I defunti: Il mio Redentore è vivo

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Proponiamo una riflessione sulla prima lettura e sul vangelo scelti per la prima messa della Commemorazione di tutti i defunti.

Giobbe: integro, retto, timorato di Dio, lontano dal male

Con una buona probabilità, il libro di Giobbe va attribuito nella sua forma finale a uno scriba di Israele che si trovava in esilio a Babilonia con la parte del popolo di Israele che era stato deportato in tre tornate – 598 a.C.; 587/586 a. C.; 582 a.C. – da Nabucodonosor con il re Ioiachin, la corte e la classe media (artigiani, commercianti ecc.). Egli si trova a riflettere sul problema tragico della sofferenza seguendo le linee risolutive della tradizione ebraica sulla retribuzione: la sofferenza è conseguenza del peccato e per questo motivo è la giusta punizione inflitta da YHWH.

La sofferenza personale e il dolore innocente di tante persone lo hanno però portato a contestare duramente la dottrina tradizionale della retribuzione, mettendo avanti la vicende delle persone alla freddezza della dottrina teologica. Il protagonista del libro è un uomo integro e giusto, non ebreo, che viveva nella terra di Us (Gb 1,1), un territorio situato forse a sud di Edom.

Ne nasce un libro dalla risonanza mondiale, letto e meditato nei secoli e che ancor oggi viene letto ma non sempre compreso in modo corretto. Nell’ermeneutica del libro si dà molto peso infatti ai primi capitoli e agli ultimi, composti in prosa. In essi il paziente Giobbe viene ricompensato in maniera più che corrispondente alle dolorose perdite subìte per la prova che Satana ottiene da YHWH di far provare sulla sua pelle di persona saggia e di fede.

I capitoli centrali in poesia (3,1–42,6) presentano invece un Giobbe combattivo e per nulla remissivo. Contesta duramente le esposizioni fredde della dottrina tradizionale da parte di tre suoi amici (a cui si aggiunge in seguito un quarto) e dinanzi a loro e aYHWH – contro il quale intenta una disputa giudiziaria (rîb) –, difende la sua innocenza o, almeno, l’assenza di colpe talmente gravi da giustificare una “punizione” così tremenda da parte di YHWH.

La “retribuzione” contestata

Alla fine, a rispondere a Giobbe sarà YHWH stesso con due discorsi, a cui il sofferente risponde con due brevi enunciati (38,1–40,5; 40,6–42,6). Di fronte agli “amici” di Giobbe, nell’epilogo (42,7-17), YHWH giudica come “stoltezza/nebālāh” le cose dette dai tre “amici” più uno, mentre dichiara “rette/nekônāh” le affermazioni su di lui fatte da Giobbe sofferente, contestatore ma credente (42,8).

La traduzione corrente mostra Giobbe che si pone una mano sulla bocca, riconosce di non contare niente e di aver detto cose più grandi di lui (cf. 40,4), ma che addirittura “si pente” delle proprie affermazioni (42,6). Dichiara di aver parlato in una situazione spirituale di conoscenza di YHWH superficiale, per sentito dire, mentre ora, alla fine della vicenda, i suoi occhi lo hanno veduto di persona (40,5).

Se la conoscenza personale di YHWH è un ottimo traguardo spirituale di Giobbe, il suo “pentimento” fa problema, perché sconfesserebbe le sue affermazioni e colliderebbe col giudizio positivo emesso su di lui da YHWH in 40,8. Nella sua tesi di dottorato il biblista Gianantonio Borgonovo propone una traduzione alternativa di Gb 42,6, condivisa da vari autori e dallo scrivente, che suona così: «e per questo detesto polvere e cenere ma ne sono consolato».

Il sole splende anche se tu non lo vedi, perché sei dall’altra parte del globo terrestre…

«L’autore di Giobbe ha anticipato di molti secoli la “rivoluzione copernicana” – afferma il grande maestro di esegesi L. Alonso Schökel –. Per lui, l’uomo non è più “il centro di tutte le cose”. Perché chiuso in se stesso, stordito dalla sua stessa riflessione e dalla tormentata ricerca della verità, va a finire nelle tenebre, come i minatori che perforano la terra, senza raggiungere la sapienza (c. 28). Deve uscire dalla caverna interiore all’aria libera. Allora potrà contemplare la manifestazione di Dio che viene nella tempesta, non per parlare di misteri astratti e insondabili, ma per far parlare le sue creature».

A livello di genere letterario il libro è stato considerato un’epopea, un poema didattico, un dialogo/dibattito (molto interessante – a giudizio di L. Alonso Schökel – questa proposta di Van Dijk derivante da un suo studio sul genere sapienziale sumero-accadico dell’“adaman-du11-ga”), un dibattito giudiziale e anche un’opera «inclassificabile».

Seguendo i suggerimenti dell’esperto di sapienziali L. Mazzinghi, la struttura letteraria del libro di Giobbe può esser così delineata: Prologo (Gb 1–2): in prosa, diviso in sei scene; II. Dibattito (Gb 3–27) tra Giobbe e i tre amici, Bildad, Elifaz, Zofar. Ci sono nove risposte di Giobbe che vengono dopo gli interventi degli amici, tre interventi per ciascuno di essi: a) Gb 3: monologo iniziale di Giobbe; b) Gb 4–14 Primo ciclo di interventi; c) Gb 15–21 Secondo ciclo di interventi; d) Gb 22–27 Terzo ciclo di interventi; III. Inno alla misteriosità della sapienza (Gb 28); IV. Dialogo tra Giobbe e Dio (Gb 29–31 + 38,1–42,6); V. I discorsi di Elihu (Gb 38–39); VI Epilogo (Gb 42,7-17): “lieto fine” in prosa.

Risurrezione?

Il brano letto nella liturgia è stato spesso interpretato come una professione di fede “ante litteram” di Giobbe nella risurrezione. Non è questo il caso. «Il libro non pensa alla risurrezione, anzi la esclude», afferma Alonso Schökel, portando le prove della sua affermazione: Gb 3,11-22 la morte come la fine delle fatiche; 7,9-10 come la nube passa e si dissolve, chi scende nella tomba non può più risalire, non ritorna più a casa sua, né lo ricontempla la sua dimora; 10,21 prima di partire, per non tornare più, verso il paese di tenebre e ombre…; 16,22 anni contati passeranno e intraprenderò il viaggio senza ritorno; 17,1 i miei giorni si spengono, il sepolcro mi aspetta; 17,13 Non spero nulla! L’Abisso è la mia casa; 17,15 dove ho lasciato la mia speranza? 17,16 scenderà alle porte dell’Abisso, quando insieme sprofonderemo nella polvere; 23,17 magari mi dissipassi nelle tenebre!

Nel dialogo finale con Dio non si menziona la risurrezione e la restaurazione finale avviene in questa vita.

Il Redentore

Nella pericope letta nella liturgia Giobbe invoca la possibilità di scrivere in modo indelebile, incisa sulla roccia, la propria convinzione. Il testo è di difficile traduzione e interpretazione.

“Il mio gō’ēl è vivo (gō’ălî ḥāy)”. Giobbe lo sa per esperienza (yāda‘tî).

Ultimo, il mio Vendicatore, il mio Riscattatore si alzerà “sulla polvere/contro la polvere (‘al ‘āpār)” – negandole l’ultima parola? Nel corso del libro la “polvere/‘āpār” può alludere alla tomba, all’umiliazione o alla condizione umana: 2,12 (lutto); 4,19 (condizione umana); 5,6 (idem); 7,5 (tomba); 7,21 (idem); 8,19 (terra); altre ricorrenze di 10,9 (morte); 14,18; 16,15; 17,16; 20,11; 21,26 ecc.

La figura giuridica e il ruolo del gō’ēl è trattata diffusamente in Lv 25,23.47.

Considerandosi parte della fattispecie dell’istituto giuridico del gō’ēl, Giobbe si considera uno “stretto familiare” di Dio a favore del quale, in caso di estrema necessità (morte, povertà, vedovanza, debiti insolvibili, schiavitù ecc.) egli deve intervenire per riscattare, redimere, salvare, vendicando il sangue versato dal parente, reintegrando il tutto in modo che non ci sia ulteriore perdita di vite umane o di proprietà di beni che finiscano in mano a persone estranee al clan.

Le traduzioni sono le più varie: «Colui che mi deve liberare»; «il mio Vendicatore»; «il mio Redentore» (CEI); «il mio Difensore». Traducendo “Redentore” si tende a far passare l’idea “cristiana” che Giobbe anticipi con la sua fede la venuta di Gesù redentore del peccato e della morte. «Giobbe professa chiaramente la sua fede e la sua speranza nel fatto – afferma Alonso Schökel –: “so che è vivo il mio riscattatore”; chi sia, in che relazione si trovi con Dio, come avrebbe agito, non lo sa con chiarezza».

Pelle strappata e carne viva

«Dopo la mia pelle, distrussero ciò». Anche qui le traduzioni sono le più varie: «Possa restaurare la mia pelle, che sopporta ciò» (LXX); «è sulla mia pelle che si sono concentrate queste cose»; «ciò avverrà dopo che la mia pelle sarà gonfiata»; «e di nuovo sarò circondato dalla mia pelle» (Vulgata); «e dopo questa mia pelle, che avranno strappato» (Neo-Vulgata); «dopo che questa mia pelle sarà distrutta»; «perduta la mia pelle»; «quando avranno strappato questa mia pelle»; «dopo che mi avranno strappato la pelle»; «e dopo che avranno distrutto questa mia pelle»; «se si strappa via la mia pelle e la mia carne»; «e dietro la mia pelle starò in piedi»; «e se anche la mia pelle fosse strappata dalla mia carne»; «una volta disfatta la mia pelle»; «dopo che la mia pelle sarà strappata via» (CEI).

«“Dalla mia carne/ûmibbeśārî” io vedrò Dio». Anche in questo caso le traduzioni variano a seconda del significato dato alla preposizione min che precede il sostantivo “carne/bāsār”, che a sua volta segue la congiunzione we (= “e”) che, dinanzi alla lettera mem, diventa obbligatoriamente û.

La preposizione min ha nella stragrande maggioranza dei casi il significato di “da, da parte di” (agente, provenienza ecc.), ma in una percentuale molto bassa riveste anche un significato privativo: “senza”.

Influenzate anche dalla cultura greca coeva nella quale si pensa che il libro di Giobbe sia stato composto, pensiero che distingue nettamente il corpo dall’anima – opponendoli tra loro come uno la tomba dell’altra –, le traduzioni accettano molto spesso più il significato privativo di min: «è da parte del Signore che sono state compiute per me queste cose» (LXX); «così come sulla mia carne»; «e nella mia carne» (Vulgata); «e dalla mia carne» (Targum, Neo-Vulgata, RSV, Dhorme); «senza la mia carne» (CEI), «già senza la mia carne»; «distrutto il mio corpo»; «ormai senza la mia carne»; «è proprio nella mia carne che»; «senza il mio corpo»; «benché nella mia carne».

Avere la pelle strappata ed essere senza la propria carne sembra essere «un’espressione iperbolica che descrive lo stato fisico di Giobbe prima di morire» (Alonso Schökel). Nel complesso del libro non è contenuta la fede nella risurrezione. Tuttavia Giobbe afferma con forza la certezza che anche dopo la sua morte Dio vendicherà la sua causa, riconoscerà come corretto il suo pensiero.

«Senza la mia pelle e senza la mia carne» può equivalere alla condizione fisica di Giobbe esprimibile con l’espressione “essere ormai pelle e ossa”. Ma, a mio parere, può essere intesa anche come l’immagine di Giobbe che, poco prima di morire o già nell’aldilà, esprime la sua fiducia in Dio, pur avendo ormai la pelle già tutta strappata dalla sua lunga malattia e potendo solo professare la fede in Dio a partire dalla sua carne viva, non più ricoperta dalla pelle.

«Giobbe, morendo, invoca la terra perché non copra il suo sangue, così che questo gridi chiedendo vendetta, e ad un tempo fa conto di un difensore celeste (16,18); ora grida che il Vendicatore del suo sangue è vivo ed è disposto ad agire. Perciò spera che, già morto, dal regno della morte conoscerà la sua rivendicazione e, vendicato, potrà vedere Dio. La vita non gli importa più, purché gli si faccia giustizia; la morte lo ha già accolto, nella speranza che gli si faccia vendetta; la giustizia ha da prevalere, e lui, benché morto, avrà la soddisfazione di saperlo» (Alonso Schökel).

Io, io stesso lo vedrò!

Credo che l’espressione biblica “ûmibbeśārî” non vada interpretata nella linea della dissoluzione del corpo, in modo che dell’uomo resta solo l’“anima”. Nell’insieme del testo rimane viva la concezione olistica tipica dell’antropologia ebraica. Dal regno umbratile dello Sheol – probabilmente –, Giobbe, pur senza la propria pelle, dalla sua carne viva grida a Dio la sua fiducia che egli farà valere la sua buona causa. Con enfasi – in ebraico infatti non è necessario normalmente esprimere il pronome personale prima del verbo – Giobbe afferma che lui stesso, in persona, vedrà con i suoi occhi il suo Riscattatore, il suo Vendicatore. Inoltre, i suoi occhi lo vedranno “non (da) straniero/welō’ zār” (CEI traduce: «e non un altro»; non mi pare una traduzione corretta). Giobbe è certo che avrà una conoscenza di Dio non più “per sentito dire”, “da estraneo/straniero”, ma intima e “strettamente familiare”, proprio quella necessaria per avere un gō’ēl.

«In ogni caso – afferma perentoriamente Alonso Schökel – la dottrina della risurrezione non si trova nel testo originale, né risponde al senso del libro: è frutto di una lettura posteriore, illuminata dal progresso della rivelazione su questo punto».

Non lo butterò fuori

Nella sinagoga di Cafarnao, dopo il segno della moltiplicazione del pane, Gesù tiene un lungo discorso esplicativo. Il pane vero che egli dà non è tanto quello terreno per la sussistenza, quanto quello della vera e definitiva manna, la sua persona in cui credere per avere la vita eterna (6,22-50a; cf. v. 47: ho pisteuōn echei zōēn aiōnion) e persona da assimilare, pane-carne da mangiare (6,50b-59 – quale pane disceso dal cielo –, se non si vuole morire ma vivere in eterno (cf. 6,50b-51).

A metà della prima parte del discorso, Gesù si rivela ancora una volta come l’Inviato del Padre per rivelare il suo volto e donare salvezza e vita agli uomini che lo accolgono nella fede. Il Padre “dà” gli uomini al Figlio (6,37), li “attira” a lui (6,44) con vincoli di bontà e di funi di amore (cf. Os 11,4). Nessuno può “venire” a Gesù, cioè credere in lui, se il Padre non lo “attira” interiormente con la forza dello Spirito di santità.

Sotto la forza di attrazione del Padre, il credente sente l’attrazione di un altro magnete potente: il cuore di Cristo che lo attrae dalla croce, in unità con tutti gli altri credenti in Gesù. Nessuno potrà “rapirli” dalle mani del Figlio e del Padre (10,28-29).

Gesù promette che non “butterà fuori/ekbalō” nessuno che viene a lui, che cioè crede in lui, e che non lo escluderà quindi dalla vita eterna che comincia già sulla terra, essendo “eterna” e non “futura”.

È lui, corporalmente, la “vita” (cf. 14,6) ed egli non respingerà nessuno che crede in lui. Fare la volontà di chi lo ha inviato è per Gesù la sua unica missione, l’unica missione di Figlio dell’uomo, di Unigenito Figlio di Dio che è “disceso” dal cielo per “risalirvi” donando la Rivelazione del Padre e riportando a lui non solo i membri del popolo di Israele, ma anche tutti i figli di Dio dispersi (cf. 12,51-52).

La volontà del Padre

La “volontà/thelēma” di Gesù non esiste da sola, ma fa corpo unico e combacia – nel “bacio” d’amore dello Spirito – con la volontà concreta (cf. suffisso –ma) del Padre. Presso di lui non c’è solo una volontà progettuale (boulē<bouleuō) ma anche un volere operativo del Padre (thelō) che si attua di fatto nella “volontà concreta/thelēma” di salvare tutti gli uomini. E Colui che invia trapassa nell’Inviato la sua volontà universale di salvezza che si oppone a qualsiasi disfacimento escatologico che trascini nel baratro del nulla (apollymi) qualcuno dei suoi figli.

Il Padre “ha dato (con effetto permanente)/dedōken” al Figlio, l’Inviato, non solo gli uomini ma anche il creato e ogni cosa (cf. 17,2). È volontà concreta del Padre che niente e nessuno di ciò che ha la qualità del “donato” da lui fatto al Figlio – cf. il genere neutro “pan ho dedōkas/tutto ciò che hai donato” –, egli lo perda definitivamente, abbandonandolo alla “perdita” della disfatta escatologica (apolēsō).

Lo risusciterò

La volontà del Padre, condivisa totalmente e con amore dal Figlio – che forma una cosa sola con lui (cf. 10,30) ed è “in lui” (17,21) –, è che il Figlio risusciti tutti nell’ultimo giorno.

Per il ben noto procedimento giovanneo del parallelismo sinonimico oppure antitetico, il v. 40 esplicita quanto detto al v. 39 circa la risurrezione. Essa consiste nel fatto che «colui che fissa lo sguardo con intensità e continuità/ho theōrōn» sul Figlio e crede in lui abbia la vita eterna fin d’ora e «io lo risusciti nell’ultimo giorno». La congiunzione kai sembra non avere solamente un valore temporale ma epesegetico. Esso non indica solo ciò che avverrà dopo lo sguardo contemplativo del credente e dopo la sua fede. Per il parallelismo col v. 39, la risurrezione nell’ultimo giorno di cui Gesù parla nel v. 40 è strettamente rapportata alla vita eterna data fin d’ora al credente. Per l’evangelista Giovanni l’escatologia è già realizzata fin d’ora, anche se non nella sua pienezza.

Lo vedrò!

Nel discorso riportato da Giovanni, Gesù non spiega minimamente come avverrà la risurrezione. Questo sarà fatto per tentativi esemplificativi dal grande genio teologico dell’apostolo Paolo (cf. 1Cor 15). A partire dalla potenza della risurrezione di Gesù, egli tenterà di descrivere le conseguenze da trarne secondo una logica ferrea.

La fede dei cristiani in questa vita diventa fiducia e serenità per quanto riguarda quella eterna.

Se Dio si è rivelato gō’ēl, Riscattatore e Vendicatore, alla fiducia credente di Giobbe scorticato fino alla carne viva, ma consapevole di essere “familiare” di Dio, suo “parente stretto”, alla fine si è rivelato Colui che ha inviato il Figlio a donare fin d’ora la “vita eterna/zōē aiōnion” (non futura!) ai credenti come Giobbe.

Donati dal Padre al Figlio, i credenti non andranno “perduti”.

Il gō’ēl Gesù, il Riscattatore e il Vendicatore dei credenti, non lascerà che coloro che credono in lui siano “rapiti/harpazō” dalle mani sue e da quelle del Padre (10,28-29).

La pelle potrà essere scorticata, la carne viva messa nudo, ma “io lo vedrò!”.

E io non lo “butterò fuori”.

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