III Pasqua: Sulla strada di Emmaus

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I racconti pasquali delle apparizioni del Risorto sembrano più o meno uguali, ma non lo sono affatto. Per quanto riguarda l’incontro con persone singole, per esempio, c’è una bella differenza tra quello con Maria di Magdala, marcato da un acceso e ostinato desiderio da parte di lei, con il riconoscimento che avviene al sentire una voce e un nome, e quello con Tommaso, che sembra marcato dal dubbio e dal bisogno di avere una prova tangibile e tattile, per finire poi con un’esplosiva, veloce e inaspettata confessione di fede.

Quello con il gruppo degli apostoli ha l’aria di un proclama solenne da parte di un leader che soffia su di loro quello stesso Spirito che aveva “consegnato” nel momento stesso della sua morte (Gv 19,30), offre pace, e li manda nel mondo con la missione di testimoniare la sua risurrezione mediante la misericordia e il perdono.

Quello con i due di Emmaus è ancora diverso: è come se si ripetesse l’esperienza di quando inviò i settantadue discepoli a due a due, che lo stesso Luca ha raccontato nel suo vangelo (Lc 10,1-12). Il fascino narrativo, pittorico, emotivo dell’incontro sulla strada di Emmaus, che finisce attorno a una mensa, è una delle pagine più belle del terzo evangelista, che ha dato occasione a splendide musiche (Bach in primis) e ad una ricca tradizione iconografica, per non parlare della tradizione letteraria, e di canti spirituali di vasto successo, come il popolare “Le ombre si distendono, scende ormai la sera” così diffuso nelle nostre chiese.

Ma riprendiamo il percorso da capo, da dove ascoltiamo il discorso di Pietro (At 2,14.22-33), il quale, dopo lo spettacolare fenomeno della grande Pentecoste, che dilata a dismisura la “piccola Pentecoste” del Calvario, si rivolge idealmente all’intero popolo ebraico, e a tutti i popoli della terra di cui è appena stato fatto l’elenco.

E, se a parlare è Pietro, gli Undici sono con lui, perché questa è una testimonianza “apostolica”, che fa della Chiesa una comunità «una, santa, cattolica e apostolica», come recitiamo nel Credo. Il cuore del messaggio è che quel Gesù, «accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni» è stato da loro «crocifisso e ucciso». Ma – ed è un grosso “ma” che stravolge tutto –, «Dio lo ha risuscitato»!

La fatica di capire

Come è arrivato Pietro, come sono arrivati gli altri a questa conclusione? Al tempo in cui Gesù era vivo in mezzo a loro, i vangeli riferiscono unanimi che i discepoli ascoltavano con sconcerto gli annunci della passione, e restavano increduli in particolare sul fatto che la profezia della sua morte violenta concludeva sempre con la previsione di una sua risurrezione. E forse la reazione negativa più dura si trova proprio nel vangelo di Luca, dove è detto, dopo il terzo annuncio ai Dodici, che «quelli non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto» (Lc 18,34), che trova un parallelo perfetto in Marco, per il quale i discepoli, oltre a non capire, «avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32).

Da dove passa la loro comprensione? Gesù li aveva sovente rimandati alle Scritture come modo per capire il senso di ciò che faceva e di ciò che gli accadeva, e immagino che, dopo la sua morte, profondamente scossi dalla sua risurrezione, il gruppo dei discepoli si sia affannato e cercare qua e là nella Scrittura dei segnali che potessero aiutarli a capire il mistero di quella morte così sconcertante, un vero e proprio fallimento dell’iniziativa di Gesù, e ancora più dove trovare conferma alla sua eventuale risurrezione.

I vangeli ci dicono che, quanto alla morte, i carmi del Servo di YHWH in Isaia e il salmo 21, oltre al salmo 2, fornivano eccellenti chiavi di interpretazione; quanto alla risurrezione, il discorso di Pietro udito oggi dice che il salmo 15 offre una prova inoppugnabile: le parole «non abbandonerai la mia vita agli inferi né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione» non si riferiscono a Davide, che è ritenuto autore del salmo, ma che è morto, ma vanno lette come una profezia di quanto sarebbe accaduto.

E Pietro, e gli altri, sono lì, davanti a tutto un popolo, a proclamare che questo è proprio quello che è successo. Anche perché il fatto che lui stesso sia lì a parlare con forza davanti a loro, è la prova che lo Spirito Santo promesso da Gesù, prima ha ridato la vita a lui, in tale abbondanza che ora l’ha riversata sugli apostoli, ed è pronto a fare altrettanto con tutti quelli che crederanno in lui. A me piace sempre ricordare che “spirito”, “vento”, “fiato” e “alito”, sono in greco la stessa parola, pneuma, e in ebraico ruah, e se, come è normale, colleghiamo il fiato con la vita, abbiamo capito tutto.

Cittadini del cielo

La seconda lettura è ancora tratta dalla Prima Lettera di Pietro (1Pt 1,17-21), che, per il suo carattere di omelia battesimale, ci accompagnerà in tutte le domeniche di Pasqua, un discorso che trae le conseguenze pratiche della fede nella risurrezione. Questo fatto ha trasformato completamente la comprensione della nostra vita. Siamo diventati anche noi ormai “cittadini del cielo”, dove Cristo ci ha preceduto ed è andato a “prepararci un posto”, come aveva già detto del discorso d’addio (Gv 14,2).

Questa è dunque la parola d’ordine: «Comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri», e la serietà dell’impegno ha questa motivazione: «Voi sapete che non a prezzo di cose effimere foste liberati dalla vostra condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo». La memoria di una liberazione costata caro deve farci capire quanto siamo preziosi agli occhi di Dio: è su questo che dobbiamo basare la nostra autostima, non su noi stessi.

Dovremmo diventare, in questa prospettiva, non solo stranieri al mondo, ma persino stranieri a noi stessi, perché, come scrive Simone Weil: «Non tocca a me pensare a me. Il mio compito è pensare a Dio. Tocca a Dio pensare a me». Questo “dimenticarsi di sé”, che si combina con lo “staccarsi dai falsi beni”, non significa fuggire dal mondo e dagli uomini, ma guardarli con gli occhi di Dio, che sono gli stessi di Gesù.

“Resta con noi”

Resta poco spazio per commentare il vangelo di oggi (Lc 24,13-35). Ho scritto queste righe con sullo sfondo la Cantata n. 6 di Bach dedicata all’episodio dei due di Emmaus che inizia con l’invocazione Bleib bei uns (“Resta con noi”). La breve ouverture fa già una scelta significativa: interpreta i discepoli con due oboi, e quando sopraggiunge da terzo il viandante anonimo, marca la sua presenza con l’oboe d’amore.

Nel grande coro che segue, Bach condensa tutta la carica struggente dell’ultima preghiera dei discepoli al viandante anonimo, con le quattro voci che si inseguono a ondate ripetendo il “Resta con noi” con crescente apprensione, per poi finire in un’ultima ripetizione all’unisono che è un vero e proprio grido.

Consiglierei di meditare il brano di Luca ascoltando la meravigliosa e commovente Cantata bachiana: non conosco modo migliore di entrare nell’atmosfera del racconto. In Internet, cliccando il titolo in tedesco, o anche Cantata n. 6, si trovano una trentina di versioni!

Volendo dare una sintesi del racconto, si può dire che si passa da una quasi disperazione che fa abbandonare la scena, come se si dovesse dimenticare una storia troppo bella finita nel nulla, a un ricupero di comprensione di tutta la vicenda che fa tornare «senza indugio» i due (era già quasi notte!) a Gerusalemme, dove ritrovano la comunità riunita, e insieme alla quale passano il tempo a raccontarsi, gli uni agli altri, quello che avevano visto e udito.

La chiave della comprensione – questa volta l’hanno capito bene – si trova nelle Scritture, come mostra il discorso di Pietro il giorno di Pentecoste. E cosa c’era da capire? Che bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria. Quel bisognava, così spesso ripetuto nei racconti della risurrezione, significa che ciò che era sembrato un brutto incidente, o una disgrazia, o ancora più un desolante fallimento, rientrava in realtà nei misteriosi piani di Dio, secondo una logica nota a lui solo.

I teologi nei secoli hanno tentato diverse spiegazioni di cosa fosse questo “piano”, chiamandolo redenzione, soddisfazione, riparazione, solidarietà, o semplicemente “amore”, interpretazioni tutte utili, tutte interessanti, ma per il vero basta anche solo fermarsi alla sintesi semplice del Credo, secondo cui «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo».

Ma c’è un altro punto decisivo da sottolineare: Gesù è riconosciuto dopo che hanno fatto strada con lui, un cammino consacrato a risvegliare la loro speranza e il loro desiderio, e il riconoscimento finale avviene non davanti al suo volto, ma ad un suo gesto, senza più parole, ed è un riconoscimento così sicuro che non c’è neanche più bisogno della sua presenza fisica.

I due hanno di certo capito dove ora è possibile incontrare il Risorto: nella sua comunità e nel gesto dello spezzare il pane in comune, in segno di condivisione, un gesto che è “da fare” più che da recitare, come aveva detto Gesù stesso la prima volta che l’aveva compiuto la sera dell’ultima Cena.

Era lo stesso gesto, era la stessa benedizione che aveva marcato le moltiplicazioni dei pani di cui parlano, per una volta, tutti e quattro i vangeli.

Era il gesto che Giovanni sostituisce con la lavanda dei piedi, che san Bernardo, nel suo sermone per il Giovedì santo, non esita a chiamare “sacramento”, e a ragione. Anche dopo questo gesto, come dopo la benedizione del pane, Gesù dice di fatto: Vi ho dato un esempio, fatelo anche voi! (Gv 13,15). Non c’è bisogno di aggiungere altro. Basta aver capito che Gesù è lì, in quel gesto, che per questo era, ed è, così importante.

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