IV Avvento: Nell’uomo e per l’uomo

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Siamo giunti alla quarta domenica di Avvento, con l’annuncio a Giuseppe del dono gratuito di un figlio. In questo evento imprevisto egli scopre che tutto ciò è un dono da parte di Dio: quel figlio è la presenza salvifica di Dio, personale e concreta, nel suo popolo. Ma qui deve essere interpellata la libertà umana: così Gesù, grazie a Giuseppe, non solo può nascere nell’affetto di un padre umano, ma diventa pure legittimo discendente di Davide, dalla cui stirpe regale sarebbe dovuto scaturire il Messia.

La medesima Annunciazione, ma vista da Matteo con gli occhi di Giuseppe

L’Annunciazione a Maria, che abbiamo ascoltato l’8 dicembre scorso nel ritratto offerto da Luca, e quella a Giuseppe, narrata da Matteo, non sono due “fatti storici” separati da incastrare con superficiali concordismi, come se l’angelo fosse entrato prima in casa di Maria e poi, partito da lei, in quella di Giuseppe. Si tratta piuttosto, se vogliamo, di un unico evento: l’esperienza di un dono inaspettato, proveniente totalmente dall’agire di Dio nella storia umana. Ad essa, nondimeno, l’uomo e la donna sono chiamati a rispondere con la medesima fiducia che Dio ripone in loro, affinché possano dare alla luce, in mezzo a loro, Dio stesso, talmente divino da essere pienamente uomo tra gli uomini.

Come nel libro della Genesi troviamo un capitolo in cui la storia dell’origine viene presentata in forma più schematica seguito da uno narrativo, pure l’evangelista Matteo sceglie un percorso analogo: dopo l’elencazione della «genealogia (genesis) di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo», con cui si apre il capitolo primo, al versetto 18 si spiega con un racconto «come avvenne la nascita (genesis) di Gesù Cristo». Il termine genesis è il medesimo: significa origine, genealogia, nascita, o meglio “concepimento”, in questo caso.

Nel presente commento mi rifarò principalmente a Raymond E. Brown, autore di un libro noto in italiano con il titolo La nascita del Messia secondo Matteo e Luca (Cittadella, Assisi 1981). L’esegeta sostiene che, dietro al brano di oggi, sia possibile ricostruire una tradizione narrativa che Matteo ricevette. Il racconto pre-matteano probabilmente constava, come per molte apparizioni angeliche, di un’introduzione, un comando, una spiegazione e un compimento: a Giuseppe, promesso sposo di Maria, sarebbe apparso in sogno un angelo che gli avrebbe detto di accogliere (paralambanō) Maria a casa sua perché avrebbe partorito un figlio per salvare il suo popolo dai peccati; svegliatosi, avrebbe fatto come comandato e lei avrebbe partorito un figlio. Annunciazioni strutturate in questo modo sono piuttosto comuni nel Primo Testamento, note e comprensibili da tutti gli ebrei; per il Messia davidico non si poteva essere da meno.

A questa tradizione dell’Annunciazione sarebbe stata incorporata – questo vale anche per Luca – la formula di fede cristologica post-pasquale dei primi discepoli: che Gesù è il Figlio di Dio grazie unicamente allo Spirito di Dio. Solitamente “Figlio di Dio” era un titolo onorifico per il Messia davidico “adottato” da Dio, il tanto atteso Re di Israele, il “figlio di Davide”, ma nella prima predicazione i due titoli venivano messi in contrasto.

Paolo ai Romani, dal canto suo, scriveva a proposito del «Figlio suo [di Dio], nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 1,3-4).

La tradizione sul concepimento verginale di Maria, nella sua particolare situazione matrimoniale ebraica che intercorreva tra la promessa ufficiale di matrimonio e la convivenza definitiva, ha offerto in seguito lo scenario perché vi si innestasse quella dell’Annunciazione, con il messaggio cristologico implicato: lo Spirito di Dio ha costituito Gesù quale Figlio di Dio non per adozione a partire dalla risurrezione o dal battesimo, ma sin dall’origine, sin dalla concezione, sin dalla sua genesi. In questo modo l’evangelista armonizza con la sua redazione i titoli di “Figlio di Abramo” e di “Figlio di Davide” – da Matteo molto utilizzato – con la realtà del Figlio di Dio, colui che viene progressivamente riconosciuto dal suo popolo come legittimo rappresentante di Dio.

Questa genesi di Gesù è quindi anche una genesi della fede dell’uomo in Cristo, del quale scopre l’identità e le modalità con cui si rivela all’uomo, attraverso le vie più inaspettate, come già mostrava la genealogia iniziale che includeva persone strane, persino scandalose; la salvezza passa attraverso una certa parenklisis, direbbe Epicuro: una libera “deviazione” dalla linearità meccanicistica, pur all’interno della piena umanità.

Giuseppe ancora non sapeva molto: aveva solamente appreso che la donna che andava sposando si era trovata a essere incinta, evidentemente non di lui; ma un sogno converte straordinariamente il suo sguardo dai pregiudizi, dai sospetti e dai rancori alla benedizione: decide di dire solamente bene di Maria, di non permettere che si possa pensare male di quella donna, perché solo Dio conosce la sua intimità. Non può capire a fondo cosa sia precisamente accaduto, ma sceglie di metterci la faccia per prendersi cura di quel mistero che li trasforma.

L’imprevisto dello Spirito che avrebbe potuto rovinare le aspettative per la vita sua e di Maria è stato così accettato da entrambi creativamente, nel medesimo Spirito creativo e vivificante, come grazia, come dono; il segno fisico esterno della verginità fa così risplendere una realtà interna: Dio è all’opera nel corpo dell’uomo e della donna. Così cadono le accuse mosse da chi riteneva Gesù figlio illegittimo di Davide e figlio illegittimo di Dio. Innanzitutto, l’azione dello Spirito lo costituisce non tanto “biologicamente” quanto “ontologicamente” Figlio di Dio, nella sua intima essenza incarnata nella storia, e non in una concettualizzazione astratta.

Scopriamo che Dio è creativamente all’opera perché vediamo che l’uomo, obbediente come i patriarchi di Israele al messaggio di Dio stesso che scombussola la sua vita e si fa strada attraverso i suoi dubbi, è creativamente all’opera nel medesimo Spirito, nella medesima Annunciazione. Dunque, la libertà di Giuseppe garantisce a Gesù l’innesto nella discendenza davidica messianica, anche questa non tanto “biologicamente” quanto “legalmente”: il suo riconoscimento pubblico è una responsabilità che viene da lui assunta, nella libertà, di dare il nome a Gesù, cioè di diventarne padre ai sensi della legge; genitore di colui che da sempre è Figlio di Dio.

Se altri autori, come Paolo o il Quarto vangelo di scuola giovannea, hanno preferito contrastare l’adozionismo lodando la preesistenza del Verbo divino, per Luca e Matteo quel “da sempre” lo si esprime con la storia, con la concezione, con la genesi di Gesù.

Ciò tuttavia ha posto ad alcuni teologi la difficoltà di rendere compatibile una teologia della preesistenza con quella della concezione divina, entrambe ugualmente funzionali alla verità salvifica: Gesù da sempre è sostanzialmente nell’intimità di Dio – non semplicemente “ispirato” accidentalmente come gli altri profeti – e pertanto per mezzo di lui, per sua gratuita iniziativa fattasi umanamente accessibile, anche noi possiamo lasciarci coinvolgere appieno in questa realtà divina.

Dio si dona personalmente e gratuitamente nella storia

Soprattutto per Matteo, Gesù è la manifestazione finale e definitiva della presenza profetizzata del Dio-con-noi (Emmanu-El, non tanto un nome proprio quanto una descrizione di ciò che farà). Se Luca assicurava specialmente a Maria che Dio è dalla sua parte – «Il Signore è con te» (Lc 1,28) –, in Matteo la certezza risuona nella comunità dei credenti: «Dio è con noi» (Mt 1,23). Non a caso il suo vangelo termina rilanciando un annuncio: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Anche in quell’ultimo capitolo presso la tomba vi è un angelo, modo tradizionale per esprimere la presenza visibile di Dio tra gli uomini; eppure l’essere presente di Dio-con-noi in prima persona, in carne e ossa, tangibilmente in Gesù è qualitativamente diversa da quella di un messaggero incorporeo, perché il Cristo ha una sua genesi, una storia, un corpo umano.

A ben vedere, la nascita verginale non sarebbe neppure necessaria, ma può dirsi “più che necessaria” teologicamente, nel senso del magis, del “di più” che eccede la stretta necessità; quindi, non può essere un “atto dovuto”, bensì una grazia, una gratuità, un dono libero. Matteo (e Luca) parlano di tale segno aggiuntivo di Dio in relazione alla venuta del Salvatore, ma una concezione matrimoniale ordinaria avrebbe potuto essere altrettanto santa; per questo può dirsi come un dato secondario rispetto al messaggio cristologico dell’autore sacro.

Di per sé il concepimento verginale non prova neppure il fatto che Gesù sia la “Seconda Persona della Santissima Trinità” (ad esempio, i musulmani credono alla verginità di Maria ma non al fatto che Gesù sia Dio) né ha un riscontro biologico assimilabile a certi casi di “partenogenesi”, perché questo farebbe perdere di vista il senso salvifico della gratuità ricamato dall’evangelista.

Sebbene oggi la narrazione risulti problematica, in quanto espressa con le conoscenze “scientifiche” dell’epoca – mentre ora consideriamo indispensabile il contributo cromosomico di ambedue i genitori umani nella trasmissione del patrimonio genetico a un soggetto che possa essere definito “vero uomo” – la “concezione verginale” vuole mostrare più luminosamente il dono gratuito di quell’Emmanuel, il Dio che fa il primo passo: prende totalmente l’iniziativa per accorrere presso il suo popolo amato e portarlo alla salvezza, assumendolo con sé.

Per gli ebrei, quel popolo è ovviamente Israele, ma nella riflessione di Matteo si staglia anche la Chiesa, o comunque abbraccia “giusti” non-israeliti che, in un modo o nell’altro, confluiscono nella genealogia di Gesù. Il quale, come da etimologia del proprio nome, è salvezza che viene da Dio: è salvezza che salva il suo popolo dai peccati.

Non viene qui esplicitato come, ma ciò costituisce pure un’autocritica comunitaria, nel momento che si ammette la presenza dei peccati anche dentro Israele, dentro la Chiesa, che solo da una mano tesa fuori di sé – da quel Dio che domanda di essere accolto nelle vicende dell’umanità – può trovare occasione di salvezza.

Questa iniziativa di Dio trova gli uomini addormentati; incalzati dai messaggeri, anche noi possiamo, come Giuseppe, scattare in piedi per vivere quel dono – anche qualora fosse vissuto da altri anziché nel proprio corpo, a differenza di Maria – non dovuto, eppure altrettanto atteso.

Nodi esegetici

1. Un primo punto riguarda il significato dell’attributo «giusto» riferito a Giuseppe (Mt 1,19). L’aggettivo dikaios è amato da Matteo (lo usa 18 volte contro le 4 di Luca e le 2 di Marco), che fa della giustizia uno degli assi portanti del suo evangelo. Tradizionalmente sono tre le interpretazioni di questo versetto.

La prima, più “pia”, vede in Giuseppe un timorato di Dio, quindi, conscio della propria indegnità, avrebbe inizialmente rifiutato di fare da padre a Gesù o comunque di convivere con una donna così benedetta; presuppone che, prima che il messaggero lo pregasse di accogliere Maria, già avesse intuito che un dono divino l’aveva resa incinta. Ma tale notizia, presente già nel versetto 18, Matteo sembra riservarla al lettore, creando così una opacità, vale a dire una differenza informativa a scapito di Giuseppe, che non poteva invece conoscerla.

La seconda interpretazione, già attestata in Clemente di Alessandria, vede nella misericordia – espressa dalla seconda parte del versetto 19 sul «ripudiarla in segreto», che vedremo a breve – la concreta espressione della giustizia; presuppone che le due parti del versetto siano coordinate da una «e» (kai) consequenziale, esplicativa.

Sembra invece più plausibile, perlomeno inizialmente, un senso avversativo, che interpreta la giustizia di Giuseppe in senso legale: in quanto ebreo praticante, conoscitore della Torah, sapeva che, a rigore, la pena prevista per la promessa sposa messa incinta da un altro sarebbe la lapidazione (Dt 22,13-21) da comminarsi dopo un processo pubblico con un’ordalia. Questa terza interpretazione, condivisa dai padri Ambrogio, Agostino e Crisostomo, probabilmente corrisponde maggiormente all’intenzione dell’autore, nonostante poi si sia virato verso una lettura più “dolce”.

2. Cosa significa «ripudiarla in segreto» (lathra apolysai autēn)? Lathra significa senza far trapelare la notizia, quindi senza diffamare, senza esporla al pubblico ludibrio con un processo, senza svergognarla, evitando pertanto di stigmatizzare (deigmatizō) quella persona come esempio di “grave peccatrice” di fronte all’opinione pubblica. Certamente un “semplice divorzio” non poteva essere totalmente nascosto in quanto necessitava comunque di testimoni, ma perlomeno avrebbe creato meno scandalo rispetto a un processo per adulterio con conseguente lapidazione.

3. La profezia di Isaia 7,1 si è avverata proprio in Maria? Anche in questo caso ci possono essere vari approcci.

Il primo, di tipo “predittivo”, è quello dei primi cristiani che, rileggendo il testo profetico alla luce di Cristo risorto, ha creduto che il compimento pieno di quel versetto fosse Gesù, Dio-con-noi, l’Emmanuele presente dal ventre di Maria in poi nella sua Chiesa.

Ad oggi è preferibile una lettura “tipologica” consapevole che, perlomeno nella versione ebraica di Isaia, non si parla biologicamente di una “vergine” dal punto di vista fisico ma della “giovane”; per giunta, come si può leggere anche nella Bibbia in greco (detta dei “Settanta”, o LXX), la profezia si riferisce a una donna specifica che da lì a poco – si sofferma appunto sulla provvidenzialità del momento – avrebbe concepito Ezechia, e non con un intervento soprannaturale, ma con il padre biologico Acaz.

Un approccio “multiplo” alla profezia presuppone che l’ispirazione divina non si sia esaurita con Ezechia ma sarebbe rimasta valida anche per compiersi in Gesù. Il fatto che la prospettiva di Isaia non presupponga un concepimento straordinario verginale, per opera esclusivamente divina, esclude sia le interpretazioni fondamentalistiche che trascurano la differenza storica dei due episodi narrati, sia quelle che ritengono il racconto di Matteo suggestionato da tale profezia, della quale costituirebbe un commento narrativo. Piuttosto è stata la nuova luce della tradizione del concepimento verginale di Maria a rileggere il Primo Testamento, alla ricerca di semi del Verbo.

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