VI di Pasqua: il dilagare dello Spirito

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Potremmo dare come tema alla domenica odierna il primo visualizzarsi e materializzarsi di quella che potremmo indicare come “la rottura delle frontiere”, dove lo Spirito della Pentecoste straripa materialmente al di là dei confini spirituali della religione di Israele. Lo Spirito, infatti, si posa su «tutti quelli che ascoltavano la Parola», il che avviene a Cesarea, nella casa di Cornelio, centurione della coorte italica, dove Pietro si era recato per rispondere alla chiamata dello stesso centurione.

L’effetto è una dichiarazione sconvolgente dello stesso apostolo, che pronuncia una sentenza che non si dovrebbe dimenticare mai: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».

Mi chiedo quanti sono i cristiani oggi che hanno la medesima convinzione! Che del resto non è neanche del tutto nuova. Appare già in Dt 10,17, e si troverà in molti altri riferimenti, come si può vedere nella nota della Bibbia di Gerusalemme a questo passo, tra i quali segnalo Gal 2,6; Rm 2,11; 1Pt 1,17.

Un Dio “inclusivo”

La lettura (At 10,25-26. 34-35.44-48) riassume l’importantissimo episodio di Cesarea scegliendo alcuni versetti chiave, tali però che bastano a capire quanto è accaduto. Un intero capitolo di 48 versetti è dedicato a questo incontro tra l’apostolo e il centurione, a dimostrare il rilievo dato a questa storia, direttamente proporzionale allo “stupore” da esso suscitato negli ebrei osservanti.

E la storia non finisce qui, perché Pietro si vedrà costretto a giustificare il suo operato davanti alla comunità di Gerusalemme (At 11,1-18), che lo rimprovera per il suo comportamento, ma che, dopo la spiegazione data loro dall’apostolo, si vedrà costretta ad ammettere che, «dunque, anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!».

Scorriamo dunque la sintesi oggi proposta come prima lettura per scorgervi i passi cruciali che caratterizzano la storia. La ripartizione tipografica ne mette in rilievo quattro.

1) Il primo consiste nell’illuminare gli occhi di Cornelio che si era prostrato davanti a Pietro con un gesto di venerazione eccessiva. «Alzati, dice l’apostolo, sono anch’io un uomo» (vv. 25-26), affermazione che echeggia quanto aveva detto allo storpio da lui guarito alla Porta Bella (At 3,6), e preannuncio di quanto capiterà a Paolo e Barnaba a Listra con la guarigione di un paralitico (At 14,8-12). Il cielo di questi malati deve prima essere ripulito dalla presenza di dèi fasulli per essere aperto solo alla grazia del Dio unico che si materializza in Gesù, suo Figlio.

2) Il secondo passo consiste nell’affermazione solenne della presa di coscienza di Pietro già citata sopra (vv. 34-35), dove è da notare l’espressione «sto rendendomi conto», che indica un processo mentale in corso, forse già iniziato, ma che in questo caso marca un progresso rilevante, anche se tale consapevolezza chiederà di superare altri tentennamenti, come mostra il contrasto con Paolo ad Antiochia (Gal 2,11-14).

3) Il passo successivo è una sorta di mini-Pentecoste, dove la discesa dello Spirito Santo si realizza anche sui pagani, con il conseguente stupore dei «fedeli circoncisi» che erano al seguito di Pietro. Lo stupore è sempre un’ottima spinta all’atto di fede, con il risultato immediato di diventare lode del Signore e rendimento di grazie. Domanda: cosa è rimasto, quanto al credere, della nostra capacità di stupirci? Viene da chiederselo quando in certe celebrazioni capita, per esempio, di sentire recitare il Credo da voci che si rincorrono in modo frettoloso, il che fa pensare che le persone non si rendano conto di ciò che dicono né della meraviglia che ognuna delle frasi del Simbolo dovrebbe suscitare.

4) Arriva alla fine la naturale conclusione, dove, davanti all’accaduto, Pietro è costretto a dire: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». Certo, in Cornelio e nei suoi è nata la convinzione che il prodigio di cui sono stati oggetto non può esaurirsi nello stupore di un momento, ma chiede di essere prolungato da una “catechesi” successiva, perché essi pregano Pietro di «fermarsi alcuni giorni». Non c’è qui una lezione che dice come i sacramenti che amministriamo non esigono solo una preparazione, ma anche una “continuazione”?

Tre aspetti dell’amore

La seconda Lettura (1Gv 4,7-10) parla d’amore. Nessuna sorpresa, dato che lo Spirito Santo è l’amore che lega il Padre e il Figlio, e «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Il brano ci consegna tre aspetti di questo amore, sui quali sarebbe pericoloso correre come fossero delle ovvietà.

Il primo ci dice che «chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio». Il minimo che si deve osservare, dichiarato subito e con chiarezza da un tale linguaggio, è che amare non è un’operazione intellettuale, ma un sentimento che nasce da una relazione/conoscenza, cioè che esso prende senso e verità da una reciprocità che accomuna le persone. È amando che si conosce, ed è conoscendo che si ama.

Il secondo aspetto ci illumina su come tale amore si manifesta. Il traguardo è posto molto in alto: dare la vita, come Gesù ha dato la vita perché noi fossimo salvi. Ma ogni volta che parlo di questo tema, e ogni volta che mi viene detto che è un obiettivo difficile da praticare, rispondo che il “dare” la vita resta sì un traguardo impervio, ma che il tragitto comincia con il “dare anche solo un bicchiere di acqua fresca a chi ha sete” (cf. Mt 10,42).

Il terzo aspetto dovrebbe essere quello che alimenta il nostro “stupore”, elemento indispensabile della fede, così come lo è la gratitudine che ne deriva. L’amore di Dio infatti è una iniziativa gratuita, non è premio ai nostri meriti! E il “dare la vita” si traduce nel Padre che manda il Figlio che “si consegna” come vittima di espiazione per i nostri peccati.

Rimanere nell’amore

È questo darsi che, come dice mirabilmente Hopkins con quattro monosillabi, ha fatto di Cristo il “primo, saldo e ultimo amico” (first, fast, last friend): primo, perché l’iniziativa è sua; saldo perché dura sempre, ultimo perché, quand’anche tutti gli altri sparissero, lui rimane nostro amico.

È cruciale, se si capisce tutto ciò, rimanere in questo amore (Gv 15,9-17), facendo, come Gesù, la volontà del Padre; il frutto di ciò è la gioia, e una gioia piena. La reciprocità, che funziona tra noi e Gesù, deve naturalmente riflettersi nel modo con cui ci rapportiamo tra di noi, suoi discepoli, ed è esattamente questo “come” che caratterizza qualitativamente il nostro modo di amare: è questa l’amicizia spirituale, che «ha in Cristo il principio, il percorso e il traguardo» (cf. Aelredo di Rievaulx, Am. Spir. I,7, p. 64 e 111). Qui torna il “dare la vita per i propri amici” visto come “l’amore più grande”: l’ha fatto Gesù, e questo lo porta a dire che, se facciamo altrettanto, noi passiamo nei suoi confronti dallo stato di servi a quello di “amici”. Perché?

La risposta ci riporta al significato intensissimo che ha nella Bibbia il verbo “conoscere”: «vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi». In questa amicizia si realizza perfettamente quello cui si aspira in ogni forma di amore: il travasarsi l’uno nell’altro, non certo come forma di fusione che può portare uno a “possedere” e l’altro ad “annullarsi”, ma come comunione rispettosa delle differenze che fanno la complementarità e la vivacità della relazione.

Il discorso termina con un salutare richiamo al fatto che a prendere l’iniziativa resta pur sempre Dio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga». La figura ci riporta all’immagine della vite e dei tralci, che abbiamo commentato domenica scorsa.

E la conclusione, come è tipico dello stile di Giovanni, sia nel suo muoversi a cerchi concentrici, sia, come è qui, creando con la ripetizione una magnifica “inclusione” in cui tutto il discorso viene ripreso e riassunto così da avvolgerci come in un abbraccio: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Vorrei chiudere con due annotazioni.

La prima riguarda la “difficoltà” di vivere l’ideale impervio proposto da Gesù quando parla di “dare la vita”. San Bernardo si pone lo stesso problema nel primo sermone per il tempo del raccolto (Sermoni III/2), dove intende commentare il «tutto concorre al bene per quelli che, secondo il proposito, sono chiamati santi» (Rm 8,28 Vg), includendo nel “tutto” anche la colpa e il castigo!

Ma immagina subito una seria obiezione nei suoi uditori: «Come possiamo essere sicuri di essere santi?».

La risposta è duplice. Anzitutto: «Nella sua Scrittura Dio non ha lasciato nessun passo che porti alla disperazione, dato che in un altro luogo parla così: “perché, in virtù della pazienza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza” (Rm 15,4)». E continua: «In questa frase non ti spaventi il termine santità, perché li chiama santi non secondo il merito, ma secondo il proposito, non secondo il sentimento, ma secondo l’intenzione».

E dunque la “santità” non va intesa come un traguardo raggiunto, ma come un cammino.

La seconda annotazione, inevitabile, è sul “rimanere” che conclude le Rivelazioni di Giuliana di Norwich: «Vorresti conoscere il senso di questa rivelazione? Sappilo bene: amore è ciò che lui ha inteso. Chi te lo rivela? L’amore. Che cosa ti rivela? Amore. Perché te lo rivela? Per amore. Rimani salda nell’amore, e lo conoscerai sempre più a fondo. Ma in lui non conoscerai cose diverse da questa, per l’eternità» (c. 86, p. 329).

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