).

Secondo il Deuteronomio, in Israele non ci sarà (utopicamente) alcun povero e bisogna lavorare perché questo avvenga di fatto. La realtà però è sempre diversa dal traguardo finale: «Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà in possesso ereditario. […] Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova» (Dt 15,4.7-8). Lo stesso Gesù deve riconoscere: «I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete…» (Mc 14,7).

Il libro del Deuteronomio ricorda anche che al salariato la paga doveva essere data subito, a fine giornata, senza alcun ritardo: «Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città. Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a quello aspira. Così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato» (Dt 24,14-15).

Il profeta Isaia, da parte sua, descrive bene la missione di un vero profeta: un’attenzione privilegiata per i miseri, per liberarli da ogni oppressione: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto» (Is 61,1-3a).

Dio, infatti, ama i poveri, come ricorda il libro dei Salmi: «[YHWH] rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati. Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi» (Sal 146, 7-9).

Da parte sua, il sapiente Siracide ammonisce chiaramente, e ogni buon ebreo doveva conoscere bene il suo insegnamento: «Figlio, non rifiutare al povero il necessario per la vita, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. Non rattristare chi ha fame, non esasperare chi è in difficoltà. Non turbare un cuore già esasperato, non negare un dono al bisognoso. Non respingere la supplica del povero, non distogliere lo sguardo dall’indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, non dare a lui l’occasione di maledirti» (Sir 4,1-5).

Giobbe ricorda come vanto la propria cura per i poveri richiesta dal Siracide: «Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho lasciato languire gli occhi della vedova, se da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l’orfano – poiché fin dall’infanzia come un padre io l’ho allevato e, appena generato, gli ho fatto da guida –, se mai ho visto un misero senza vestito o un indigente che non aveva di che coprirsi, se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldàti con la lana dei miei agnelli, se contro l’orfano ho alzato la mano, perché avevo in tribunale chi mi favoriva, mi si stacchi la scapola dalla spalla e si rompa al gomito il mio braccio» (Gb 31,16-22).

Hanno Mosè e i Profeti

Meglio tardi che mai.

Il ricco epulone si premura con Abramo di far ammonire i cinque fratelli ancora in vita perché non lo seguano nella sua misera condizione finale. Chiede a lui di mandare Lazzaro, risorto, a supplicarli di cambiare vita, che molto probabilmente si strascinava sulla stessa scia di quella dello sventurato fratello “epulone”.

«Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino loro», risponde seccamente Abramo al ricco epulone, pur chiamandolo con affetto “figlio”. «Se non ascoltano loro nella lettura settimanale della Torah e dei Nebi’im – risponde Abramo – non crederanno neppure a un risorto che apparisse loro».

Noi abbiamo Mosè (= la Torah) e i Profeti (i Nebi’îm). E abbiamo pure i Ketubîm (= gli Scritti).

Forte è dunque l’ammonimento di Gesù e dell’evangelista Luca che conserva e trasmette le sue parola quando nell’80-85 d.C. compone il suo vangelo per una comunità etnico-cristiana. Un suo grande problema era forse quello della ricchezza, del suo uso evangelico, del pericolo di un suo uso che si dimenticasse completamente dei poveri.

Ma dove mette Gesù/Luca la “punta/pointe” della parabola?

Sono due le “punte”? Attenzione ai poveri e ascolto della parola di Dio?

Meno dei cani?

Luca non vuol ricordarci innanzitutto il ribaltamento di situazioni finali tra il povero e il ricco, ma guidarci a una vita piena fin d’ora, perché attenta a “vedere” gli altri, specialmente i poveri. Ad ac-cor-gersi di loro. Questo è ciò che dice la parola di Dio letta ogni settimana.

Occorre ascoltare la parola di Dio. Ad essa occorre fare attenzione, ricordano con forza Gesù (e l’evangelista Luca), specialmente nel giorno del Signore risorto, la domenica.

Occorre ascoltare la parola di Dio proclamata da Cristo Signore risorto presente nell’assemblea.

Essa ci ri-cor-da di ac-cor-gerci dei poveri.

Portarli al cuore.

Luca desidera una Chiesa povera con i poveri. Una Chiesa che impara dai poveri la sobrietà e la solidarietà.

Mosè e i Profeti ce lo ricordano ogni domenica.

Gesù risorto assume la loro voce nel vangelo.

I cani randagi pensavano di essere solidali con Lazzaro.

Il ricco epulone, invece, non si accorge neppure che Lazzaro esiste, pur essendo un povero come lui.

“Ascoltino Mosè e i Profeti”.

Vogliamo essere meno dei cani?

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