XXVII Per annum: Mani che rapinano e mani che donano

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L’immagine chiave che governa le letture di questa domenica è quella della vigna: Isaia ne esalta l’amore con cui Dio se ne prende cura, Matteo nel vangelo racconta una parabola terribile e drammatica che mette in scena dei vignaioli omicidi che, per impossessarsene, decidono di uccidere l’erede del padrone. Se la vigna era l’immagine del popolo di Israele, con Gesù essa si allarga a diventare l’immagine del Regno che Gesù è venuto a proclamare e a realizzare, fino a identificarsi con la stessa vite, di cui noi siamo i tralci.

Giova dire fin da subito che, come membri della Chiesa, «sacramento» del Regno (LG 9), la parabola è un avvertimento a tutti noi, perché non ci sentiamo padroni, ma solo affittuari, chiamati a curare e a custodire la Chiesa/vigna.

Qui diventa significativo l’immaginario delle mani, evidenziato nel titolo che è stato dato a questa riflessione, ove si marca il contrasto radicale tra l’istinto di rapina, visibile nei vignaioli, e l’apertura all’accoglienza e al dono. Il primo riceve una terribile condanna, il secondo è la strada maestra per imitare le mani di Gesù.

L’idea di riflettere su tale contrasto mi è venuta da un interessante capovolgimento che san Bernardo fa della frase cruciale del brano evangelico. Nel Sermone I,3 per la Vigilia di Natale, utilizzando Mt 21,38 in cui i vignaioli ribelli dicono: «Questo è l’erede, venite uccidiamolo», egli fa dire ai cristiani che attendono il Cristo: «Questi è l’erede, devotamente accogliamolo», per aggiungere poi, secondo il testo biblico, la conclusione corretta: «e l’eredità sarà nostra!».

Meravigliosa sintesi che dice già tutto, dove l’atteggiamento di rapina dei vignaioli porta alla sconfitta e all’insuccesso, che li priva proprio di ciò su cui pensavano di mettere le mani, mentre l’accoglienza realizza nel modo giusto il desiderio, legittimo, di aver parte alla fecondità della vigna.

Seguire l’istinto padronale non paga: si perde ciò che si voleva, e anche se stessi.

Da canto d’amore a invettiva

Messo a fuoco il tema che deve guidare la nostra riflessione, è ora il caso di sostare sul ricco materiale figurativo che aiuta ad approfondire la meditazione. La prima lettura ci regala uno splendido canto d’amore (Is 5,1-7), da dove traspare la cura affettuosa di un vignaiolo per la sua vigna piantata su un fertile colle.

Tutti i dettagli sono significativi: il vignaiolo dissoda il terreno, lo sgombera dai sassi (più sotto sarà menzionata anche una siepe per tenere lontano gli animali, che Gesù riprenderà nella sua versione), vi pianta viti pregiate, costruisce al centro una torre per fare la guardia e per offrire un rifugio ai lavoranti e, infine, vi scava anche un tino per pigiare l’uva. Tutto sarebbe dunque pronto per una vendemmia ricca e abbondante, e invece il raccolto offre «acini acerbi».

La delusione trasforma il canto d’amore in una invettiva indignata: «Cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?». Sembra di essere già negli Improperi del Venerdì santo – «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» –, memoria inevitabile, anche perché non dobbiamo dimenticare che la parabola è raccontata quando Gesù è vicino alla sua passione.

La risposta del padrone della vigna, con una severità che si spiega solo con l’amarezza sconfortante davanti a una sterilità che azzera ogni logica attesa, rende simile a un “deserto” la bellezza e la fecondità originaria della vigna.

Il profeta con le sue immagini ha creato il paesaggio che rende evidente la spiegazione finale: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi». Questi sono gli acini acerbi: sangue e oppressione. I frutti attesi, invece, si chiamano giustizia e rettitudine.

Gesù “nostra madre”

Mai come oggi torna utile la meditazione del Salmo 79, che offre un’altra prospettiva. È la preghiera di chi, individuo o popolo, è consapevole della propria fragilità, e chiede il soccorso e l’intervento di Dio perché tenga lontano dalla vigna tutto ciò che la minaccia: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte». È un’invocazione che sembra fare appello a un Dio che irraggia tenerezza materna.

E qui torna ancora utile evocare l’immaginario delle mani. Sono le mani abili del vasaio che la Bibbia usa per designare Dio come creatore (Gen 2,7), una figura che esige la docilità di chi si lascia plasmare (cf. Rm 9,20-21). Sono le mani solide del pastore, quelle alle quali si affida Gesù morente (Lc 23,46), quando le sue mani sono inchiodate alla croce, ma che proprio per questo (cfr. Eb 2,18) diventano le mani stesse del Padre, per cui, come per il Padre, nessuno potrà strappare le pecore dalla sua mano (Gv 10,28-29).

Ma c’è un’ultima figura da menzionare: le mani gentili di Gesù nostra madre, come ci ricorda la mistica Giuliana di Norwich. Dopo aver detto che rischiamo di «spezzarci» se ci isoliamo in noi stessi, dobbiamo rimanere «con forza legati e uniti alla santa Chiesa, nostra madre, che è Cristo Gesù», espande il discorso con queste parole: «Le dolci mani graziose della nostra Madre sono pronte e diligenti nel curarsi di noi: perché lui in tutto questo lavoro esercita proprio l’ufficio di una gentile nutrice (cfr. Ef 5,29-30) che non ha altro da fare se non occuparsi della salvezza del suo bambino» (Una rivelazione dell’amore, c. 61, p. 280-81). È dunque una maternità che si proietta sulla Chiesa, chiamata a compiere la sua azione pastorale con la stessa sollecitudine usata da Cristo Gesù. E qui torniamo al discorso di come gestire la vigna.

Un confronto drammatico

Siamo al vangelo (Mt 21,33-43), che è una neanche troppo velata denuncia rivolta ai «sacerdoti e agli anziani del popolo» che, invece di consegnare i frutti di una vigna che era stata «data in affitto ai contadini», pensano invece che sia più conveniente impadronirsene e tenere per sé il raccolto.

Quando i «servi del padrone», nei quali pare si intendano i profeti, si presentano a chiedere i frutti della vigna, li maltrattano e li uccidono, così come fanno quando il padrone, esasperato, manda loro il proprio figlio, che verrà pure ucciso nell’illusione che l’eredità della vigna diventerà loro proprietà.

I sacerdoti e gli anziani capiscono benissimo dove vuole arrivare Gesù, ma, come nel caso di Davide di fronte a Natan che gli rimprovera adulterio e crimine (cf. 2Sam 12,5-10), non si mettono in questione, pensano, o fanno finta, che la parabola non li riguardi e, alla domanda di Gesù, rispondono d’istinto, ma si tirano la zappa sui piedi.

E però il bello viene alla fine: Dio non si rassegna a quella che sembra una sua sconfitta, e che invece è il frutto dell’ignavia e della malvagità umana. Anzi, rivela la sua logica, che è di continuare comunque il suo progetto di salvezza di una umanità che sembra vivere di voglie suicide. Evocando un’altra immagine cruciale, quella della pietra «scartata dai costruttori diventata testata d’angolo», proclama a quelli che l’ascoltavano: «A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

Noi possiamo frustrare i piani di Dio e deludere le sue attese, ma si troverà sempre qualcuno, individuo o popolo che sia, che, combattendo l’istinto padronale, saprà aprire le proprie mani all’accoglienza e al dono, che solo producono frutti di vita. Se poi si vuole avere una lista di tali “frutti” non resta che meditare ripetutamente la splendida pagina di Filippesi 4,6-9, oggi offerta come seconda lettura, per ricevere quella “eredità” che è il frutto dei frutti, «la pace di Dio che supera ogni intelligenza, che custodirà i nostri cuori e le nostre menti in Cristo Gesù».

A conclusione di questa riflessione, anche pensando che il rischio di sentirsi “padroni” della Chiesa non è mai morto tra i credenti, ecco una pagina di Carlo de Foucauld, in cui descrive con quale atteggiamento la Chiesa dovrebbe annunciare il Vangelo. È noto che due idee base del suo ideale di santità erano quella di «fratello universale», e la scelta di vivere il «nascondimento» di Nazaret, nel quale Gesù visse per trent’anni, dove la vita – più delle parole – era essa stessa annuncio.

Così scrive in una lettera a un amico che gli chiedeva con quali mezzi voleva evangelizzare i Tuareg tra i quali era andato a inabissarsi: «Con la bontà, la tenerezza, l’amore fraterno, l’esempio della virtù, con l’umiltà e la dolcezza, sempre così attraenti e cristiane; con alcuni senza mai dire una parola di Dio e della religione, pazientando come Dio pazienta, essendo buono come Dio è buono, essendo un fratello affettuoso e pregando; con altri parlando di Dio nella misura in cui possono accettarlo; soprattutto vedere in ogni uomo un fratello, vedere in ogni uomo un figlio di Dio, una persona riscattata dal sangue di Gesù; bandire da noi lo spirito di conquista. Che grande distanza corre tra il modo di fare e di parlare di Gesù e lo spirito di conquista di chi non è cristiano o è cattivo cristiano, e vede intorno a sé dei nemici da combattere! Il cristiano è sempre tenero amico di ogni uomo, egli ha per ogni persona i sentimenti del cuore di Gesù: essere caritatevoli, miti, umili con tutti. Farsi tutto a tutti per donare tutti a Gesù» (A. Mandonico, Mio Dio come sei buono. La vita e il messaggio di Charles de Foucauld, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2020, p. 296).

C’è chi non sarà d’accordo, ma questa è senza dubbio una via “cristiana”.

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