Il cuore di Gesù e i nostri cuori

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Il culto al S. Cuore ha origini molto antiche, ma si è diffuso nella chiesa a partire soprattutto dal secolo XVII per opera di una mistica francese, S. Margherita Maria Alacoque.

Nella sua autobiografia, questa suora visitandina racconta le rivelazioni avute e riferisce le famose dodici promesse del S. Cuore dalle quali è derivata la pia pratica dei primi nove venerdì del mese. È su ispirazione di questa santa che è stata istituita la festa del Sacro Cuore.

Come tutte le forme di pietà popolare, anche questa, dopo il Concilio Vaticano II, è entrata in crisi. La stessa immagine tradizionale del S. Cuore – quella che lo ritraeva “su di un trono di fiamme, raggiante come sole, con la piaga adorabile, circondato di spine e sormontato da una croce”, conforme alla descrizione fatta da Santa Margherita Maria alla quale era apparso – anche questa immagine, prima esposta in ogni casa, è stata gradualmente sostituita da altre che esprimevano una nuova concezione teologica e una nuova sensibilità spirituale.

Nel post‑concilio molte pratiche devozionali sono state abbandonate. Quella al S. Cuore invece ha ricevuto un impulso decisivo proprio dallo spirito conciliare che ha indotto a cercare il fondamento solido di ogni forma di spiritualità non in rivelazioni private, alle quali – giustamente – si è andati accordando un valore sempre più relativo, ma nella Parola di Dio.

Le esperienze mistiche di S. Margherita Maria hanno avuto, per tre secoli, una grande importanza e ripercussioni significative sulla vita della chiesa: hanno alimentato la spiritualità del Dio‑amore e favorito una vita morale virtuosa e impegnata. Tuttavia, sulle rivelazioni riferite da questa santa i teologi avanzano riserve e oggi non costituiscono più il fondamento della devozione al S. Cuore che invece è solidamente radicata nella parola di Dio.

Lo studio della Bibbia ha condotto a scoperte interessanti.

Ci si è subito resi conto che la devozione al S. Cuore era diversa dalle altre. Non metteva in risalto uno dei tanti aspetti del messaggio evangelico, ma coglieva il centro della rivelazione cristiana: il cuore di Dio, la sua passione d’amore per l’uomo resasi visibile in Cristo.

Nella Bibbia il cuore non è inteso solo come sede della vita fisica e dei sentimenti, ma designa tutto l’uomo.

È considerato anzitutto come sede dell’intelligenza. A noi può risultare strano, ma i semiti pensano e decidono con il cuore: “Dio ha dato agli uomini un cuore per pensare” – afferma il Siracide (Sir 17,6). Al cuore l’israelita riferisce persino alcune percezioni dei sensi. Il Siracide, al termine di una lunga vita durante la quale ha accumulato le esperienze più disparate e ha acquisito molta saggezza, afferma: Il mio cuore ha visto molto (Sir 1,16)

In questo contesto culturale, l’immagine del cuore è stata applicata anche a Dio. La Bibbia infatti dice che Dio ha un cuore che pensa, decide, ama e può anche essere colmo di amarezza.

È proprio questo il sentimento che è richiamato quando, all’inizio del libro della Genesi, compare per la prima volta la parola cuore: “La malvagità degli uomini era grande sulla terra e ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male”.

Cosa prova Dio di fronte a tanta depravazione morale? “Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gn 6,5-6).

Egli non è impassibile – come pensavano i filosofi dell’antichità – non è indifferente a ciò che accade ai suoi figli. Gioisce quando li vede felici e soffre quando essi si allontanano da lui, perché li ama perdutamente. Anche se provocato dalle loro infedeltà, non reagisce mai con aggressività e violenza.

I disegni del Signore, i pensieri del suo cuore sono sempre e solo progetti di salvezza, per questo – commenta il salmista – è “beata la nazione il cui Dio è il Signore” (Sl 33,11-12).

Fino alla venuta di Cristo conoscevamo il cuore di Dio “solo per sentito dire” (Gb 42,5). In Gesù, i nostri occhi lo hanno contemplato.

“Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45), ha assicurato Gesù che, durante l’ultima cena, nel discorso di addio, ha richiamato ai discepoli la stessa verità: “Se conoscete me, conoscerete anche il Padre… Chi ha visto me ha visto il Padre”  (Gv 14,7-9).

È dunque contemplando il suo cuore che noi possiamo giungere a conoscere il cuore del Padre.

Quando parliamo del cuore di Gesù, facciamo riferimento a tutta la sua persona, ma anche alle sue emozioni più intime e il vangelo riferisce spesso ciò che egli prova di fronte ai bisogni dell’uomo.

Il suo cuore è sensibile al grido dell’emarginato, sente il grido del lebbroso che, contravvenendo alle prescrizioni della legge, gli si avvicina e, in ginocchio, lo supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Gesù – nota l’evangelista – si emoziona fin nel più profondo delle sue viscere. Ascolta il suo cuore, non le disposizioni dei rabbini che prescrivono l’emarginazione. Stende la mano, lo tocca e lo guarisce (Mc 1,40-42).

Il cuore di Gesù si commuove quando incontra il dolore. Condivide il turbamento che ogni uomo prova di fronte alla morte, sente compassione della vedova che ha perso il suo unico figlio ed è rimasta sola. A Nain, quando vede avanzare il corteo funebre si fa avanti, si avvicina alla madre, le dice: “Smetti di piangere!” e le ridona il figlio.

Nessuno gli ha chiesto di intervenire, nessuno lo ha pregato di compiere il miracolo. È il suo cuore che lo ha spinto ad avvicinarsi a chi era nel dolore.

Il vangelo ci riferisce anche una preghiera al cuore di Gesù.

Un padre ha un figlio con gravi problemi fisici e psichici: si irrigidisce, schiuma, si butta nel fuoco e nell’acqua. Con l’ultimo barlume di speranza che gli è rimasta va da Gesù, e, facendo appello ai sentimenti del suo cuore, gli rivolge una preghiera, semplice, ma stupenda: “Se tu puoi fare qualcosa, lasciati commuovere e aiutaci” (Mc 9,22).

“Lasciati commuovere!”. Non è l’espressione di un dubbio sui suoi sentimenti, ma è un richiamo a una consolante verità: egli è sempre in ascolto di chi soffre.

In Gesù abbiamo visto Dio piangere per la morte dell’amico e per il popolo incapace di riconoscere colui che gli offriva la salvezza, abbiamo visto Dio emozionarsi per le lacrime di una madre, commuoversi di fronte al malato, all’emarginato, a chi ha fame.

Il Dio che ci chiede fiducia non è lontano e insensibile, è colui al quale ognuno può gridare: “Lasciati commuovere!”. Il Dio che si è rivelato in Gesù non è quello impassibile di cui hanno parlato i filosofi, è un Dio che ha un cuore che si commuove, gioisce e si rattrista, piange con chi piange e sorride con chi è felice.

Un anonimo poeta egiziano scriveva, verso il 2.000 a.C.:  “Cerco un cuore su cui appoggiare la mia testa e non lo trovo, non ci sono più amici!”.

Noi siamo più fortunati: abbiamo un cuore – quello di Gesù – su cui posare il nostro capo per udire da lui, in ogni momento, parole di consolazione, di speranza e di perdono.

La festa di oggi vuole introdurci, attraverso la meditazione della Parola di Dio, nell’intimità del cuore di Gesù, affinché noi impariamo ad amare come egli ha amato.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Donaci, Gesù, un cuore simile al tuo.

Prima lettura (Ez 34,11-16)

 11 Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura.
12
Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
13
Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. 14 Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d’Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d’Israele.
15
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio.
16
Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.

Fin dalle sue origini Israele è stato un popolo di pastori, non sorprende quindi che, per più di cinquecento volte, nella Bibbia si parli di agnelli, di pecore e di capri e che la figura e il titolo di pastore siano stati applicati anche al re e al Signore.

Quali caratteristiche del cuore di Dio vengono messe in risalto da questa immagine?

Oggi ce le rivela Dio stesso per bocca del profeta Ezechiele.

Il suo oracolo va ambientato nel contesto storico in cui è stato pronunciato.

Nel 586 a.C. il tempio di Gerusalemme è stato distrutto, le mura della città sono state rase al suolo e i soldati di Babilonia, dopo aver compiuto ogni sorta di barbarie, hanno deportato nella loro terra le persone valide d’Israele. Hanno lasciato nel paese solo i più poveri: qualche vignaiolo, qualche contadino, pochi artigiani.

A questa catastrofe sono seguiti anni di totale anarchia. Fra coloro che erano rimasti in patria, alcuni, più scaltri, approfittando della situazione di estremo bisogno in cui versava la maggior parte della gente, cominciarono a sfruttare chi era ridotto in miseria; comperavano, vendevano, trafficavano senza scrupoli.

Ripensando alle sventure del suo popolo, Ezechiele paragona gli israeliti a un gregge allo sbando e senza pastore e chiama in causa i responsabili della situazione disastrosa, i governanti, pastori indegni. Le sue parole accorate sono di denuncia e di severa condanna: “Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non vi prendete cura delle pecore deboli, non assistete quelle inferme, non fasciate quelle ferite, non vi interessate delle disperse, anzi, le guidate con crudeltà e violenza. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” (Ez 34,3-6).

Che farà ora il Signore? Il suo cuore sensibile al dolore dei figli lo spinge ad intervenire.

Continuando a servirsi dell’immagine del pastore, Dio apre il proprio cuore, rivela la sua sollecitudine per il popolo e ciò che intende fare.

Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura (v. 11).

A Davide aveva ingiunto: “Pasci il mio popolo” (2 Sam 5,2), ma la risposta era stata deludente: tutti i re d’Israele si erano comportati da mercenari.

Ecco ora la sua decisione: interverrà personalmente, non si servirà più di persone inaffidabili, diverrà egli stesso il pastore.

Comincerà con l’andarsi a riprendere le sue pecore disperse e non si darà pace finché non avrà ricuperato anche l’ultima.

Poi, dopo averle riportate tutte all’ovile, le curerà, medicherà con dolcezza le ferite che sono state loro inferte.

Passerà in rassegna il suo gregge (v. 12).

Come il pastore che conosce per nome ognuna delle sue pecore, Dio non si rivolge a masse anonime dove i singoli non contano. Egli si interessa dei problemi di ognuno, chiama ciascuno per nome.

Passerà in rassegna uno per uno i suoi figli perché nessuno dovrà mancare all’appello. Se uno tardasse ad arrivare, di quello, più che degli altri, si preoccuperà e si prenderà cura.

Radunerà le sue pecore da tutti i luoghi dov’erano state disperse nei giorni nuvolosi e di caligine (v. 12).

Le pecore si smarriscono facilmente perché hanno una vista debolissima, scorgono solo fino a cinque o sei metri. Se non rimangono a stretto contatto con il gregge e con il pastore si perdono, disorientate dai loro stessi belati e dagli echi delle montagne. Incapaci di ritrovare da sole la strada verso l’ovile, si aggirano confuse finché rimangono impigliate fra i rovi o precipitano in burroni. Sono al sicuro solo quando sono unite alle altre.

Dio salva il suo popolo radunandolo in un unico ovile.

Non c’è valle oscura né monte scosceso che possano impedirgli di raggiungere una sua pecora; il suo cuore di pastore lo costringe a scendere nel più profondo degli abissi e certo visiterebbe anche l’inferno se lì vi fosse caduto uno dei suoi figli.

Le ritirerà dai popoli e le condurrà nella loro terra (v. 13).

Le pecore che si allontanano dal proprio ovile e vagano allo sbando, possono finire con l’aggregarsi ad altri greggi. È accaduto a Israele che, staccatosi dal proprio Dio, è caduto nelle mani di altri “popoli”.

Lontano dalla propria terra, Israele non è mai stato felice. In Egitto aveva cibo in abbondanza, ma era in terra di schiavitù; a Babilonia il suolo era fertile, ma era terra d’esilio.

La storia d’Israele è una parabola: rappresenta l’esperienza di chi, attratto da miraggi, abbandona la casa del Signore e si ritrova prigioniero di briganti che lo riducono in schiavitù e attentano alla sua vita.

Il cuore di Dio non sopporta di vedere i suoi figli in quella condizione disperata; li va a riprendere, li sottrarre ai tiranni che li hanno asserviti – il vizio, la corruzione morale, le passioni sregolate – e li riporta nella terra della libertà.

Farà pascolare le sue pecore sui monti, nelle valli e in tutte le praterie (vv. 13-14).

Noi ci fidiamo delle parole di qualcuno solo quando siamo certi che egli ci ama e che vuole il nostro bene.

Pastore e gregge vivono in simbiosi: la vita delle pecore dipende dal pastore, ma anche la gioia di questi dipende dal gregge. Il rapporto è quello della fiducia reciproca, della comunione di vita. L’intimità fra Dio e l’umanità è ben rappresentata dalla scena deliziosa appena accennata nella nostra lettura – i monti, le valli, le praterie – e sviluppata nel Salmo 23 dove pastore e gregge sono presentati adagiati insieme sul manto erboso di un’oasi, accanto a una fonte di acqua fresca alla quale si sono dissetati dopo il faticoso cammino nel deserto arido e polveroso.

Dio non dà disposizioni per verificare se la sua autorità è rispettata. Egli parla al cuore, perché ama, perché ha un cuore di pastore.

Condurrà le sue pecore e le farà riposare (v. 15).

Il vero pastore si fa compagno di viaggio. In Gesù di Nazaret, Dio si è fatto uno di noi, ha sperimentato le nostre fatiche e le nostre stanchezze e non si è arreso di fronte a nessun ostacolo. Ha continuato a camminare fino al luogo del riposo e ora continua ad accompagnare ciascuno fino alla meta ultima, la casa dove “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).

Il versetto conclusivo della lettura riassume le premure di Dio‑pastore (v. 16). Egli andrà in cerca della pecora perduta e ricondurrà all’ovile quella smarrita; fascerà quella ferita e curerà quella malata, avrà cura della grassa e della forte; le pascerà con giustizia.

C’è un aspetto del cuore di Dio che finora non è stato ancora richiamato e che viene messo in risalto proprio alla fine.

Dio si prende cura – lo abbiamo visto – dei più bisognosi; ma questo non deve far pensare che egli si dimentichi di chi, spiritualmente, è grasso e forte. Anche costui – assicura il profeta – è oggetto delle sue attenzioni. Il suo amore è infinito e a ognuno riserva un posto privilegiato nel suo “cuore”.

Seconda lettura (Rm 5,5-11)

5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. 6 Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito.
7
Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. 8 Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. 9 A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui.
10
Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. 11 Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione.

La prima lettura ci ha fatto contemplare il cuore di Dio‑pastore. Egli è buono e solo buono con le pecore, non le percuote se si allontanano, se si perdono, se si feriscono, ma va in cerca di quelle smarrite, le riconduce all’ovile e le cura dolcemente, una ad una.

Il suo cuore è colmo di amore – ne siamo convinti – eppure continuiamo a dare ascolto alla voce maligna che ci suggerisce di non fidarsi di lui. Tante volte ci lasciamo sedurre ed erriamo lontano dal pastore.

È sempre incombente il rischio che l’amore di Dio non sia corrisposto.

Come possiamo sperare che la storia di ogni uomo si concluda bene? Chi ci assicura che la nostra insensatezza non ci porterà tanto in basso da essere irraggiungibili anche da Dio?

È a questo angosciante interrogativo che risponde Paolo: “La speranza non delude” (v. 5) e la ragione è semplice: chi conduce il gioco non siamo noi, ma è Dio che lo sa gestire con impareggiabile abilità. Egli ha riversato nei nostri cuori il suo Spirito e sa come coinvolgerci nel suo amore; non si perde d’animo di fronte a nessun ostacolo e non si abbatte quando noi siamo infedeli.

Nulla dunque deve più intaccare la nostra gioia; la speranza non sarà delusa perché non è fondata sulla nostra fedeltà, sulle nostre opere buone, ma sulla fedeltà di Dio.

Il suo amore non è fragile e incostante. Gli uomini – osserva Paolo – sanno amare i loro amici e possono, raramente, persino giungere a donare la vita per coloro ai quali vogliono bene.

L’amore di Dio non ha confini, non conosce nemici, ma solo figli. Mentre gli uomini erano lontani da lui, egli ha donato loro il suo tesoro più prezioso, il Figlio (vv. 6-8).

Se Dio ci ha amati quando eravamo nemici, quanto più ci amerà ora che abbiamo ricevuto il suo Spirito e siamo stati resi giusti.

Non è possibile che i nostri peccati possano rivelarsi più forti del suo amore. Anche se noi lo abbandoniamo, egli non ci abbandona: “Se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13).

Il comportamento di Dio per noi è sorprendente. Noi conosciamo un’unica forma di giustizia: compensare chi fa il bene e punire chi fa il male. Dio è “santo”, è completamente diverso da noi: egli concede i suoi benefici non a chi li merita, ma li distribuisce gratuitamente a tutti, perché nessuno li merita. Non abbandona, non rifiuta, non punisce; si prende cura delle sue pecore che – come ha promesso Gesù – “non andranno mai perdute, nessuno le rapirà dalla sua mano” (Gv 10,28).

Vangelo (Lc 15,3-7)

3 Gesù disse loro questa parabola: 4 “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5 Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. 7 Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

Le pecore si perdono facilmente ed essendo prive del senso dell’orientamento, sono incapaci di tornare da sole all’ovile. Più deboli e indifese degli altri animali da pascolo, lontane dal pastore sono in costante pericolo.

Per parlarci del cuore di Dio e di quanto sia prezioso per lui ognuno dei suoi figli, Gesù, cresciuto in una società pastorale, ha fatto ricorso all’immagine della pecora che si smarrisce.

Ha raccontato una parabola non per chiarire ciò che deve fare colui che si è allontanato dal Signore, ma per introdurre i suoi ascoltatori e noi nel cuore di Dio, per far comprendere ciò che il Padre del cielo prova quando un suo figlio si smarrisce. L’ha raccontata per mettere in risalto ciò che Dio è disposto a fare per riportare a casa un peccatore e la gioia che prova quando può di nuovo stringerlo fra le sue braccia.

Fin dai primi secoli della chiesa, questa parabola – una delle più note – ha ispirato gli artisti che l’hanno riprodotta in dipinti, sculture e mosaici. Nessuna immagine di Gesù è mai stata tanto cara ai cristiani quanto quella del buon pastore con la pecorella sulle spalle.

Alcuni dettagli del racconto appaiono poco realistici e, chiaramente, sono stati introdotti da Gesù proprio perché paradossali.

Osserviamo il comportamento del pastore. È illogico: abbandona novantanove pecore nel deserto per andare in cerca di quella perduta.

Ci chiediamo: non sa che in quel luogo desolato il gregge è a rischio? Ci sono i predoni, i lupi e gli sciacalli, i sentieri scoscesi, i burroni.

A uno come lui che conosce tutti i segreti del deserto e che fin da bambino ha imparato a cavarsela nelle circostanze più difficili, non si può certo insegnare qualcosa.

Se si comporta così è perché l’amore e la preoccupazione per la sua pecora in pericolo gli hanno fatto perdere la testa. È guidato dal cuore, non più dalla ragione.

Immagine stupenda del coinvolgimento di Dio nel dramma dell’uomo che – a volte per propria colpa, il più delle volte no – viene irretito nei lacci del peccato e non è più in grado di liberarsi. Aspira a una vita diversa, vorrebbe riabilitarsi, ricuperare la propria dignità, essere amato e accolto, in una parola, ricongiungersi con il Pastore che “fa adagiare in verdi prati e conduce verso sorgenti tranquille” (Sl 23,2), ma non ci vede, non trova il modo di risalire dal baratro in cui è precipitato.

Dio ha un cuore attento e sensibile. In Gesù lo abbiamo visto apprezzare coloro che spiritualmente godevano ottima salute, ma le sue attenzioni sono state rivolte ai malati. A chi lo accusava di mangiare e bere in compagnia dei pubblicani e dei peccatori, ha risposto: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare giusti, ma peccatori” (Mc 2,17).

La seconda parte della parabola è tutta dedicata alla gioia e alla festa.

Inizia con il gesto del pastore che, contento, si carica in spalla la pecora che ha ritrovato.

Riferito a Dio è commovente.

Alcuni custodi – irascibili e noncuranti, mercenari che fuggivano all’apparire del lupo – spezzavano una gamba alla pecora che aveva l’abitudine di allontanarsi dal gregge.

Dio ha un cuore di pastore, non di mercenario, un cuore capace solo di amare e di fare del bene. È un pastore che “dona se stesso per le pecore” (Gv 10,11). Non rimprovera, non punisce chi ha sbagliato, non condanna chi, allettato da miraggi, ha perso di vista il proprio Pastore ed è caduto nell’abisso del peccato. Non aggiunge altro male a quello che, allontanandosi da lui, l’uomo si è già fatto.

 Nel giudaismo si insegnava che il Signore concede il suo perdono a chi è sinceramente contrito, a chi, con digiuni, penitenze, vestiti laceri, prostrazioni manifesta la ferma volontà di emendarsi. Il Dio di Gesù prende fra le braccia chi si è smarrito senza verificare se prima c’è stato almeno un gesto di buona volontà o di pentimento da parte di costui. Il recupero è tutto opera sua.

La descrizione della festa non è molto realistica, è eccessiva. Per un incidente in fondo piuttosto banale, il pastore corre di casa in casa, chiama amici e vicini e organizza una festa il cui racconto occupa più di metà della parabola.

È l’immagine della gioia infinita che il cuore di Dio prova quando riesce a ricuperare un suo figlio.

I rabbini insegnavano: il Signore si rallegra per la risurrezione dei giusti e gode per la rovina degli empi.

Gesù rifiuta questa catechesi ufficiale e annuncia quali sono i veri sentimenti di Dio. Il Padre si rallegra non per il castigo, ma per la risurrezione dei malvagi: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. La donna che ha perso la dramma “dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto” (Lc 15,9); il padre del figlio prodigo ordina: “Portate il vitello grasso, ammazzatelo e facciamo festa” (Lc 15,23).

Dio ama la festa, organizza la festa: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” (Is 25,6-8). “Il Regno dei cieli è simile a un re che fece il banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati” (Mt 22,2-3).

Il simbolo della festa attraversa tutta la Bibbia. La storia dell’umanità si concluderà con un banchetto di nozze (Ap 19,9).

Chi sono gli invitati?

La dottrina della giusta retribuzione era un punto fermo della teologia rabbinica.

Gesù la contraddice apertamente mostrando che le tenerezze e le sollecitudini di Dio sono rivolte non a chi le merita, ma, gratuitamente, a chi ne ha bisogno.

Qualcuno, fin dai primi tempi della Chiesa, ha dedotto da questi testi l’invito a commettere peccati, nella certezza di venire comunque soccorso.

Nella lettera ai Romani, dopo aver parlato della salvezza offerta gratuitamente da Dio agli uomini, Paolo continua: “Dobbiamo commettere peccati perché non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia? È assurdo!” (Rm 6,15). Qualche anno più tardi un’altra personalità eminente della Chiesa – si presenta con il nome di Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo – mette in guardia i cristiani da alcuni individui empi che si sono infiltrati nelle comunità e che “trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio” (Gd 4).

È un’insensatezza che deriva, come tutti i peccati, dall’aver assimilato un’immagine falsa di Dio, concepito come il despota che esige un’obbedienza ingiustificata e si  impone con minacce di castighi.

Siccome nessuno può presentarsi davanti a lui con i conti in regola, si pensa all’assicurazione sulla vita, alla garanzia d’immunità, al colpo di spugna che cancelli tutti i debiti.

Il peccato non è una macchia da cancellare, ma una ferita da curare; è una perdita non un guadagno, una ricerca di felicità illusoria che non fa crescere, ma distrugge, un allontanarsi dalla casa paterna dove si è attesi per la festa.

Per aiutare il peccatore a lasciarsi trovare, per essere al più presto ricondotto alla vita e alla gioia, è controproducente e sleale – perché è una menzogna e una bestemmia – far leva sulla paura di Dio. È necessario annunciargli – come fa Gesù – la verità su Dio, bisogna fargli capire che egli non è il giudice da temere, ma l’amico che ama e vuole accompagnare alla festa. Ogni istante passato lontano da lui è un attimo d’amore e un momento di gioia persi, per il peccatore… e anche per Dio.

La conclusione della parabola è sorprendente, non viene detto più nulla delle novantanove pecore che sono rimaste nel deserto. Pare che soltanto quella smarrita sia giunta a casa, trasportata sulle spalle dal pastore.

Il padre del figlio prodigo non è rimasto nella sala del banchetto mentre il fratello maggiore era fuori, è uscito a prenderlo. Il pastore non potrà certo fare festa finché non avrà riportato all’ovile anche le altre novantanove pecore, fino all’ultima.

La perdita anche di uno solo dei suoi figli sarebbe insopportabile per il cuore di Dio. Se in cielo ne mancasse anche uno solo, Dio uscirebbe a cercarlo. Ma prima egli comincia col mettere al sicuro quelli che più hanno peccato, quelli che hanno più bisogno delle sue tenerezze perché sono quelli che hanno goduto meno del suo amore.

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