IV Quaresima: La luce che illumina i ciechi

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Il tema della luce sta al centro della liturgia odierna ed esprime un legame necessario con il battesimo, che si rivela essere un’illuminazione direttamente legata alla conoscenza di Cristo e all’adesione di fede a lui. Come scrive Giovanni nel Prologo parlando del Verbo: «In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4-5).

Torniamo al tema della lotta, altrimenti detta “dimensione agonistica” della vita cristiana, dal quale erano partite queste riflessioni utilizzando l’incipit del primo sermone per la quaresima di san Bernardo, che dava inizio al suo discorso qualificando questo tempo liturgico come tempo della “milizia cristiana”.

È stato giustamente osservato dagli esegeti che tutto il quarto vangelo è costruito sulla figura della lotta tra luce e tenebre, e il brano di oggi, la guarigione del cieco nato, è sommamente emblematico da questo punto di vista, come vedremo.

La vittoria della luce

Il verbo che riguarda l’azione delle tenebre è cruciale. Nella mia memoria risuona la traduzione secondo cui le tenebre non «hanno compreso» la luce, forse anche sotto l’influenza del non comprehenderunt della Volgata. Può stare, ma il rischio è che il verbo indirizzi piuttosto verso una comprensione di carattere solo intellettuale, che a mio parere è troppo debole.

Già la nuova traduzione della CEI usando il verbo “vincere” rimanda a un conflitto che non è solo intellettuale, quasi si trattasse di ottenere la vittoria in una disputa tra filosofi o teologi. Troppo poco. Il verbo katalambano qui usato, significa certo comprendere, ma possiede anche un valore pittorico molto più alto, volendo dire “cogliere di sorpresa, impadronirsi, sopraffare, soverchiare”, quello che Fausti rende così: «la luce splende nella tenebra, e la tenebra non la afferrò».

Qui la figura della lotta è molto più drammatica: è una guerra che avviene sul campo, non certo nelle aule accademiche, guerra di comportamenti, con conseguenze tragiche. È inevitabile pensare, per esempio, al momento dell’arresto al Getsemani, quando di Gesù si dice che «gli misero le mani addosso e lo arrestarono» (Mc 14,46), dove, ancora una volta, va lodata la traduzione di Fausti, più letterale e più pittorica: «Ma quelli gettarono le mani su di lui, e si impadronirono di lui».

Così, quella che nel Prologo giovanneo appare un’affermazione nitidamente teorica, acquista una valenza realisticamente drammatica. I prodromi di quel momento conclusivo di una lotta che pare concludersi in una sconfitta sono già annunciati nel vangelo di oggi, ed è bene che il battezzato ne sia consapevole. Del resto, la Lettera agli Ebrei scrive: «Richiamate alla memoria quei primi giorni: dopo aver ricevuto la luce di Cristo, avete dovuto sopportare una lotta grande e penosa» (Eb 10,32).

La prima Lettura (1Sam,1b.4.6-7.10-13) pare non abbia niente a che fare con il tema della luce. L’argomento è il racconto, costruito con un’antologia di versetti, sulla scelta di Davide, il “più piccolo” di cui pareva ci si fosse dimenticati.

Nella storia è importante l’affermazione di Samuele, per cui Dio non fa preferenze di persone, perché «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».

Se c’è un nesso con le due letture che seguono, mi pare di trovarlo nella riaffermazione per cui il vero e ultimo protagonista della storia è sempre Dio, ciò per cui, per esempio Gesù, a differenza di molti altri miracoli, ridona la vista al cieco nato senza che nessuno, neanche il cieco, glielo abbia chiesto. Il suo è un atto di pura sovranità sul male.

Figli della luce

Molto più in tema il brano paolino tratto da Ef 5,8-14, che entra da subito nel discorso: «Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità». E tanto basti per sottrarre l’immagine della “luce” da un campo squisitamente, se non primariamente o unicamente intellettuale. La luce brilla, certo, la sua funzione è rivelare la natura delle cose e dei comportamenti.

Nessuno può sottrarsi ai suoi raggi: chi ci prova è come Adamo che pensa di nascondere la sua nudità con delle foglie di fico. Come dirà Gesù a Nicodemo: «Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece, chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,19-21).

Il testo di Efesini ricalca le medesime cose quando dice: «tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce». Quello che segue è la conseguenza di quanto detto sin qui: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà (Is 26,19; 60,1». Qui la tenebra è fatta coincidere con il sonno, che è come dire l’inerzia e la paralisi, l’assenza di opere buone, una vita sterile e alla fine inutile. La luce ci chiama al risveglio, all’azione, alla vita.

Sul “segno” – come Giovanni ama chiamare i miracoli – della guarigione del cieco nato vale quanto detto del dialogo tra Gesù e la samaritana. È una pagina di una densità straordinaria, che qui può essere solo illustrata attraverso qualche spunto di riflessione che serva a compattarla in un’esposizione significativa, anche se breve.

Il punto di partenza rivela già un pregiudizio che è, in sé, una forma di “cecità”, che Gesù, la luce, si incarica di smascherare subito: la condizione di una “cecità dalla nascita” non è il frutto di una colpa commessa dal cieco o dai suoi genitori, ma è «perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Il cieco diventa simbolo dell’intera umanità ferita sin dall’origine da una “colpa” le cui conseguenze scopre chiunque non appena la sua ragione si rende conto di tutte le deficienze che porta in sé dalla nascita.

È Gesù che decide di fare il miracolo, per rivelare la sua natura e la sua missione: «Finché io sono nel mondo, io sono la luce del mondo».

Il modo della guarigione è sorprendente e paradossale: fa del fango con la saliva e lo sparge sugli occhi del cieco, poi lo invita a «lavarsi nella piscina di Siloe, che significa “Inviato”». Gesù ripete il gesto della creazione e, insieme, costringe il cieco a rendersi conto ancora di più della sua cecità. È questa la premessa necessaria per guarire.

Poi riappare, come per la samaritana, il tema dell’acqua, che in questo caso “lava”, ma quell’acqua è anche l’incontro con l’Inviato, cioè con quella luce che è Gesù. E il miracolo avviene.

Tutto il resto del lunghissimo brano descrive le conseguenze del prodigio, che non è la gioia, ma una serie di reazioni che sembrano proprio lo sforzo delle tenebre di negare la luce! Si faccia caso a come, con felicissima ironia, come con la samaritana, l’evangelista fa zigzagare il dibattito tra quelli che “sanno” e sono ciechi, e colui che è “cieco”, ma di passo in passo finisce per dimostrare che Gesù non ha guarito in lui solo la vista materiale, ma l’ha condotto ad una illuminazione sempre più viva che lo porta, addirittura, a prendersi gioco di quelli che lo contraddicono.

Ho trovato, in proposito, un altro bell’aforisma di Maurice Bellet, che si può bene applicare alla scena così ben articolata da Giovanni: «Ci sono due specie di persone sulle quali non si può contare: quelli che non sanno: non sanno; quelli che sanno: non impareranno niente. Su chi dunque si può contare? Su quelli che sanno di non sapere” (Minuscule traité acide de spiritualité, p. 55).

Il dibattito che segue la guarigione è una dimostrazione palmare – se pur ce ne fosse bisogno – di dove può condurre il giudizio in ogni processo che parte da un pregiudizio inguaribile: «i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga». Ed è quello che accade. Da una parte, è mirabile il modo con cui l’ex cieco cresce nella conoscenza di Gesù argomentando su ciò che gli è accaduto, mentre, dall’altra, i giudei ostinatamente ripetono di “sapere” che Gesù non può venire da Dio, sia perché ha operato di sabato, sia perché gli argomenti del cieco non valgono, essendo lui «nato tutto nei peccati» (era quello che pensavano anche i discepoli…), e dunque incapace di insegnare alcunché!

Il punto d’arrivo della storia è luminoso. Gesù non ha aspettato che il cieco, guarito, tornasse a ringraziarlo: lo ha lasciato solo di fronte alle brutte reazioni da lui suscitate nella gente (è lui, non è lui?), nei suoi genitori (lo lasciano al suo destino), nei giudei (lo attaccano su tutta la linea, e alla fine lo cacciano).

Quando sa che è stato buttato fuori dalla sinagoga, lo va a cercare e lo conduce all’ultimo passo del suo lungo “catecumenato” vissuto attraverso tante prove, superate con una ammirevole ostinazione nel credere alla bontà di quanto gli era accaduto. Gli resta di “riconoscere” in Gesù il Figlio dell’uomo, e lo fa in quel «Credo, Signore» che è il più breve e il più semplice atto di fede.

Dalla bocca di Gesù viene l’ultima luce: «Sono venuto in questo mondo perché coloro che non vedono, vedano, e quelli che vedono, diventino ciechi». E a quei farisei che gli chiedono: «Siamo forse ciechi anche noi?», risponde: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato (di nuovo!), ma siccome dite “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

Tutto torna. Perché i nostri occhi vedano la luce, è necessario essere consapevoli di una nostra cecità radicale che non può essere guarita se non aprendoci alla luce che è Gesù.

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