XXVIII Per annum: Dieci guariti, uno salvato

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I due Libri dei Re

Seguendo il suggerimento dello studioso M. Nobile, autore dell’ultimo pregevole commentario a questi due libri biblici in lingua italiana (Milano 2010), gli eventi raccontati in 1-2Re potrebbero essere articolati nel modo seguente:

1Re 1,1–2,46:    Preludio; 1Re 3,1–11,43: Il regno di Salomone; 1Re 12,1–2Re 17,41: Scisma e storia di due regni fino alla caduta del regno del Nord (con la storia dei due regni scismatici fino a Elia: 1Re 15,1–16,34; il ciclo di Elia: 17,1–2Re 1,18; il ciclo di Eliseo: 2Re 2,1–13,25; la storia dei due regni fino alla fine del regno del Nord: 2Re 14,1–17,41); 2Re 18,1–25,30 Vicende del regno di Giuda fino alla sua fine.

2Re 4,1–6,7 narra le gesta miracolose di Eliseo. I racconti possono essere così articolati: 2Re 4,1-7 Eliseo e il soccorso alla vedova di Sunem; 4,8-37 Eliseo e la dama sunammita; 4,38-41 Il risanamento della minestra letale; 3,42-44 Eliseo moltiplica i pani; 5,1-19 Eliseo guarisce Naamàn dalla lebbra; 5,20-27 Punizione di Giezi per la sua cupidigia; 6,1-7 Il miracolo dell’ascia galleggiante.

Eliseo

Vissuto tra 850 e l’800 a.C. nel regno del Nord governato prima da Ioram (852-841 a.C.) e poi dal sanguinario Iehu (841-814), “Eliseo/’Ělîšā‘/Dio ha salvato” era figlio di Safat, originario di Abel-Mecola, un villaggio situato a 22 km a sud della città di Bet Shean, non distante dal fiume Giordano. Da Elia viene investito del ministero profetico grazie a un gesto imperioso del suo mantello gettatogli addosso (1Re 19,15-21).

L’inizio della saga dedicata esplicitamente alla persona e all’operato di Elia, a tratti molto strano e sconcertante, narra la sua legittimazione come profeta successore di Elia. Essa avviene grazie al conferimento dei due terzi dello spirito del suo maestro mentre Elia sale al cielo nel turbine, nascosto alla vista di Eliseo da un carro di fuoco con cavalli infuocati che si frappongono ai due (cf. 2Re 2,11).

Capo di stato maggiore, ma lebbroso: un morto che cammina

Dopo la narrazione di gesta prodigiose, tra le quali quella della toccante rivivificazione del figlio della illustre donna sunammita (2Re 4,8-37), il testo narra della guarigione di Naamàn, valoroso capo di stato maggiore dell’esercito nemico siriano, ma inopinatamente colpito dalla lebbra che lo divora.

Convinto dal suo seguito di dignitari a bagnarsi sette volte nel Giordano, come gli aveva ordinato Eliseo, Naamàn si ritrova risanato, con la pelle purificata e un corpo tornato come quello di un ragazzo (2Re 4,14). Torna allora con tutto il suo seguito da Eliseo.

La magnificenza del corteo non è più segno di alterigia come nel primo momento del suo arrivo dal profeta, da cui si era allora allontanato con ira, sdegnato dal comando ricevuto, troppo semplice e che non aveva visto alcun tocco terapeutico da parte del profeta. Eliseo gli aveva richiesto un gesto di umiltà, che riguardava inoltre un fiume di modesta portata che non poteva reggere il confronto con quelli splendidi del suo paese, i fiumi di Damasco ’Abanà e il Parpar (v. 12).

La fede del proselito

Ora il militare, comandante supremo dell’esercito siriano nemico di Israele, col ritorno insieme al suo seguito (“il suo accampamento”) esprime un gesto di onore verso Eliseo. Il testo ricorda che egli torna da un “uomo di Dio/’îš hā’ĕlōhîm” (v. 15). Stando ritto e impettito – come è nello stile tipico dei militari – di fronte al profeta, Naamàn se ne esce con una profonda professione di fede: «Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele». E Naamàn implora, chiede “per favore/nā’” – particella deprecativa spesso non tradotta dalla CEI 2008, e che qui accompagna come espressione di umiltà deferente la richiesta del potentissimo militare guarito – di voler accogliere “una benedizione/dono/berākāh” (!) dal “/tuo servo/‘abdekā”.

Benedizione dal militare nemico?

Il dire è cerimonioso e corrispondente al linguaggio diplomatico tipico del Medio Oriente, però impressiona che il generale in capo dell’esercito si dichiari “schiavo/servo” di Eliseo e intenda donargli una “benedizione”.

Naamàn riconosce in Eliseo l’uomo di Dio, trasparenza della sua potenza sovrana capace di risuscitare i morti, come erano considerati i lebbrosi. Il re Ioram aveva infatti detto al generale che lo aveva interpellato in prima battuta per avere la guarigione: «Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui (= il re di Aram cioè di Damasco) mi ordini di liberare dalla lebbra?» (2Re 5,7b).

Mani libere

Eliseo risponde con un netto diniego all’offerta di Naamàn, iniziando con un detto imprecatorio che rimanda alla vita di YHWH, «davanti al quale io sto ritto in piedi» e rifiutando gentilmente, ma con fermezza, il proposito del generale.

Eliseo è un vero uomo di Dio, che sta in piedi davanti a lui per servirlo e al quale solo va reso ogni gloria e onore. Un uomo di Dio disinteressato e distaccato dai beni, dote non posseduta dal suo servitore Giezi che, per la sua cupidigia del tanto ben di Dio in vesti e materiale prezioso offerto da Naamàn, sarà punito severamente, trovandosi a sua volta malato cronico di lebbra, capostipite di lebbrosi (vv. 20-27).

Naamàn insiste, ma Eliseo rifiuta recisamente ogni donativo. Il generale è stato guarito da YHWH per pura grazia, immeritata, fra l’altro, per il fatto di essere un nemico di Israele. YHWH ha visto in lui la ricerca della salute ma anche la fiducia nelle guide del popolo di YHWH. Una fede fiduciosa implicita nel Dio di Israele.

YHWH ha agito per grazia. Il suo servo non sarà da meno, sua tersa trasparenza.

Terra e libertà di coscienza

Se Eliseo rifiuta “la benedizione/il dono”, che almeno “’sia donato per favore/yuttan-nā’’ al tuo servo – implora nuovamente il generalissimo guarito e rivivificato – di portare via un carico di “terra/’ădāmāh”, quanta ne possono portare due muli.

D’ora in poi “il tuo servo” – motiva la sua richiesta Naamàn – non intende offrire più alcun tipo di sacrificio come prima di questo momento, né un “olocausto/‘ōlāh” che consuma totalmente la vittima offerta, né un “sacrificio/zebaḥ” in cui l’offerente può mangiarne una parte con i suoi familiari. Se li offrirà, non saranno compiuti a beneficio di altri dèi – “andare dietro ad altri dèi” era la formula con cui i testi biblici tacciavano il peccato di idolatria –, ma solo a YHWH.

La figura di Naamàn incarna quella dei proseliti, i pagani che simpatizzavano per il giudaismo pur senza accettarne tutte le pratiche religiose, a partire dalla circoncisione. Nel postesilio cresce sempre più il problema di come rapportarsi a loro e di che cosa chiedere come espressione della loro fede iniziale in YHWH. I paesi in cui essi abitavano erano considerati impuri (cf. Sal 137,4; Am 7,17; Os 9,3; Ez 4,13). Questo testo è rapportato forse a tale problema e intende rispondervi con una visione larga e rasserenante, non fondamentalista o fanatica.

All’inizio del Codice dell’alleanza (Es 20,22–23,33) YHWH comanda a Mosè: «Farai per me un altare di terra (mizbēaḥ ‘ădāmāh) e sopra di esso offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi buoi; in ogni luogo (bekol-hammāqôm) dove io vorrò far ricordare il mio nome, verrò a te e ti benedirò (ûbēraktîkā)» (Es 20,24).

In ogni luogo si può fare un altare di terra e ricevere la benedizione di YHWH che viene. Non c’è fanatismo legato a una presunta “terra santa”. «La terra è mia» dice YHWH (Lv 25,23), tutta la terra…

E sarà YHWH, il Dio degli eserciti, a dare di persona la sua benedizione…

La legge della gradualità: “Va’ in pace!”

Quando dovrà obbligatoriamente accompagnare il suo re mentre si reca a pregare nel tempio del dio Rimmon (che suona simile a Ramanu, l’Hadad assiro-babilonese ben conosciuto agli israeliti esiliati a Babilonia) – appoggiandosi al suo forte braccio –, e dovrà prostrarsi insieme a lui, il generale si troverà in forte imbarazzo. «Perdoni YHWH per favore/yislaḥ-nā’ YHWH in anticipo questa azione del tuo servo», supplica ancora Naamàn.

Eliseo, divenuto ormai padre spirituale, illuminatore della coscienza di Naamàn, lo rimanda in pace nella sua terra, senza fanatismo, esclusivismo o intransigenza alcuna sui tempi e sui modi riguardanti un cammino spirituale di un proselito.

Una legge di gradualità che libera le persone e fa rivivere… anche i morti di lebbra.

Fede per il Regno

Per quanto può valere, la strutturazione retorica di Lc 17,11–18,30 elaborata da R. Meynet può portare ulteriore luce all’interpretazione dei testi: la fede in Gesù e la sequela di lui è necessaria per entrare nel regno di Dio, ricevere cioè la vita eterna nel giorno di Dio.

17,11-19 Il lebbroso riconosce in Gesù                  l’opera di Dio

17,20-21 Quando viene            il regno di Dio?

17,22-35 Il giorno del Figlio dell’uomo è     il giorno di Dio

         17,37      Dove?

       18,1-8a  Parabola del giudice ingiusto e della vedova

          18,8b  Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede?

       18,9-14   Parabola del fariseo e del pubblicano

18,15-17  Accogliere come un bambino        il regno di Dio

18,18-19  CHE fare per ereditare          la vita eterna?

                            18,20-25  Da’ tutto ai poveri e seguimi

18,26-27  CHI può essere             salvato?

18,28-30  Lasciare tutto per ricevere              la vita eterna

In cammino verso Gerusalemme

Terminata la tumultuosa seduta nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-30), passando come uno spartineve in mezzo ai suoi avversari, Gesù si era messo con decisione in cammino per la sua strada (cf. Lc 4,30, eporeueto). Al termine della “crisi galilaica”, dopo successi e delusioni cocenti, egli prende la ferma decisione di dirigersi verso Gerusalemme (cf. 9,51: tou poreuesthai eis Ierousalēm), il luogo al di fuori del quale a nessun profeta è lecito morire (cf. 13,33).

In un villaggio di samaritani Gesù non viene accolto, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme (9,53: poreuomenon eis Ierusalēm). Il cammino prosegue deciso (13,22: poreian poiumenos eis Ierusalēm), e lungo la strada Gesù attraversa la Samaria e la Galilea (17,11: en tōi poreuesthai eis Ierusalēm), facendo notare ai Dodici che stavano salendo verso Gerusalemme (18,31: idou anabainomen eis Ierusalēm). Vicino a Gerusalemme (19,11: dia to eggys einai Ierusalēm), Gesù narra la parabole delle dieci monete d’oro (19,11-27), e cammina deciso davanti a tutti salendo verso Gerusalemme (19,28: eipōneporeueto emprosthen anabainōn eis Ierosolyma). Il cammino verso Gerusalemme prosegue quindi al rallentatore: Gesù con i suoi è vicino (eggyzontes) alla discesa del monte degli Ulivi (19,37); arrivato vicino fin quasi a toccarla (ēggysen), in vista della città scoppia in pianto (19,41) e poi entra nella zona templare, il termine del lungo viaggio (19,44: eiselthōn eis to hieron).

La feccia degli eretici

Per salire dalla Galilea (m. -200 s.l.m., a Cafarnao, allora) a Gerusalemme (m. 765 s.l.m., sulla spianata dove sorgeva il santuario) in Giudea, Gesù deve attraversare la Galilea e la Samaria (descrivendo le cose da Gerusalemme, come fa qui Luca).

Gesù lo potrebbe fare bypassando la Samaria, percorrendo la strada che correva a est, di là del Giordano, ma egli vuole attraversare la Samaria (cf. Gv 4,4 «doveva attraversare la Samaria/edei de auton dierchesthai dia tēs Samareias»).

Deve perché vuole! Gesù vuole passare in mezzo la territorio degli odiati cugini samaritani (cf. Gv 4,9), imbastarditi etnicamente (cf. 2Re 17,24-41), ed eretici religiosamente (cf. 2Re 17,21), con un tempio tutto loro, eretto sul monte Garizim (cf. Gv 4,20).

Gesù vuole attraversare le periferie esistenziali e religiose. E incontra così lo scarto della periferia, la feccia della feccia: una banda di dieci lebbrosi…

Dieci lebbrosi

Periferia esistenziale e religiosa estrema degli odiati cugini samaritani, dieci lebbrosi si avanzano incontro a Gesù, ma «rimanendo in piedi a distanza/estēsan porrōthen» (v. 12). Feccia emarginata socialmente e religiosamente, scarti di una popolazione già odiata dai giudei ortodossi, i “morti che camminano” sono impuri ritualmente e se ne devono stare fuori dell’accampamento/villaggio attendendo la guarigione spontanea della loro malattia.

Portando vesti strappate e con il capo coperto, il lebbroso «velato fino al labbra superiore, andrà gridando: “Impuro, impuro/ṭāmē ṭāmē!”. Sarà impuro, finché durerà in lui il male: è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (cf. Lv 13,45-46).

“Il lebbroso/’îš ṣārûa‘” non è un uomo, ma è una malattia ambulante, repellente, impura e contagiosa religiosamente. L’uomo combacia con la sua malattia e con la sua impurità. Nessuno stacco tra il male e la persona, la sua dignità. È completamente emarginato, costretto alla solitudine, in attesa di una (improbabile) guarigione spontanea. Da misura igienica profilattica, tesa a proteggere la comunità da tutte le affezioni del cuoio capelluto e dalle muffe di tessuti e suppellettili, la norma era diventata di fatto lo strumento tragico di un’emarginazione totale.

I dieci lebbrosi – con ogni probabilità tutti samaritani, dato il contesto ambientale costituito dal villaggio – almeno portano insieme il peso dell’emarginazione e della solitudine. Sembrano una tragica imitazione, sub contraria specie, del gruppo di dieci uomini ebrei (minian) necessari per una sessione di preghiera.

Dieci uomini che gridano la loro perdizione, l’assoluta mancanza di una benché minima speranza di futuro decente, degno di un uomo. Una guarigione altamente improbabile.

Nero attorno a sé, nero davanti a sé. Il cielo è di piombo. L’anima persa. Dead men walking.

Misericordia per noi!

I dieci lebbrosi si fanno incontro (apēntēsan) a Gesù con il coraggio della disperazione. Forse hanno sentito che sarebbe passato da loro il maestro buono della Galilea.

Rispettosi della norma, si fermano a distanza di sicurezza da lui, e standosene in piedi (estēsan), alzano la voce (ēran phōnēn). Ma non gridano la loro impurità, la loro doppia personalità. Gridano a “colui che sta sopra/epistata (< epi-istēmi)” di loro, che già stanno in piedi.

Riconoscendo la sua superiore autorità, si appellano alle viscere di compassione del “signore”, invocando su di loro la sua misericordia (eleēson hēmas). (L’imperativo aoristo rimanda all’invito pressante a iniziare quella azione e a compiere quella e quella sola).

Misericordia per le loro persone, pietà per la loro malattia e la loro emarginazione, perdono – forse – per il peccato che pensano essere collegato strettamente al loro male.

Furono purificati

Avendoli visti (idōn) – forse ancora prima di averli sentiti –, Gesù dice loro di andare a farsi vedere (epideixate heutous) ai sacerdoti (del tempio di Gerusalemme, s’intende!). Constatando l’(eventuale) guarigione/purificazione intervenuta nel frattempo – spontaneamente e in pratica quasi miracolosamente –, essi potranno dichiararla pubblicamente avvenuta.

Circa la condotta da seguire nel caso di un lebbroso che pensava di essere guarito, la norma prevedeva: «Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà: se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita nel lebbroso, ordinerà che si prendano, per la persona da purificare, due uccelli vivi, …» (Lv 14,3-4).

Gesù è rispettoso delle norme cultuali e del ruolo dei sacerdoti, che però sarà solo di constatazione e di proclamazione della purificazione avvenuta, senza però che essi abbiano avuto alcun ruolo nel processo di guarigione e di purificazione dalla lebbra.

Mentre quelli se ne andavano, “furono purificati/ekatharisthēsan”. Dalla natura? Dalle loro stesse forze vitali ridestatesi all’improvviso? Da Dio? Da Gesù? Cellule staminali totipotenti iniettate dalla parola di Gesù?

La guarigione è vista qui sotto il suo aspetto di purificazione, di superamento cioè dell’impurità rituale e dell’emarginazione religiosa ad essa associata. Ne consegue quindi la possibilità, per i lebbrosi guariti, di essere reintegrati pienamente nel consesso della vera comunità di fede e di culto, guidata dai sacerdoti del tempio di Gerusalemme, cultori dell’unico vero Dio del popolo di Israele, YHWH.

Uno dei lebbrosi costata di essere stato guarito (iathē < iaomai, verbo deponente, ma la diatesi è passiva). È la guarigione fisica, ottenuta da qualche causa esterna alle pure forze personali (passivo divino?). Guariti da chi? Dal puro scorrere del tempo? Grazie a un recupero vitale endogeno?

Guariti dal caso? Da Dio? Da Gesù?

Dieci guariti/purificati, uno salvato

Uno solo dei guariti “torna indietro/si converte/hypestrephen”. Torna verso dove? Non è detto. Si dice solo che tornò “a gran voce lodando Dio/meta phonēs megalēs doxazōn ton theon”, l’origine di ogni bene, di ogni vita e di ogni guarigione.

L’uomo «cadde ai suoi piedi, “continuando a ringraziarlo/eucharisthōn autōi”». Ai piedi di chi? Ringraziando chi? Dio? È Dio l’ultimo soggetto menzionato in precedenza. Gesù? È il referente più probabile a partire dal contesto, colui che ha messo in moto l’azione durante la quale è avvenuta la guarigione/purificazione.

L’evangelista ricorda – a chi legge e al giudeo che può essere tentato di un atteggiamento di superiorità e di disprezzo – che colui che era tornato era un samaritano. La notazione non esclude il fatto che probabilmente lo erano anche gli altri nove.

Gesù sottolinea la particolarità della situazione. Non erano stati purificati tutti e dieci? Non furono trovati (altri) a “tornare indietro/convertirsi/hypostrpsantes” “per dare gloria a Dio/dounai doxan tōi theōi”. È tornato solo questo “straniero/di un’altra razza/allogenēs”?

Uno schiaffo in faccia! Un samaritano, uno straniero, torna guarito/purificato a rendere grazia a Dio, ma è da Gesù che torna! Riconosce in lui la potenza di “uno che sta sopra in piedi/epistata (< epi-istēmi) (Lc 17,13), che è capace di risuscitare un morto, dandogli la vita (come afferma chiaramente il re Ioram al generale Naamàn che si reca da lui per essere guarito dalla lebbra; cf. 1Re 5,17).

Il samaritano guarito e purificato torna/si converte a Dio. Di fatto, però, è a Gesù che torna, riconoscendolo come colui che, con la sua parola, ha generato l’azione durante la quale si è trovato guarito (non dalle proprie forze).

A Dio, che si rende presente in Gesù, l’uomo rende il suo prolungato rendimento di grazie, del quale non si riportano le parole, che però si possono ben immaginare.

Il ritorno/conversione, il ringraziamento, il riconoscimento di Dio/Gesù come fonte della grazia della guarigione fisica, della purificazione religiosa che lo riammette in piena dignità nell’assemblea cultuale di Israele, formano il substrato vitale di fede che procurano all’uomo la salvezza: «Dopo esserti alzato/risorto/anastas continua a camminare in continuità/poreou, la tua fede ti ha salvato/hē pistis sou sesōken se».

La tua fede (in Dio) ha iniziato a farti ricevere il dono della salvezza fin dal momento che ti sei messo in movimento dopo aver ascoltato le mie parole.

Ti ha sostenuto nel cammino e nell’esame al tempio. (Avrai menzionato senz’altro ai sacerdoti il buon rabbi galileo che ti ha detto parole di speranza e di grazia e di quello che ti è avvenuto poi per strada…).

La tua fede (in Dio) ti ha fatto intuire che la tua guarigione era dovuta a me, sua buona trasparenza.

La tua fede (in Dio) ti ha suggerito di tornare da me.

La tua fede ti ha spinto a ringraziare a gran voce, senza smettere un momento.

Il ringraziamento è dovuto, è buona educazione. Una gran cosa. Lodare la fonte della vita, riconoscere che veniamo da fuori.

Ma tu hai soprattutto intravisto in me il volto del Padre mio. Un Padre buono, che ha compassione per le persone, pietà per le malattie, misericordia per il peccato – che non è la causa diretta della tua malattia, se non molto alla lontana! – .

Dieci guariti e purificati.

Uno solo salvato.

Lo scopo della guarigione e della purificazione.

La pienezza della vita.

Vita piena, ricreata, che ha trovato la sua sorgente e la sua foce.

Il Padre che, nel Figlio, è il solo capace di ridonare la vita anche a un lebbroso, a un morto vivente.

Al Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo la lode e la gloria.

«La gloria di Dio è l’uomo vivente» (s. Ireneo).

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