IV Quaresima: Un uomo aveva due figli

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La parabola che ascoltiamo oggi è fin troppo nota, ma ci fa bene riascoltarla e sentircene interrogati in prima persona, per poter fare anche noi il nostro cammino per ritrovare il Padre: Lc 11,1-3.11-32.

In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Dei protagonisti di questa parabola non sappiamo nomi, luoghi, tempi, circostanze. L’unica cosa che Gesù ci dice è la relazione che li lega: un uomo aveva due figli.

Il più giovane e il maggiore

Ma questo che ci vien consegnato come un dato di partenza si rivela invece essere il punto d’arrivo della storia narrata, o meglio l’esito desiderato sia rispetto alle vicende della parabola, sia nella storia degli ascoltatori di tutti i tempi, il desiderio stesso di Dio per ogni uomo.

Perché nelle vicende della vita spesso non è facile sentire Dio come padre e non è facile sentirsi suoi figli. E nelle relazioni a volte troppo complicate della storia può essere davvero difficile riconoscersi fratelli.

Per il figlio più giovane esistono solo i diritti, di più, le pretese di fronte alla parte di patrimonio che gli spetta.

La paternità è qualcosa da cui ottenere un profitto e da cui allontanarsi, in nome di una falsa libertà. Non ci sono vincoli di rispetto, di cura; non ci sono confini, l’indifferenza lo porta verso un paese lontano, dove tutto sembra possibile, dove la memoria di casa non serve, dove può farcela da solo.

Sono i morsi della fame a farlo ritornare in sé e pensare al padre: non però come colui che lo attende, lo cerca, soffre per lui, ma come il “padrone” di molti salariati, ai quali si potrebbe accodare per avere almeno un pezzo di pane. Ha sepolto la sua figliolanza sotto l’indifferenza, la pretesa di autosufficienza, l’incapacità di fare un reale cammino per riconoscere il padre, per riconoscersi figlio.

Anche per il figlio maggiore non si tratta di una relazione semplice. Con il padre ha un banale rapporto di dare-avere, per lo più frustrato. È schiacciato dalla fatica di doversi meritare qualcosa, che poi non gli è mai sufficiente, e dall’invidia per chi, del tutto ingiustamente, viene trattato meglio di lui. Il padre è il suo “datore di lavoro”, e pure di parte; vive il loro rapporto come un’abitudine, una necessità, una gabbia in fondo, da cui non ottiene neppure i benefici che gli spetterebbero.

Chi è Dio per noi?

Davvero questi due atteggiamenti sono così lontani dal nostro modo di vivere la fede? Chi è Dio per noi? Abbiamo imparato fin da piccoli a pensarlo e a pregarlo come padre, ma di che tipo di padre stiamo parlando?

Forse anche per noi è una presenza ingombrante, perché in fondo quello che abbiamo è nostra proprietà, nostro diritto, e ci sembra che potremmo benissimo fare a meno di lui.

O forse rimaniamo “in casa” semplicemente per abitudine, o per senso del dovere, o per interesse e paura, con l’ansia di soddisfarlo e, nello stesso tempo, la tristezza di non sentirci mai all’altezza, con la frustrazione di non avere quello che ci meriteremmo.

Eppure nella paternità di Dio sta proprio il cuore della nostra identità. Perché con questa parabola Gesù ci dice che per Dio noi rimaniamo, sempre e comunque, figli. Figli da cercare anche quando usano male la loro libertà, puntano i piedi o scappano lontano. Figli da abbracciare prima di ogni giustificazione, da rivestire quando hanno perso ogni dignità. Perché questo è il Dio di Gesù, questo è il Vangelo che non possiamo stancarci di annunciare. Anche quando la violenza ci abbruttisce, l’indifferenza ci rende odiosi, la dissolutezza ci porta ad essere ridicoli, la finta libertà ci fa credere onnipotenti o ci riduce a miserabili… rimaniamo figli, e Dio rimane padre.

Basterebbero soltanto i 22 versetti di questa parabola per renderci certi che il Vangelo è appunto la “buona notizia”, la rivelazione ultima e irrevocabile di un Dio Padre che libera, accoglie, abbraccia ed attende. Perché così finisce il racconto, con l’attesa di Dio. Dio attende che, ritrovandolo padre, ci riconosciamo fratelli, e da fratelli facciamo festa assieme.

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