V Pasqua: Tra la “pietra angolare” e la “via”

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La liturgia di oggi, dopo quelle della porta e del pastore, ci presenta, ancora una volta, un paio di immagini solo apparentemente contrastanti, ma che sono in realtà complementari. La pietra evoca la “solidità” e la perseveranza, la via indica il dinamismo e la “fantasia” della vita. La prima da sola rischia di diventare appiattimento e persino noia, la seconda, senza argini che la guidino e la proteggano, può disperdersi in improvvisazioni e futilità che la distruggono. Questo il tema che mi pare leghi le tre letture odierne.

La “fluidità ministeriale” dei diaconi

L’incontro delle due figure è subito chiaro dalla prima lettura (At 6,1-7), dove si narra l’episodio che va sotto il titolo di elezione dei sette diaconi.

La pietra è l’annuncio della Parola, termine che negli Atti diventa così protagonista da fare spesso da soggetto alla frase (la Parola corre e si diffonde, con i piedi degli annunciatori, ovviamente), la via è il servizio, che da questa discende, e che si può materializzare in tantissime maniere, come continuiamo a vedere. Questa volta è quella carità pratica che si esprime nella “assistenza quotidiana alle vedove”, una categoria di poveri allora, e non solo, molto diffusa.

La cosa che mi pare interessante notare, è che questa decisione non scende in diretta dallo Spirito Santo, ma nasce molto concretamente da una protesta, che in parte scalfisce quell’immagine idilliaca della comunità primitiva presentata da Luca in At 2,42-46, o forse no, perché la “mormorazione” evidenzia un problema, per risolvere il quale ci si preoccupa e si prende “insieme” una decisione che sta bene a tutti.

Particolare non trascurabile: questa ripartizione di compiti non è rigida, e non crea due “gruppi” autonomi, perché proprio il primo dei sette, Stefano, descritto come «pieno di fede e di Spirito Santo», pronuncerà subito dopo un grande discorso che riempie tutto il capitolo sette, così come il secondo, Filippo, si troverà a «predicare il Cristo» in Samaria (At 8,5).

Credo che anche questo fatto aiuti a vedere in tutti i battezzati la capacità potenziale a vivere, secondo le diverse possibilità, la vocazione sacerdotale, profetica e regale che rischiava, e rischia sempre, di essere sequestrata da categorie specifiche. Sarà stato anche il pericolo di eresie a far muovere verso una “sacralizzazione” dei ministeri (anche se grandi eresie e scismi sono pure di provenienza “clericale”!), ma credo che il ritrovamento di una certa “fluidità ministeriale” sia uno dei frutti migliori del Vaticano II, insieme alla percezione, chiaramente espressa, per esempio, da san Paolo VI, che tutta la Chiesa o è missionaria o non è!

La conclusione della Lettura tira le fila del discorso con una mirabile concisione: «La parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli si moltiplicava grandemente», come dire che nella “Parola” si riuniscono la pietra e la via, o che la prima si moltiplica mediante l’annuncio e il servizio, servizio che è esso stesso annuncio, così come l’annuncio è parola che evapora se non si materializza in servizio, che non è solo la “carità” in senso specifico, ma tocca anche il “lavoro ordinario” vissuto, appunto, come “servizio”, come è dato di vedere in questi tempi di pandemia.

Una teologia “dossologica”

In quella omelia battesimale che pare sia la Prima Lettera di Pietro (1Pt 2,4-9) la pietra diventa “viva”, e fa pensare a quell’altra immagine della rinascita che è la fonte (celeberrimo il mosaico della tomba di Galla Placidia a Ravenna, con le due colombe che vi si abbeverano), e acquista un potere generativo, al punto che anche noi siamo chiamati a diventare «pietre vive» di un «edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo».

Dalla pietra-fonte germoglia il servizio, che è “sacrificio spirituale” non perché sia fatto di vapore acqueo, o necessiti di preghiere tecnicamente intese, ma perché ha le sue radici nell’adesione al Signore Gesù, nell’imitazione del suo stile di vita, ed è esercizio di un “sacerdozio” che è “santo”, non grazie anzitutto alla presidenza nei riti, ma perché è “mediazione”, e questa alla scuola del Mediatore unico, di ciò che “collega” a Dio in quanto ci rende interpreti della sua azione.

È un peccato che si debbano spiegare tutte queste parole, e sappiamo molto bene che uno dei problemi che affliggono ai nostri giorni la celebrazione liturgica è un linguaggio che non è più (se mai lo fu!) immediatamente intelligibile.

D’altra parte, l’omelia, e la catechesi, esistono proprio per questo. E magari qualche volta è bene ricordare che la mamma, o la nonna, che insegna al bambino a fare il segno della croce, il o la catechista che spiega la dottrina della Chiesa, chi anima un gruppo biblico, chi serve alle mense dei poveri, chi aiuta in vari modi le varie categorie di indigenti ecc. sono tutte persone che esercitano il loro sacerdozio, o il loro ministero di battezzati, tanto quanto chi presiede l’eucaristia.

Il “voi” ai quali si rivolge Pietro è rivolto a tutti quanti sono diventati, mediante il battesimo, pietre vive di quell’edificio costruito sulla pietra di fondamento che è Cristo, o, se vogliamo usare un’altra immagine ancora più viva, tralci di quella vite che è pure il Cristo.

Non è che ci si debba gongolare per essere chiamati «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato», perché questo è in effetti un “privilegio”, ma in funzione di un “servizio”, quello di «proclamare le opere ammirevoli di lui, che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa»!

Nelle opere dei Padri e dei grandi autori medievali esiste una teologia che è chiamata “dossologica” che, secondo un magister del XII secolo, Isacco della Stella, e secondo un grande teologo del secolo scorso, Yves Congar, è la forma più alta di discorso su Dio. Rispetto a un’omiletica che cade troppo in fretta nel moralismo, quando non in una litania noiosa di rimproveri, quale guadagno sarebbe ricuperare un po’ il linguaggio della dossologia, quella che scalda il cuore cantando e lodando le meraviglie che il Creatore, il Redentore e lo Spirito continuano a operare in noi e attorno a noi!

Non posso a questo punto ignorare il peso e il posto che ha il canto nelle liturgie delle varie Chiese nate dalla Riforma che, tra le sue conquiste più belle e durature, comprende la sterminata produzione di inni e corali ispirati ai salmi, al punto che questi sono ancora oggi parte integrante del culto in risposta alla lettura biblica, cosa che il Vaticano II ha cercato di introdurre nel culto cattolico con il “salmo responsoriale”, che purtroppo dice una reazione al brano ascoltato che resta teorica, ma che è molto lontana, ahimè, dall’effetto di manifestare il fervore e la gioia della fede che può avere solo una risposta cantata! Non ignoro neanche l’effetto di coesione e la sensazione di respirare in una atmosfera comune che trasmette la musica corale che da sempre accompagna la liturgia ortodossa.

Non solo Via, ma anche Verità e Vita

Il vangelo (Gv14,1-12) inizia con un invito alla fiducia, spiegabile anche perché con quelle parole Gesù intende preparare i discepoli alla sua “partenza”. La chiave di tutto è il suo rapporto con il Padre, che è come dire con il principio e la fine di tutto, un rapporto che, attraverso di lui, viene esteso a tutti noi, e che significa anzitutto la vittoria sulla precarietà e sulla morte. Una fiducia che è basata sul fatto che egli va a prepararci un posto tra le “molte dimore” che ci sono nella casa del Padre, come a dire: c’è posto per tutti!

Il dialogo procede con due domande. Gesù dice che desidera portarci dove va lui, al che Tommaso, che sembra l’incarnazione della concretezza (deve vedere e toccare per credere…), chiede: «Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». La risposta è pronta, con uno di quegli incredibili “Io sono” che costellano e punteggiano il quarto vangelo. In questo caso sono addirittura tre i sostantivi che materializzano l’identità di Gesù: la via, la verità e la vita! E tutto viene dalla sua unità con il Padre, che ne fa una cosa sola con lui, anzi, tale unione è così essenziale e profonda, così “ontologica”, che conoscere e vedere uno è conoscere e vedere l’altro.

Filippo forse non ha ancora capito, anche perché, obiettivamente non è facile fare questo passaggio astrale! E Gesù è costretto a precisare ulteriormente la cosa con affermazioni che non dovrebbero lasciare più alcun dubbio: «Chi ha visto me ha visto il Padre. Le parole che vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre che rimane in me compie le sue opere». Un’altra felice sorpresa: le parole che diventano opere, le opere che parlano!

Ma, giunti a questo punto, arriva l’affermazione finale che non è né ovvia né scontata, perché con opere e parole Gesù ci cattura e ci attrae proprio dentro il rapporto che c’è tra lui e il Padre: «Chi crede in me anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste perché io vado al Padre».

C’è già qui in nuce il senso dell’Ascensione e della Pentecoste. La prima è tutt’altro che una partenza, ma la dilatazione di una presenza alle dimensioni del mondo e della storia, così come la Pentecoste è la prova provata dell’inizio di una tale dilatazione, che finirà solo quando tutto sarà realizzato nella riconsegna del Regno nelle mani del Padre. Proprio per questo nuovo tipo di presenza Gesù può dire che chi crede in lui potrà anche compiere “opere più grandi”, perché ora l’umanità di Gesù è presso il Padre, e da lì funziona con pieni poteri.

Alla fine resta nelle orecchie il rimprovero che Gesù fa a Filippo: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto, Filippo?». Il peggior errore che potremmo fare è considerare compiuta la nostra conoscenza di Gesù. Abbiamo sempre a disposizione il vangelo, abbiamo le innumerevoli storie che ne hanno ricavato i santi, dei quali si è detto che, se il vangelo è la partitura, la musica la fanno loro! Sta a noi tenere viva quella santa curiosità per un “mistero” che non finiremo mai di esplorare.

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