Ascensione: Guardare al cielo per capire la terra

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Ai tempi in cui in seminario e nelle cattedrali l’inizio delle messe nelle domeniche e nelle solennità era marcato dall’attacco in gregoriano dell’Introito, si capiva subito qual era il tono della festa. Mi torna d’istinto alla mente il Viri Galilaei, con quello scatto di note verso l’alto fatto apposta per accendere l’attenzione, e per dire che questa festa non ha lo scopo di lasciarci imbambolati a guardare nel nulla, perché quel Gesù che è venuto, verrà ancora, e, tra un evento e l’altro, continua a venire: la sua partenza da questa terra, infatti, non ha creato nessun vuoto, ma semmai lo ha riempito!

In effetti, che l’Ascensione non sia una fine ma un inizio, o forse, meglio, che sia una fine nel senso di meta raggiunta per Gesù (È compiuto, dirà sulla croce: Gv 19,30), che diventa per ciò stesso anche un inizio, quello di una “missione”, che ora continua come “testimonianza” nei suoi discepoli, è lo stesso Luca a dircelo con una scelta straordinariamente geniale. L’ultimo capitolo del suo vangelo, infatti, coincide con il primo degli Atti, che diventa dunque il “secondo racconto” di una medesima storia. Ma c’è di più.

Non allontanarsi da Gerusalemme

Nella prima lettura di oggi (At 1,1-11), però, ci vengono dette alcune cose che mirano a stabilire lo stretto rapporto tra i due “racconti”, per cui la memoria del primo racconto mira a stabilire il percorso del secondo.

L’oggetto della memoria è «tutto quello che Gesù fece e insegnò», dove la sequenza conta, eccome: perché prima vengono i “fatti”, e poi le “parole”, anche se le due maniere con cui Dio si rivela rimangono strettamente intrecciate, come scrive la Dei Verbum: «Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (n. 2).

Segue un tempo di convivenza indicato nel numero simbolico di quaranta giorni in cui Gesù si mostra vivo e torna a discorrere di ciò per cui è venuto: il “Regno di Dio”, immagino per ricordare e precisare in che cosa consista questo regno per il quale è morto e risorto, e che ora affida come eredità ai discepoli, e per il quale essi saranno «battezzati in Spirito Santo».

È interessante che questi discorsi vengano collocati intorno a una “mensa”, luogo privilegiato nei vangeli per tanti incontri, discorsi, parabole e anche rimproveri. La mensa non è un’aula scolastica, dove Gesù siederebbe da maestro come un professore, ma è un luogo di incontro, dove tutti sono sullo stesso piano, dove si celebra la fraternità attorno al cibo, visto e benedetto come dono di Dio per tutti, dove la “parola” diventa un ulteriore nutrimento. Non ci dice niente sul come dovremmo intendere le nostre eucaristie?

Poi c’è «l’ordine di non allontanarsi da Gerusalemme», che nella prospettiva di Luca è il centro di tutto: dall’inizio (l’annuncio a Zaccaria: 1,8-9), al compimento (la passione, morte e risurrezione), alla missione (24,47).

La menzione del Regno di Dio fa partire la domanda: è venuto il tempo di ricostituire un regno per Israele? Gesù non risponde direttamente, e “distrae” i discepoli da quello che forse avevano in testa con quella domanda, che cioè questo regno poteva essere preso sì come un «tesoro nascosto nel campo», o anche «una perla di grande valore» (Mt 13,44-46), ma forse si aspettavano che tesoro e perla glieli facesse avere per posta raccomandata in un pacchetto che bastava scartare!

Si sa quanti equivoci ha ingenerato l’immaginario di Re e regno già al tempo di Gesù, e non solo, purtroppo. È probabile che i discepoli, pur dopo il Calvario e quel che ne era seguito, non avessero ancora capito il Regnavit a ligno Deus! E per il vero non è mai facile capirlo. L’ansia su “tempi e momenti” è ricorrente, ma è un falso problema. Le scadenze le fissa Dio, non noi. A noi tocca, come ai primi discepoli, attendere la forza dall’alto per «essere testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino ai confini della terra».

Detto questo, Gesù è «sottratto ai loro occhi», ma non è il caso di perdere tempo ad aspettare che rispunti. “Verrà”, di certo, ma non ora. Questo è il tempo in cui egli “viene”, “può venire” in tutti i momenti, ma per vederlo occorre che, come dirà subito la seconda lettura, egli «illumini gli occhi del nostro cuore».

Le meraviglie di Dio

La Lettera agli Efesini è un capolavoro assoluto anche a livello letterario: amo ripetere che si tratta di un testo che canta e incanta. Oggi ci viene proposto Ef 1,17-23, un passo che, dopo tre versetti di una densissima prosa (si vedano nella Bibbia di Gerusalemme di quanto sono cariche di citazioni le sei righe che vanno da 17 a 19), esplode in una seconda parte del Cantico che ha già occupato i versetti 1,3-14.

Non è un ragionamento, non è una disquisizione dottrinale, è un “inno” che celebra le glorie, le promesse, le meraviglie di Dio, usando il linguaggio di quella che si chiama teologia dossologica, o celebrativa, che si esprime più volentieri nel canto. Di cosa parla infatti? Di speranza, di gloria, di una nostra eredità tra i santi, della forza e del vigore di Dio, di Cristo che siede al di sopra di tutte le potenze del cielo, al disopra di ogni nome, nel tempo presente e futuro, con tutte le cose messe sotto i suoi piedi. È una vera e propria intronizzazione, che termina con una glorificazione pure della Chiesa, che riceve questo Cristo come suo capo, e diventa così il suo corpo, «la pienezza di Colui che è il perfetto compimento di tutte le cose».

Questa idea per cui la Chiesa è il “compimento” del corpo di Cristo è stata magnificamente illustrata da Isacco della Stella, un “maestro” della grande generazione di primi cistercensi del XII secolo, nel suo magnifico Sermone 42 per la festa dell’Ascensione. Comincia con il chiedersi: «Quale sarebbe il vantaggio della discesa del Figlio di Dio se la sua ascensione come Figlio dell’uomo riguardasse solo lui?».

Proprio riflettendo sull’unità sostanziale tra capo e corpo, Isacco arriva a precisare il suo pensiero così: «Tutto è con Dio un solo Dio, ma il Figlio di Dio è con Dio per l’unità della natura, e il Figlio dell’uomo è con Dio per l’unità della persona con il Figlio di Dio, e il suo corpo è con Dio per l’unità sacramentale con il Figlio dell’uomo. Il Figlio dell’uomo è dunque disceso dal cielo solo, e questo in riferimento alla divinità, ma non tutto intero, e questo in ragione della sua umanità, mentre ascenderà solo e tutto intero in ragione dell’unità che lega il capo al corpo» (Si vedano Isacco della Stella, I sermoni, Paoline 2006, p. 327 e 330).

Isacco della Stella è stato giustamente indicato come una fonte importante della teologia del Corpo mistico. Segnalo che i nn. 11-18 di questo Sermone 42 appaiono, con non poche omissioni, nell’Ufficio delle Letture del venerdì della 5a settimana di Pasqua.

Una missione gigantesca

E siamo al vangelo (Mt 28,16-20), che dice un altro modo di vedere il senso di questo evento, un modo presto detto, senza nessuna scenografia: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». È difficile dire con maggiore chiarezza che l’Ascensione non è la fine di una presenza, ma la dilatazione immensa della presenza di Cristo, che diventa così Signore del tempo e dello spazio, in conseguenza di ciò che viene detto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra». Il «Dio con noi» annunciato a Giuseppe (1,23), riaffermato presente «dove due o tre sono riuniti nel suo nome» (18,20), adesso ritorna come un’assicurazione che rompe ogni limite.

Matteo, a differenza di Luca, fa ripartire la storia là dove era iniziata, dalla Galilea delle genti, da uno dei tanti “monti” del vangelo, tra i quali, per quanto riguarda Matteo, sono almeno da nominare quello delle Beatitudini (5,1), quello dove saliva, solo, a pregare (14,23), e quello della Trasfigurazione (17,1).

In questa solenne conclusione del primo vangelo, appare però un elemento che potrebbe disturbare, se non addirittura inquietare. È una frase enigmatica: «Quando lo videro si prostrarono. Essi però dubitarono»! Detta così, sembra una contraddizione, perché come si fa a mettere d’accordo la prostrazione con il dubbio? E però evidentemente Matteo non poteva dimenticare quello che gli altri tre evangelisti raccontano senza problemi (cf. Mc 16,11.14; Lc 24,11-41; Gv 20, 24-29).

Ma forse l’accostamento ci aiuta a ricordare che il dubbio non sparisce mai dall’orizzonte della fede, e che può essere addirittura un indicatore provvidenziale, perché capita non di rado nella vita che, alla luce di quanto ci accade, la fede rischi di appannarsi e vada di continuo riconquistata.

Contrariamente a quanto avviene di solito in Matteo, questa volta è Gesù che «si avvicina a loro»: è un gesto che ispira fiducia, ed è forse ciò che giustifica quanto segue. Perché è a persone che insieme si prostrano e dubitano che il Risorto affida una missione gigantesca: «fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro tutto ciò che vi ho comandato».

L’aspetto dell’insegnamento è dominante, già del resto preparato dalla ricchezza di materiale raggruppato da Matteo nei classici cinque “discorsi” che punteggiano il suo vangelo, che deriva, sembra, da una “scuola di catechisti” che era nata ad Antiochia, dove il vangelo sarebbe stato composto. È il vangelo che san Domenico di Guzman teneva sempre con sé, segno indubbio del motivo che lo portò a fondare l’ordine dei “predicatori”.

Ma la parola, per quanto importante, non basta. In mezzo ci sta il sacramento, quel battesimo nel nome della Trinità che significa una piena immersione nel circolo virtuoso delle relazioni trinitarie. Questo è il frutto dell’Ascensione, che dopo aver portato il cielo in terra, ora porta la terra in cielo, perché, come dice un’antica colletta, ripresa alla lettera da un sermone di Leone Magno: «Fa’, o Dio onnipotente, che esultiamo di gioia santa e ci rallegriamo in un devoto rendimento di grazie, perché l’ascensione di Cristo tuo Figlio è anche la nostra elevazione, e là dove è arrivata la gloria del capo, è pure chiamata la speranza del corpo».

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