XXXIII Per annum: Tempi nuovi

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Le promesse fatte ai padri

Le ultime domeniche di ogni anno liturgico si saldano alle prime del successivo attraverso il tema “circolare” della venuta di Gesù, come Messia e Redentore, come Figlio dell’uomo e giudice della storia. L’annuncio e la riflessione della Chiesa passano dall’attesa del traguardo di tutta la creazione alla memoria delle promesse fatte ai patriarchi e adempiute con la prima venuta del Figlio di Dio fatto uomo, nostro fratello e salvatore.

Siamo chiamati a fare nostro l’anelito dei padri, l’invocazione che sale dai poveri della terra e dalle vittime della storia, per un intervento di Dio che porti a compimento ogni sforzo e impegno di bene, suscitato nei cuori umani dallo Spirito di Dio. In questo, l’Antico o Primo Testamento ci anima e supporta, dandoci l’occasione di appropriarci dei sentimenti e delle speranze di tutti i profeti, così come delle preghiere dei Salmi, che interpretano e guidano i pensieri dei nostri cuori, a formare la preghiera di tutta la Chiesa: “– In alto i nostri cuori! – Sono  rivolti al Signore!” (Ordinario della Messa).

La preghiera dei cristiani si allarga ben oltre le necessità e le inclinazioni personali a esprimere l’adesione personale e comunitaria al progetto di amore del Padre, come Gesù ce lo ha fatto conoscere: “Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà” (Mt 6,10; cf Lc 11,2). È la preghiera del tempo della prova, che rilegge e assume le sfide del presente orientandole al traguardo.

Il tempo del giudizio

Con la morte e la risurrezione di Gesù, si inaugura il tempo del “giudizio”, ossia del riscatto di ogni bene cercato e compiuto dalle nebbie dell’ambiguità e della menzogna, dalle trappole dell’ingiustizia. Questo riscatto è operato da Colui che per amore nostro ha affrontato e sconfitto la morte e il male; sarà compiuto alla fine della storia, ma viene come “anticipato” dalla vita buona dei credenti (cf. 1Gv 5,4): “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il Regno preparato per voi, […] perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25,34-35).

“A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!” (Ap 1,5-7).

“Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». […] Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti” (Ap 22,17.20-21).

Il libro di Daniele è scritto per sostenere i credenti ebrei al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane. È uno scritto di consolazione e di esortazione alla perseveranza, motivata dalla certezza di vivere i tempi decisivi dell’intervento di Dio come giudice della storia, per liberare il suo popolo da ogni oppressione.

L’ “angoscia” della tribolazione e della prova si accompagna e cede il passo all’esperienza della liberazione. Se i potenti che reggono le nazioni scatenano la loro crudeltà contro i credenti, essi sperimentano la protezione e la guida degli inviati di Dio, i suoi servitori angelici, come Michele (Dan 10,13.21; 12,1) e Gabriele (Dan 8,16.21), che si incaricano di interpretare le visioni dei profeti, insegnando a riconoscere   il piano divino fra gli eventi della storia.

Gli angeli rappresentano la vigilanza e la cura che Dio stesso assicura al suo popolo (cf.  Es 2,24-25; 3,7; Ger 1,11-12; 31,28; Sal 121), così che il “tempo dell’angoscia” è in realtà il tempo in cui si compie la salvezza! È come il tempo del travaglio, che conduce alla gioia della nuova nascita (cf. Gv 16,21-22) e come il gemito della creazione, che attende nella speranza la rivelazione dei figli di Dio (cf. Rom 8,19-24). Questo “gemito” è suscitato e sostenuto dallo Spirito (cf. Rom 8,23.26), che anima la nostra preghiera e la indirizza al compimento del progetto divino della salvezza, “la nostra adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rom 8,23). Il testo di Daniele 12 costituisce una delle prime chiare affermazioni della fede nella risurrezione, quale traguardo della vita terrena e compimento della volontà di Dio di salvezza universale (cf. Gv 3,16-17; 6,39-40; 1Tm 2,4).

Il tempo del discernimento

I prodigi cosmici servono nel linguaggio tradizionale dei profeti (cf. Ger 4,23-26; Ez 32,7s; Am 8,9; Mi 1,3-4; Gl 2,10; 3,4; 4,15 Is 13,9-10; 34,4; Am 8,9) a descrivere i potenti interventi di Dio nella storia; in questo caso la crisi messianica seguita dal trionfo finale del popolo dei santi e del suo capo, il Figlio dell’uomo. Ma questo passaggio, che è di prova e tribolazione, non è per l’angoscia e il terrore; è un tempo di discernimento e di decisione, di risposta all’invito rivolto a tutti a “non temere, ad avere solo fede” (Mc 5,36). Siamo invitati a rallegrarci perché i nostri nomi “sono scritti nei cieli” (Lc 10,20; cf. Es 32,32-33; Sal 69,29; 139,16; Is 4,3; Ap 20,12).

“Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rom 8,31-39).

 È “questa”, infatti, la generazione protagonista del passaggio epocale.  Gesù intende evidentemente la propria, quella in cui è coinvolto, e che vede in lui l’attore decisivo, capace di conferire al proprio tempo il suo valore di  kairòs, di tempo propizio. La sua coscienza di Figlio e di inviato escatologico sostiene e riempie il contenuto dell’annuncio: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio si è fatto vicino” (Mc 1,15). Le sue azioni e il suo insegnamento di profeta danno corpo alla nuova figura del mondo, in cui Dio opera il suo giudizio, capace di rovesciare le logiche e i poteri di questo mondo. Soprattutto, la sua morte in croce, somma ingiustizia della vicenda della storia, viene accolta come la preziosa trasformazione che fa abitare  nel cuore di un uomo la  forza insospettabile dell’amore del Padre. Lì le logiche della violenza e del potere sono smascherate e denunciate come ingannevoli, di fronte alla libertà del Figlio che “legge” il tempo della prova e del dolore e lo interpreta a partire dall’amore “più grande” (Gv 15,13) suscitato nel suo Cuore dallo Spirito (cf. Eb 9,14).

Gesù fratello

 Attraverso la sua pasqua di morte e risurrezione, egli diviene il “segno per le nazioni” (Is 11,10), “tesoro nascosto”(Mt 13,44) offerto gratuitamente a ciascuno in ogni tempo, che appella a una nuova consapevolezza e coinvolge nella responsabilità di accogliere il mondo nuovo. Così rivela l’unica vocazione di tutte le genti, e associa gli esseri umani nell’unica fraternità che da lui dirama (Mt 25,40.45), unita dal vincolo della misericordia (Lc 10,36-37).

 Proprio perché “il tempo è adesso” (cf. Gv 13,1; 17,1; anche 5,25), non ha senso la pretesa di conoscere il futuro, o di rinviare la decisione della propria libertà di fronte al bene possibile e presente. Gesù stesso accetta il limite e i processi della nostra natura, soggetti alle leggi del tempo, come il margine di libertà attraverso il quale determinare non le scelte altrui, ma il senso profondo delle proprie. Nella logica dell’abbandono filiale, egli riconduce il suo progetto personale alla ricerca quotidiana, giorno per giorno, della volontà di amore del Padre. Il ricorso, rarissimo nei sinottici, dell’autodesignazione di Gesù come “il Figlio”, ci mette di fronte con tutta probabilità a una emergenza autentica, da ipsissima verba, della sua intima e originale interpretazione della condizione umana: quella che ha voluto condividere con noi, da vero fratello.

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