VI Pasqua: Un’esperienza chiamata “amore”

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Il tempo pasquale è quello che più di altri può essere detto il tempo della Chiesa, almeno nella sua formazione come conseguenza della Pasqua. Ogni domenica ci viene offerto uno spicchio di quella storia. Così abbiamo ascoltato, nella seconda, la descrizione della prima comunità; nella terza, una parte del primo discorso di Pietro; nella quarta, la continuazione e la conclusione del medesimo discorso; nella quinta, la soluzione data alla protesta della parte di comunità non ebraica per origine. Ora, nella sesta, siamo davanti a una Chiesa che deve affrontare un’ostilità aperta.

Per inquadrare la prima lettura bisogna cominciare da qui, dall’inizio cioè del cap. 8 di Atti, che suona così: «Saulo approvava l’uccisione di Stefano. In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme: tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria. […] quelli che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola» (At 8,1.4). È il tipico caso, si direbbe, in cui fare di una situazione un’occasione!

Su questo sfondo, «in quei giorni», si inquadra la missione del diacono Filippo (At 8,5-8.14-17). Secondo la promessa di Gesù udita domenica scorsa, Filippo non solo “predica il Cristo”, ma compie dei “segni” che, come quelli di Gesù, sono segni di liberazione e di guarigione. Verrebbe da dire, secondo un proverbio noto, che la miglior difesa è l’attacco. Credo che questa capacità eroica di non lasciarsi abbattere dalla difficoltà, di non ricadere nella paura dei giorni seguiti alla morte di Gesù, sia il frutto di quella potenza venuta dal cielo che si è materializzata nel soffio dello Spirito santo, che li ha travolti nel suo vento impetuoso e li ha infiammati di un fuoco sacro il giorno di Pentecoste. L’effetto dei segni compiuti da Filippo è «una grande gioia in quella città».

L’episodio richiama l’attenzione degli apostoli rimasti a Gerusalemme, i quali, nella persona di Pietro e Giovanni, si recano sul posto per constatare la cosa e decidere il da farsi. La soluzione è un gesto che servirà a introdurre nella prassi liturgica cristiana il sacramento della cresima: dopo il primo passo costituito dal battesimo «nel nome del Signore Gesù», si deve “confermare” l’adesione alla fede con l’infusione dello Spirito Santo.

Gli Atti degli Apostoli non sono soltanto il poema della Parola, ma pure quello dello Spirito Santo che la fa da protagonista da cima a fondo, visto che questa storia ha la sua chiara origine e la sua forza nella Pentecoste che ci apprestiamo a celebrare. Gli Atti sono un poema che si sviluppa sostenuto da una cellula musicale di grande rilievo, un tema molto amato da Luca: la “gioia della fede”, che niente pare riesca a scalfire.

Rendere ragione della “speranza”

Il brano di Pietro (1Pt 3,15-18) è un capolavoro di esortazione ed è esso stesso un chiaro frutto dello Spirito: ci viene suggerito un atteggiamento fatto di mitezza, dolcezza, rispetto nei confronti di chi ci ostacola, la migliore risposta ad un’aggressività ingiustificata, che è addirittura più utile del contrasto per testimoniare cosa cambia nel cuore di uno che crede in Gesù.

Si deve essere «sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi». Si stia bene attenti alle parole qui usate. Non ci è chiesto di difendere una tesi e, alla fine, neanche una verità, fosse pure un dogma, ma di rendere ragione di una “speranza”, che è ben diverso.

Una discussione su delle tesi può ben suscitare aggressività e conflitti: si pensi solo alle terribili guerre di religione che hanno insanguinato la storia della Chiesa, e lasciato “memorie” lunghe e difficili da guarire.

Ricordo ancora che, nella nuova mentalità ecumenica nata e cresciuta dopo il Vaticano II, il programma di base che tutti ci si imponeva, prima di quello delle commissioni create in vista del dibattito teologico, era quello incaricato della “riconciliazione delle memorie”.

Una “speranza” non può essere oggetto di discussione: si vede, si constata, se ne resta contagiati. Certo che ci sono delle “ragioni”, ma queste non dobbiamo metterle avanti noi in prima istanza, ci devono venire chieste da chi è impressionato da ciò che vede.

E la dolcezza e il rispetto sono già un annuncio che proclama a chiare lettere che la speranza che viviamo non nasce da noi, ma è il frutto della percezione che abbiamo di quanto siamo amati da Dio, una speranza, quindi, che ha un fondamento al di fuori di noi, un fondamento libero da venti e tempeste che potrebbero abbatterci qualora ci basassimo solo sulle nostre forze, quell’amore che si è manifestato in totale gratuità, quell’amore che non abbiamo meritato, ma che ci è donato, e al quale dobbiamo soltanto rispondere. In questa luce anche la sofferenza ingiusta non è più un problema, perché «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male», come è stato per Cristo.

Un’esperienza che si chiama “amore”

Il brano evangelico (Gv 14,15-21) ci riporta nell’atmosfera serena e familiare che impregna tutto il cosiddetto “discorso d’addio” nel quarto vangelo, pur se velato da ombre inquietanti.

Vi contribuisce anche – credo – lo stile dell’evangelista, con quei procedimenti a spirale già evidenti nell’attacco del Prologo, dove le cose sono dette, riprese e ripetute, generando come un abbraccio che ci avvolge e ci fa star bene. È il caso, qui, del tema dei “comandamenti” e del loro legame con l’amore, tema che apre e chiude il brano scelto per oggi, parole che riguardano ciò che dobbiamo fare noi, ma che racchiude al centro un “cuore” che ci rassicura e ci sostiene: la promessa del Paraclito, il consolatore e difensore, e quella di Gesù stesso, che non ci lascerà orfani.

Confesso di provare un certo imbarazzo a “commentare” Giovanni, perché mi sembra di distruggere il flusso della musica incomparabile che caratterizza il suo linguaggio. Sono testi da ripetere, semplicemente, come si ascolta ripetutamente un brano musicale che finisce per cantarci nella testa con il suo effetto esaltante e rassicurante. Oltretutto, aleggia sull’intero brano la presenza del Dio Trinità che sembra far di tutto per non lasciarci soli.

Già all’inizio la preoccupazione “materna” di Gesù, che sembra temere il pericolo che può correre il suo bambino una volta lasciato solo, assicura di chiedere al Padre che, come ha mandato lui, mandi ora un “altro” Paraclito (che bello ricordare che la parola indica alla lettera “chi è chiamato a stare accanto”!), che in certo senso prenda il suo posto dopo la sua sparizione fisica, e soprattutto “rimanga con noi per sempre”.

Un altro accento forte è sulla visibilità di queste presenze. Gesù lo dice dell’altro Paraclito, e poi lo ripete applicando la cosa a se stesso: voi mi vedrete! Ma da dove ha origine questa “visibilità”? C’è una sorta di catena: la visibilità è conoscenza, e la conoscenza non è primariamente un fatto intellettuale, ma un’esperienza, che si chiama “amore”. Credo si possa  riassumere il tutto nella celebre affermazione: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13,34-35). Dove i “comandamenti” diventano uno solo, e l’osservanza di questo, che è “nuovo” perché raccoglie tutti gli altri e ne dà il senso ultimo, è criterio per far conoscere Gesù, che vuol dire “fare esperienza” di Gesù, anzitutto in noi stessi, e mostrarlo agli altri attraverso di noi. È la migliore, la più forte, la più evidente maniera di “predicare”, cioè di “dire il Signore davanti (prae-) agli altri”, come significa letteralmente il verbo.

Certo, tutto questo è teoricamente molto bello, ma la vita può anche riservare brutte sorprese. Capita a tutti di “non vedere”, di “non conoscere”, e forse anche semplicemente di “non riuscire a fare memoria”. Allora il “mondo” entra in noi; noi, per così dire, “diventiamo mondo”, quel mondo che per Giovanni è insieme l’anti-Dio perché è «tutto in potere del Maligno» (1Gv 5,19), e però anche quel mondo che è stato ed è «tanto amato» da portare il Figlio a dare la sua vita per riscattarlo (Gv 3,16).

Tra due orizzonti

Meditare il vangelo è sempre un viaggiare, forse meglio un “oscillare”, tra due orizzonti: quello vasto delle prospettive dischiuse dalle parole di Gesù e quello angusto di ciò che a volte ci riserva la vita.

Ricordo che, nella mia lunga esperienza di guida di gruppi del vangelo, in parrocchia e altrove, la domanda che alla fine rintoccava inevitabilmente era: ma poi come si fa?

Proprio il termine Paraclito mi ha riportato alla mente uno dei sonetti “terribili” di G.M. Hopkins (1844-1889), il gesuita inglese che ebbe la sfortuna di passare gli ultimi cinque anni della breve vita a Dublino come insegnante di lettere classiche nell’Università Cattolica d’Irlanda, fondata nel 1854 dal card. Newman. Furono anni segnati da lunghi momenti di desolazione, testimoniati appunto da una serie di sonetti di cui riporto l’incipit di uno dei due, dal poeta stesso indicato come «qualcosa scritto nel sangue»: «Niente è peggio, no. Intonati oltre il tono del dolore / altri spasimi, istruiti da pre-spasimi, più crudi torceranno. / Dove, o Consolatore, dov’è il tuo conforto? / Maria, madre nostra, dov’è il tuo sollievo? // […] Oh, la mente, la mente ha montagne, scogliere di un abisso / spaventoso, a picco, mai sondato da uomo. Farci poco caso solo / può chi mai vi restò appeso…».

E però questo poeta, sempre in bilico tra esaltazione e depressione, amante preferenzialmente dei toni eroici, riesce a volte a trovare sentimenti di tenera compassione, come negli stupendi ritratti di un fabbro, un aratore, un manovale. E soprattutto fa impressione che, dopo la domanda aggressiva a un Paraclito che sembra scomparso del suo orizzonte, Hopkins trovi il modo di creare una bellissima preghiera finita in tanti libri di pietà del tempo, “Da te provengo, o Dio”, dove basta un solo verso per ritrovare, dopo una sorta di disperazione, una fiducia che evoca l’atmosfera e i toni di una tenerezza materna: «Cattivo son, ma sempre il tuo bambino»! Sono toni che si ritrovano a volte proprio nell’abisso della fragilità, come quando Gesù agonizzante arrivò a chiamare il Padre Abbà, papà (Mc 14,36)!

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