XXXII Per annum: Far buon uso del tempo

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Procedendo verso la conclusione dell’anno liturgico, veniamo introdotti all’uso che occorre fare del tempo per renderlo fruttuoso e redimerlo dall’insignificanza (cf. Ef 5,16; Col 4,5). Di fatto, ci viene lanciato il tema che dominerà nella stagione successiva dell’Avvento, quello della vigilanza nell’attesa di celebrare il Natale del Signore. Ci faranno da guida due parabole con cui Matteo ci insegna a non presentarci impreparati al rendiconto finale.

La prima, letta oggi, è quella delle dieci vergini che ci chiede di tenere pronta la necessaria provvista di olio per essere pronti alla venuta improvvisa dello sposo così da entrare con lui alla festa di nozze; l’altra, che ascolteremo domenica prossima, riguarda il lavoro da fare nel frattempo con il fervore che ci porta a trafficare i talenti ricevuti, sul cui uso o non uso saremo giudicati.

Il dono prezioso della sapienza

Questo duplice atteggiamento ha la sua sintesi migliore in quella virtù che chiamiamo “sapienza”, e trovo una soluzione indovinatissima proprio nella scelta del brano che la esalta, tolto dal libro che ne porta il nome (Sap 6,12-16), offerto oggi come prima lettura. La sapienza, o saggezza, non è un bene di cui ci sia oggi una grande abbondanza sulla piazza di un mondo marcato da una mentalità giovanilistica e da una pubblicità che mira solo a vendere. I giovani, celebrati per tante pregevoli qualità, dal vigore fisico alla capacità di entusiasmo, non sono mai stati famosi per la loro saggezza, che esige ponderazione e riflessione, quella che di solito si chiama maturità.

È noto che gli autori medievali esaltavano quel giovane che, nonostante l’età, aveva già un «cuore di vecchio» (cor senile gerens), come si dice, tra gli altri, del giovane san Benedetto nella presentazione che ne fa Gregorio Magno nel libro II dei Dialoghi.

Non è certamente una scuola di saggezza neanche quella offerta dal mercato pubblicitario che inonda i giornali e tutti i canali televisivi, dove non c’è da aspettarsi che venga esaltata la parsimonia, la sobrietà, la discrezione, il discernimento, la riflessione che precede l’acquisto, tutte qualità, queste, che sono altrettanti rami in cui si espande e fiorisce la sapienza.

Fa bene la lettura a dichiarare subito che «la sapienza è splendida e non sfiorisce», immagine che la raffigura come una giovane donna affascinante la cui bellezza non appassisce per l’età, come invece appassiscono tanti “slanci” dal fiato corto o cortissimo, stimolati del gusto dello shopping che può diventare una vera e propria malattia. Oggi, in una cultura che privilegia il risultato immediato e volatile rispetto allo sforzo perseverante che solo può assicurare frutti duraturi, pare non esista uno spazio congruo dedicato al crescere in sapienza.

Il progetto presentato dal brano biblico può certo risultare esigente: la sapienza dev’essere amata, cercata, desiderata: bisogna insomma innamorarsene! Bisogna «alzarsi di buon mattino per cercarla», ma questo non dovrebbe pesare, anche perché, se uno se ne innamora, «la troverà seduta alla sua porta», sarà felice di «riflettere su di lei», e se «veglia a causa sua sarà presto senza affanni».

Mi pare che tale percorso appaia oggi più evidente nei campioni di vari sport, o negli artisti di successo, per i quali è facile rimanere abbagliati dai loro risultati, anche se spesso si dimentica quanto tali successi sono loro costati in termini di preparazione e allenamenti, che sono ripetitivi, noiosi e non si vedono.

Il trionfo ci incanta, suscita anche una voglia di imitazione, che però muore in fretta, quando si devono fare i conti con il prezzo che ha richiesto il produrlo. Ma si può superare la paura dello sforzo riflettendo sulla conclusione del brano che riguarda quella sapienza che esce dalla bocca di Dio: «Lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro».

Cosa può esservi di più bello del sapere che ciò che stiamo cercando è già in cammino per cercare noi? L’unica risposta degna è il bellissimo Salmo 62 che ci è suggerito come reazione al brano ascoltato, quello che inaugura le Lodi di ogni domenica, magari da imparare a memoria come ottima preghiera del mattino in grado di lanciare tutta una giornata.

La ricerca della sapienza non può neanche partire se non c’è come fondamento la “speranza”. Se uno pensa che con la morte tutto finisca, è difficile che intraprenda lo sforzo di crescere in «sapienza» per rendere la sua vita produttiva di frutti che comunque andranno a finire in niente. Sono note le crisi che colpiscono persone di successo davanti al lento disfacimento del loro vigore e della loro bravura: c’è chi arriva al suicidio.

Non aggrapparti a un filo d’erba

Paolo inizia la sua esortazione (1Ts 4,13-18) con un’affermazione molto significativa: «Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza». La tristezza produce scoramento, rassegnazione, paralisi, o al contrario, il rischio di attaccarsi al primo appiglio dal quale ci si aspetta soddisfazione, pena lo scoprire poi – come scrive san Bernardo – che ciò che si credeva solido (può essere una persona, un affare, un successo…) è solo la radice di un filo d’erba, che il naufrago afferra credendosi salvo, finendo poi con lo sprofondare, lui e l’appiglio cui si era aggrappato (Sermoni per l’Avvento I,1).

La tristezza è spesso la causa di peccati ed errori vari, come dice sant’Agostino in un’affermazione folgorante. Nella Lettera a Proba in cui commenta il Padre nostro, arrivato al «non abbandonarci alla tentazione», Agostino scrive: «con questo siamo ammoniti a fare tale richiesta affinché non accada che, quando sopravviene una qualche tentazione, se siamo privati del suo aiuto, noi acconsentiamo perché ingannati, o cediamo perché afflitti» (Ep. 130, 11.21).

La riserva d’olio

Il vangelo (Mt 25,1-13) ci aiuta a vedere la sapienza come quell’olio di cui occorre sempre avere pronta una riserva per ogni evenienza, soprattutto quando si tratta di accogliere lo sposo con le lampade accese che permettono di entrare nella sala delle nozze per fare festa con lui. La parabola gioca tutta la sua forza mostrando un contrasto netto tra due situazioni apparentemente simili (si veda l’altrettanto affascinante parabola delle due case, in tutto uguali tranne che nel fondamento!), che invece rivelano due esiti tragicamente diversi.

Chi se ne accorge? Solo colui che è sapiente, che sa considerare con accortezza le cose, che si è fatto uno sguardo capace di discernere, e di provvedere in tempo là dove ha scorto un rischio di fallimento. Per questo il racconto si preoccupa di dire subito che delle dieci vergini, «cinque di esse erano stolte, e cinque sagge». Subito pure si spiega che la differenza sta nell’olio: le stolte ne hanno già piene le lampade, e non prevedono che lo sposo possa tardare, le sagge invece se ne procurano una riserva, utile nel caso di sorprese.

Il ritardo fa sì che «si assopirono tutte e si addormentarono». Pare che la nostra attesa dell’incontro con il Signore preveda anche pause di sonnolenza! A rivelare la differenza di situazione è l’arrivo dello sposo, nel cuore della notte. Qui le stolte si accorgono che le loro lampade si stanno spegnendo, essendosi l’olio esaurito nell’attesa. Ne chiedono alle sagge, che, saggiamente, rifiutano con una valida motivazione, e invitano le altre ad andare a comprarle dai venditori. Ma mentre quelle vanno a procurarsi l’olio, arriva lo sposo, e «quelle che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa».

L’effetto della loro stoltezza è tragico. Quando arrivano, le stolte chiedono di riaprire la porta per farle entrare, ma la risposta è netta: «In verità io vi dico: non vi conosco».

Il senso della parabola non è difficile da indovinare. Lo sposo è Gesù, le nozze sono immagine di un nuovo rapporto tra Dio e l’umanità che si materializza nell’incarnazione del Verbo che annuncia, mostra e realizza il Regno di Dio sulla terra, le “vergini” non sono le suore, ma ragazze incaricate di fare luce nella sala del banchetto secondo quanto avveniva nelle cerimonie nuziali nella Palestina del tempo di Gesù.

Quelli che portano le lampade accese sono la comunità dei seguaci di Gesù, che non è quella ideale, che si realizzerà alla fine dei tempi, ma risulta, come sempre, di saggi e di stolti, non divisi in misura uguale, come potrebbe apparire dalla necessaria rigidità dello schema, ma in forma confusa e neanche rigida, perché c’è sempre il rischio che i saggi diventino stolti, come per costoro c’è la possibilità che diventino saggi.

L’olio è la Parola di Dio ascoltata e attuata. Il giudizio si farà alla fine, come è detto con parole identiche nel Discorso della montagna: «Non chi mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli (la sala delle nozze), ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli», e quelli che si vanteranno di aver profetato e cacciato i demoni nel suo nome si sentiranno rispondere: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me voi che operate l’iniquità» (Mt 7,21-23)! Il parallelismo è perfetto. Così come è perfetto il parallelo tra le due case, quella sulla roccia e quella sulla sabbia, che indicano chi ha la riserva di olio e chi non ce l’ha: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia», come è vero che «chi ascolta ma non mette in pratica costruisce sulla labilità della sabbia».

A noi decidere quale e quanto “olio” procurarci se vogliamo avere una fede solida ed efficace.

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