Assunzione: Grandi cose compie in noi il Signore della vita

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Maria è ricordata per l’ultima volta nel Nuovo Testamento all’inizio del libro degli Atti: in preghiera, circondata dagli apostoli e dalla prima comunità cristiana (At 1,14). Poi questa donna dolce e riservata esce di scena, silenziosa e discreta com’era entrata e di lei non sappiamo più nulla; nei testi canonici non viene riferito dove abbia trascorso gli ultimi anni della sua vita e come abbia lasciato questa terra.

È a partire dal VI secolo che si diffondono fra i cristiani numerose versioni di un unico tema, la Dormizione della Madonna.

Questi testi apocrifi tramandano una serie di notizie sugli ultimi giorni di Maria e sulla sua morte. Si tratta di racconti popolari, in gran parte romanzati, il cui nucleo originario però, risalente al II secolo e composto nell’ambito della Chiesa Madre di Gerusalemme, contiene anche qualche informazione attendibile.

Dopo la Pasqua, Maria, con ogni probabilità, visse a Gerusalemme, sul monte Sion, forse nella stessa casa in cui suo figlio aveva celebrato con gli apostoli l’ultima cena.

Giunto per lei il momento di lasciare questo mondo – e qui inizia l’aspetto leggendario dei racconti apocrifi – le apparve un messaggero celeste che le annunciò il suo prossimo transito. Dalle terre più remote, gli apostoli, prodigiosamente trasportati su nuvole, giunsero al suo capezzale, conversarono teneramente con lei, rimanendole accanto fino al momento in cui Gesù con una schiera di angeli venne a prendere la sua anima.

Accompagnarono poi il suo corpo in corteo fino al torrente Cedron e lì lo deposero in un sepolcro scavato nella roccia. Questo è probabilmente un dettaglio storico. Fin dal I secolo, infatti, la sua tomba, nei pressi della grotta del Getsemani, è stata ininterrottamente venerata. Nel IV secolo fu isolata dalle altre e racchiusa in una chiesa.

Tre giorni dopo la sua sepoltura – e qui riprendono le notizie leggendarie – ecco comparire di nuovo Gesù per prendere anche il suo corpo che gli apostoli avevano continuato a vegliare. Diede ordine agli angeli di portarlo sulle nubi e agli apostoli di accompagnarlo. Le nubi si diressero verso oriente, alla volta del paradiso e, giunte nel regno della luce, fra i canti degli angeli e i profumi più deliziosi, lo deposero accanto all’albero della vita.

Questi dettagli romanzeschi non hanno evidentemente alcun valore storico, testimoniano però, attraverso immagini e simboli, l’incipiente devozione del popolo cristiano per la madre del Signore.

La riflessione dei credenti sulla sorte di Maria dopo la morte ha continuato a svilupparsi lungo i secoli, ha portato alla fede nella sua assunzione e, il 1° novembre 1950, alla definizione pontificia: “L’Immacolata Concezione madre di Dio sempre vergine, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo”.

Che significa questo dogma? Forse che il corpo di Maria non ha subito la corruzione o che solo lei e Gesù si troverebbero in paradiso in carne ed ossa, mentre gli altri defunti sarebbero in cielo solo con la loro anima, in attesa del ricongiungimento con i loro corpi?

Questa concezione ingenua e grossolana dell’ascensione di Gesù e dell’assunzione di Maria – oltre ad essere un retaggio della filosofia dualistica greca e a contraddire la Bibbia che considera l’uomo un’unità inscindibile – è positivamente esclusa da Paolo che, scrivendo ai corinti, chiarisce che non è il corpo materiale che risorge, ma “un corpo spirituale” (1 Cor 15,44).

Il testo della definizione pontificia non parla di “assunta in cielo” – come se ci fosse stato uno spostamento nello spazio o un “rapimento” del suo corpo dalla tomba verso la dimora di Dio – ma dice: “assunta alla gloria celeste”.

La “gloria celeste” non è un luogo, ma una condizione nuova. Maria non è andata in un altro posto, portando con sé le fragili spoglie che sono destinate a tornare polvere, non ha abbandonato la comunità dei discepoli che continuano a camminare pellegrini in questo mondo, ha mutato il modo di essere con loro, come ha fatto suo figlio nel giorno di Pasqua.

Maria – la “serva del Signore” – è presentata oggi a tutti i credenti non come una privilegiata, ma come il modello più eccelso, come il segno del destino che attende ogni uomo che crede “nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45).

Nel mondo si confrontano, in un drammatico duello, le forze della vita e della morte. Dolori, malattie, acciacchi della vecchiaia sono le schermaglie che annunciano l’ultimo assalto dello spaventoso drago. Alla fine la lotta diventa impari e la morte agguanta sempre la sua preda.

Dio “amante della vita” assiste impassibile a questa disfatta delle creature che hanno impressa in volto la sua immagine?

La risposta a questo interrogativo ci viene data oggi in Maria. In lei siamo invitati a contemplare il trionfo del Dio della vita.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Nessun uomo tu abbandoni nel sepolcro, o Dio amante della vita.

Prima lettura (Ap 11,19; 12,1-6.10)

19 Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca dell’alleanza. Ne seguirono folgori, voci, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine.
12,1 Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. 2 Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
3 Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; 4 la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra.
Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato.
5 Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono.
6 La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio.
10 Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:
“Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo”.

La scena che si spalanca davanti agli occhi del veggente dell’Apocalisse è grandiosa e oggi siamo invitati a contemplarla e a interpretarla.

Nel cielo, cioè, nel mondo di Dio compaiono due segni.

Il primo è qualificato come “grande”: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. È incinta, grida per le doglie del parto e dà alla luce un figlio.

Il secondo segno è un enorme drago rosso, un serpente gigantesco arrossato di sangue, dotato di forza spaventosa – simboleggiata da sette teste, dieci corna e sette diademi.

Con la coda trascina giù dal cielo un terzo delle stelle e le precipita sulla terra. Poi si pone davanti alla donna che sta partorendo e tenta di divorargli il figlio appena nato. Ha fretta perché sa che questo bambino “è destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro”.

Dio interviene, prende il figlio e lo porta verso il cielo, mentre la donna cerca rifugio nel deserto ove rimane per tre anni e mezzo, alimentata dal Signore.

Scoppia allora una battaglia titanica. In cielo si affrontano da una parte Michele con i suoi angeli, dall’altra il grande drago con i suoi angeli. Il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo, satana, seduttore di tutta la terra, è precipitato sulla terra e con lui sono precipitati anche i suoi angeli (vv. 7-9).

La scena di questo combattimento non è riportata dalla nostra lettura che conclude con il canto di vittoria, intonato in cielo da una voce misteriosa, al termine del terrificante scontro: “Ora si è compiuta la salvezza e il regno del nostro Dio”.

Dopo questo sguardo d’insieme siamo in grado fare un’analisi più dettagliata del brano.

Questa pagina è stata composta verso la fine del I secolo, in un momento difficile per le comunità cristiane tentate di apostasia a causa dei soprusi, delle angherie e della persecuzione cui erano sottoposte. L’autore si rivolge a loro in modo volutamente criptato per non incorrere nelle rappresaglie del potere. Ricorre a immagini e simboli che i suoi lettori – che conoscono l’Antico Testamento – sanno immediatamente decodificare.

Ci chiediamo anzitutto chi è il figlio maschio che viene dato alla luce.

Il destino che lo attende e che è riferito con la citazione del Salmo 2,9 non lascia dubbi sulla sua identità. In tutto il Nuovo Testamento colui che è chiamato a pascere tutte le genti con verga di ferro è sempre Cristo.

Se è lui il bambino che sta per nascere, allora la donna non può che essere Maria.

È questa l’interpretazione più semplice e immediata e difatti la Madonna è spesso raffigurata luminosa come il sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo.

In realtà le comunità cristiane – che decifravano il simbolismo del testo alla luce dell’Antico Testamento – non pensavano a Maria, ma al popolo di Dio che nella Bibbia è personificato dalla donna, sposa feconda del Signore, madre del messia.

Qui la donna raffigura la comunità cristiana, incarna il resto fedele di Israele.

È rivestita di sole, astro che, per il suo fulgore e la sua magnificenza, era ritenuto il simbolo di tutto ciò che è bello (Ct 6,10) e dello stesso Dio (Sl 84,12).

La comunità cristiana, amata dal Signore e colmata dei suoi doni più preziosi, è splendida perché in lei brilla una luce divina.

La luna era, presso i popoli dell’antico Medio Oriente, il dio che, per le sue fasi di crescita e calo, era in rapporto con il mutare del tempo.

Nel nostro testo questo dio‑luna è schiacciato dalla comunità dei credenti. Questa comunità non è soggetta ai condizionamenti del tempo, non è in balia delle vicissitudini di questo mondo transitorio perché è già nel mondo dell’Eterno.

La corona sul capo indica il trionfo. Nella prospettiva di Dio, la chiesa ha già ottenuto la vittoria definitiva sul male. Le dodici stelle mettono in risalto la sua identità: è il vero Israele che porta a compimento le promesse fatte ad Abramo.

Anche il secondo segno compare in cielo, cioè, nel mondo di Dio.

È un enorme drago rosso che si oppone alla nascita del bimbo.

È il simbolo di tutte le forze ostili a Dio che si incarnano nei centri di potere.

Hanno tre caratteristiche: sono perfetti nel progettare il male (hanno sette teste), sono mostruosi quanto a forza, ma non invincibili (hanno dieci corna), trionfano, ricevono da tutti onori e riconoscimenti (hanno sette diademi).

Queste strutture diaboliche si oppongono al bimbo fin dal giorno della sua nascita.

Va chiarito però che la nascita di Cristo cui fa riferimento il veggente dell’Apocalisse non è il parto di Maria a Betlemme, ma la Pasqua. È quello il momento in cui Cristo, nascendo dal sepolcro, è apparso al mondo come il messia di Dio.

Da subito le potenze del male si sono scagliate contro di lui, ma egli è irraggiungibile: il Padre lo ha accolto nella sua gloria.

Il drago ha la testa schiacciata – colpito a morte dalla forza divina del Risorto (Michele non è altri che lo stesso Dio) –, è definitivamente sconfitto, ma ancora si dibatte e con la coda riesce a trascinare sulla terra un terzo delle stelle del cielo.

Queste non rappresentano gli angeli, ma i cristiani dell’Asia minore i quali, sconvolti e disorientati, non resistono alle seduzioni del maligno, rinnegano la loro fede e abbandonano in gran numero le loro comunità.

La donna che fugge e cerca rifugio nel deserto è il popolo di Dio che non ha ceduto alle lusinghe e alla forza del drago.

Il Signore la mette alla prova, come ha fatto con Israele, la colloca nella condizione in cui può mostrare a Dio l’autenticità del suo amore e non l’abbandona, la assiste con la sua manna: il pane della Parola e dell’Eucaristia.

Milleduecentosessanta giorni corrispondono a tre anni e mezzo, il tempo che – secondo il profeta Daniele (Dn 7,25) – indica la durata di una persecuzione molto dolorosa, ma breve.

A questo punto una conclusione si impone: se il bambino è Cristo e la donna non è Maria, ma la comunità dei credenti, allora il figlio‑Cristo nasce dalla chiesa.

È proprio così, ed è questo il messaggio commovente che l’autore vuole far giungere ai cristiani scoraggiati delle sue comunità. Li invita a prendere coscienza della loro sublime identità. Giorno dopo giorno, con fatica, dolore e in mezzo a prove di ogni genere, stanno dando alla luce l’uomo nuovo, Cristo, nella storia del mondo.

Paolo era consapevole di questa missione materna quando scriveva ai galati: “Figlioli miei per voi io soffro ripetutamente le doglie del parto, finché Cristo prenda consistenza in voi” (Gal 4,19).

Le violenze, le menzogne, le crudeltà fanno soffrire, ma non possono spaventare il credente perché non sono presagi di morte, ma ineluttabili doglie di un difficile parto.

Se la donna non è Maria, ma la comunità, come mai la liturgia ci propone questo brano nella festa dell’Assunta?

Tutti i testi – sia dell’Antico che del Nuovo Testamento – in cui si parla del popolo fedele a Dio possono essere giustamente riferiti a Maria perché è da lei che è nato il Messia, è lei la donna-Israele.

L’invito che oggi ci viene rivolto è di guardare a lei, al modo come ha portato a compimento la sua missione di madre. Rispecchiandosi in lei la chiesa scopre la propria identità di generatrice del Cristo totale, di Colui che ricapitolerà in sé tutto il creato

Il canto finale “Ora si è compiuta la salvezza” è un invito alla speranza. Malgrado lo strapotere che ancora ostentano le forze del male, il credente sa che il drago è già stato sconfitto dalla “potenza di Cristo”; i suoi colpi di coda saranno ancora terrificanti, ma la testa è stata schiacciata – come Dio aveva predetto, fin dall’inizio del mondo (Gn 3,15).

Seconda lettura (1 Cor 15,20-26)

20 Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti.
21 Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; 22 e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
23 Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; 24 poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza.
25 Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi.
26 L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte.

I cristiani di Corinto erano fermamente convinti che Cristo fosse risorto. Tuttavia, alcuni di loro incontravano serie difficoltà ad ammettere la risurrezione di tutti i defunti. Quello di Gesù – ritenevano – costituiva un caso particolare ed esclusivo, era una specie di eccezione al destino di morte che accomuna tutti gli uomini.

È a queste persone dubbiose che si rivolge Paolo nell’ultima parte della sua lettera: “Se non c’è risurrezione dei morti – dice – neanche Cristo è risorto” (1 Cor 15,13).

Il suo ragionamento è semplice: se Cristo non è riuscito a sconfiggere completamente il più terribile dei suoi avversari, allora non è lui il Signore dell’universo, ma il suo nemico, la morte. È lei la dominatrice.

A questo punto inizia la nostra lettura con un’affermazione solenne: la risurrezione di Cristo non è unica, ma è la primizia cui segue l’abbondante raccolto, rappresentato dall’intera umanità.

Cristo non ha eliminato la morte biologica: l’organismo dell’uomo, come quello di ogni essere vivente, si logora e finisce per consumarsi. Ha vinto la morte privandola del suo pungiglione letale (1 Cor 15,55), trasformandola in una nascita.

È questa la vittoria che cantiamo nella notte di Pasqua.

Oggi celebriamo la liberazione dalla morte operata da Dio in Maria. Facciamo festa perché in lei contempliamo l’alba della nuova umanità, perché ciò che Dio ha realizzato in lei è il destino che attende tutti noi.

Vangelo (Lc 1,39-56)

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”.
46 Allora Maria disse:
“L’anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,  per sempre”.
56 Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Di fronte all’evidenza della morte e della corruzione di un corpo nel sepolcro, ci vuole molto coraggio per credere che il Signore è il Dio della vita e per sperare in una vita oltre la vita.

Nella festa di oggi ci viene additata come modello colei che si è sempre fidata di Dio.

Elisabetta la proclama beata perché “ha creduto nell’adem­pimento delle parole del Signore” (v. 45). A lei Maria risponde elevando un inno di lode al Signore.

Ogni sera la comunità cristiana lo canta alla conclusione dei vespri, per mantenere vivo in tutti i fedeli, forse turbati dalle vicissitudini della giornata, lo sguardo di fede con cui Maria ha saputo leggere gli eventi della sua vita e la storia del suo popolo.

Inizia con un grido di esultanza: “L’anima mia magnifica il Signore” (v. 47).

Letteralmente l’espressione suona: “Io rendo grande il Signore”.

Il nostro cuore tende a farcelo immaginare piccolo, lo modella a misura delle nostre meschinità e grettezze: un Dio generoso con i buoni e irato, giustiziere implacabile con chi trasgredisce i suoi ordini, proprio come siamo noi.

Maria ha uno sguardo puro, ha fatto l’esperienza dell’immensità dell’amore di Dio, ha capito che egli fa spuntare il suo sole sui malvagi e sui buoni, per questo prova il bisogno incontenibile di proclamare la sua grandezza.

Chi assimila lo sguardo di Maria e scopre che il Signore ama l’uomo senza condizioni esulta – come lei – in Dio suo salvatore. È lieto perché la salvezza non dipende dalle sue capacità e opere buone, ma è ancorata alla indefettibile fedeltà di Dio.

Questa certezza pone fine alle ansie che sono risvegliate dalla volontà di costruirsi una propria perfezione ed è sorgente di serenità interiore, di pace, di gioia sconfinata.

Dopo aver magnificato il Signore, Maria chiarisce il motivo per cui innalza a lui un inno di lode: perché egli ha guardato all’umile condizione della sua serva (v. 48).

Lo sguardo di Dio non è attirato dalle qualità morali e dalle virtù dell’uomo, ma dalla sua povertà, dal suo bisogno di essere arricchito dei doni del cielo.

Maria sa di essere una donna stupenda, ma non ha motivo di vanto, è cosciente di non avere alcun merito e riconosce che tutto in lei è dono gratuito del Signore.

All’angelo dell’annunciazione aveva detto: Eccomi, sono la serva del Signore; nel suo canto di lode ritorna sulle sue labbra l’autopresentazione: sono la serva.

È il titolo d’onore che la Bibbia riserva a coloro che hanno posto la loro vita a disposizione di Dio.

Le generazioni la proclameranno beata perché, guardando a lei, coloro che sono disprezzati per la loro condizione penosa, fisica o morale, cesseranno di sentirsi degli sconfitti e dei rifiutati da Dio. Si renderanno conto di essere nella condizione ideale per divenire i destinatari delle tenerezze del Signore.

Grandi cose ha compiuto in me il Potente (v. 49). Grandi cose è l’espressione con cui la Bibbia presenta gli straordinari interventi di Dio: “Egli fa cose grandi e incomprensibili,  meraviglie senza numero” (Gb 5,9).

Egli non è l’onnipotente che può fare ciò che vuole, è il Potente che, rispettoso delle leggi del creato e della libertà dell’uomo, riesce sempre a compiere prodigi d’amore inattesi e sorprendenti.

Inizia ora la seconda parte del canto (vv. 50-55) in cui Maria passa in rassegna le meravigliose opere d’amore del Signore.

Chiarisce anzitutto come mai egli è così attento e premuroso. Egli distribuisce generosamente i suoi benefici perché è misericordioso: La sua misericordia si estende di generazione su quelli che lo temono (v. 50).

Misericordioso per noi è colui che si commuove di fronte alle disgrazie, al dolore, alla condizione del povero e di chi è colpito da sventure. Eppure, questo sentimento sarebbe vano se non muovesse a intervenire in favore di chi è bisognoso di aiuto.

Nella Bibbia Dio si  presenta come “misericordioso e clemente” (Es 34,6) e i termini ebraici che vengono impiegati non esprimono solo un’emozione intensa ed profonda – quella che la mamma prova per il figlio che porta in grembo – ma anche l’azione che questo sentimento determina, l’impulso irresistibile a soccorrere la persona amata.

Lungo i secoli coloro che temono il Signore – cioè coloro che si sono fidati di lui e della sua parola – hanno sempre sperimentato la sua tenerezza e le sue premure.

Il canto prosegue elencando sette interventi salvifici di Dio.

Ha mostrato la forza del suo braccio (v. 51).

La Bibbia accenna spesso al braccio di Dio, simbolo della forza con cui egli interviene per liberare oppressi, proteggere deboli, tutelare chi subisce soprusi.

Maria conosce la storia del suo popolo e ricorda che il Signore è andato in Egitto a scegliersi Israele “con prove, segni, prodigi e lotte, con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34).

Non viene nemmeno sfiorata dal dubbio che il male possa avere la meglio sul bene, la menzogna sulla verità, la prevaricazione sulla rettitudine, la prepotenza sulla mitezza. Sa che il braccio del Signore tiene saldamente in mano i destini del mondo e la vita di ogni uomo.

Ha disperso gli arroganti (v. 51). Con questo termine la Bibbia indica gli insolenti, coloro che si disinteressano di Dio, parlano con alterigia e guardano tutti dall’alto in basso.

Il Signore – promette Maria – li disperde.

Non è l’invito ad attendere pazientemente che Dio intervenga per abbattere e ridurre a oggetto di scherno i prevaricatori. Il Signore non trionfa umiliando chi si fa beffe di lui, ma rivolge la sua parola di padre e converte con il suo amore. È il mondo nuovo che Maria annuncia, il mondo dal quale sono dispersi – sono fatti scomparire – altezzosi e prepotenti. Tutti sono mutati in umili servi dei loro fratelli.

Ha rovesciato i potenti dai troni e ha elevato i miseri (v. 52).

La storia insegna che i forti hanno sempre dominato e i deboli sono stati soggiogati. Maria lo sa. Appartiene a un popolo tiranneggiato dai grandi imperi. Ora – assicura – Dio si è schierato dalla parte dei poveri e ha messo in atto una rivoluzione, ha ribaltato i rapporti di forza: i potenti sono rovesciati e i miseri elevati.

È forse giunto il momento della vendetta? Con l’aiuto di Dio i deboli alzeranno la testa, conquisteranno il potere e assoggetteranno coloro che li hanno vessati?

Se fosse questo il risultato dell’intervento divino, non assisteremmo ad un evento nuovo, ma solo alla sostituzione di una classe di sfruttatori con un altra.

Dio non entra nella storia per recitare la parte del protagonista in quel copione dissennato che, da sempre, gli uomini hanno messo in scena. Non interviene con forza per cambiare gli attori, ma per introdurre un copione completamente diverso.

È finita la commedia in cui ci si accanisce per salire in alto e spadroneggiare. Ora si compete per scendere in basso, per divenire servi per amore, per farsi pane per chi ha fame. Grande e degno di onore non è più chi è assiso in trono, ma chi sta in basso e risponde con gioia alle richieste di chi ha bisogno di lui.

Questa è la vera novità: un cuore nuovo donato a tutti, un cuore come quello di Cristo, un cuore di servi.

Un’umanità così non la vedremo mai?

Maria è così certa che Dio la costruirà che parla al passato – ha rovesciato, ha elevato – come se questa prodigiosa trasformazione del mondo fosse già realizzata.

Lei ricorda, ha tenuto ben in mente la parola del messaggero celeste: “Nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37).

Ha colmato di beni gli affamati e ha mandato vuoti i ricchi (v. 53).

“Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” (Sl 24, 1).

Se tutto appartiene a Dio, gli uomini non sono padroni di nulla, sono ospiti, commensali alla mensa che il Padre munifico ha imbandito per i suoi figli. Egli largisce i suoi doni affinché tutti ne siano egualmente partecipi; chi li accumula per sé, chi rifiuta di condividerli si appropria di beni non suoi, commette un furto.

La cupidigia – radice di tutti i mali (1 Tm 6,10) – induce ad accaparrarsene più del necessario e ad arricchire. Da questa bramosia insaziabile, derivano ingiustizie, ineguaglianze, discriminazioni e un mondo in contrasto con i disegni di Dio.

Maria vede sorgere un mondo nuovo, un mondo in cui i commensali condividono ciò che il Padre mette gratuitamente a loro disposizione, un mondo dove tutti sono sazi di pane, di libertà e di amore.

Ha un messaggio di speranza anche per i ricchi: Dio li rimanda vuoti.

Non è una minaccia di castigo, è un annuncio di salvezza.

I beni che hanno accumulato – spesso anche con estorsioni e rapine – sono stati per loro fonte di piaceri, ma anche di affanni e inquietudini; sono divenuti una zavorra ingombrante, un fardello che ha appesantito i loro cuori, rendendoli insensibili ai bisogni dei fratelli.

Dio li rimanda vuoti, li alleggerisce dal peso delle ricchezze, ammonendoli che “nulla abbiamo portato in questo mondo e nulla possiamo portare via” (1 Tm 6,7), facendo loro comprendere che “anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15) e convincendoli che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).

Il canto si chiude con una riflessione sulla fedeltà di Dio alle promesse fatte ai patriarchi e a Davide (vv. 54-55).

Israele è un popolo che ricorda. Il Signore lo invita spesso a non dimenticare le meraviglie da lui operate e le promesse fatte agli antichi padri (Dt 4,9; 7,18).

Anche Maria – figlia di questo popolo – ricorda ed è certa che Dio non dimentica il giuramento fatto ad Abramo e alla sua discendenza.

Il figlio che porta in grembo è la risposta fedele di Dio agli impegni che ha preso con il suo popolo.

Non solo ora, ma per sempre, per l’eternità – assicura Maria – Dio rimarrà fedele. Egli non verrà mai meno al suo patto d’amore con l’uomo e, di certo, non lo abbandonerà neppure nella morte.

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