Domenica delle Palme: “Figlio di Dio!”

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Osanna!/Per favore, salvaci!/Hôšîā‘āh nā’

Il tempo liturgico della Quaresima giunge al suo compimento introducendo ai giorni santissimi del triduo pasquale della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo. Con la sua doppia tonalità, di gioia e di sofferenza, ci fa già pregustare la paradossalità del mistero della vita donata da Gesù: la vita nella morte, nella sua morte per amore.

La gioia religiosa e “politica” della gente che acclama l’entrata in Gerusalemme del re mite di Israele seduto su un puledro, chiedendo a YHWH la salvezza per mezzo di colui che ha inviato, si cambierà da lì a pochi giorni nella richiesta – istigata con fine disegno di “invidia” dai sommi sacerdoti e dagli scribi –, della sua morte per crocifissione.

Nella commemorazione dell’entrata in Gerusalemme, il culmine del viaggio di Gesù, temuto ma voluto, anche noi invochiamo da YHWH, il Padre, la salvezza: “Osanna!/Per favore, salvaci!/Hôšîā‘āh nā’”. L’invocazione della folla è religiosa ma anche politica. Colui che viene nel nome del Signore sia benedetto – acclama la folla –, si dica bene di lui da parte di YHWH e di tutti, perché con lui viene il regno del nostro padre Davide, la liberazione anche dagli odiati occupanti romani. Si stendono i mantelli – le proprie persone –, si tagliano le fronde degli alberi, segno della vittoria vicina.

Gesù lascia acclamare, permette ormai alla gente di invocare una salvezza “pericolosa”. L’offerta dolorosa della sua vita chiarirà senza ombra di dubbio la qualità del suo regnare. E allora la gente, volubile e istigata, chiederà, con la stessa voce, la sua crocifissione.

Passio Domini Iesu Christi in palmis. Passione e gioia, passione e gloria. Si apre il talamo della Settimana Santa dello Sposo.

Ha svegliato l’orecchio

Il cosiddetto “Terzo canto del servo di YHWH” (cf. oltre a Is 50,4-9, Is 42,1-9; 49,1-13; 52,13–53,12) ha un tenore più autobiografico di tutti gli altri e si può leggere benissimo sulla falsariga dell’esperienza profetica di Geremia (così l’interpretazione della tradizione ebraica, Giovanni Crisostomo, Tommaso d’Aquino) in continua alternanza tra vocazione alla parola, patimenti subìti a causa dell’annuncio di castigo e di salvezza, supplica con attestazione di innocenza e di fiducia in YHWH. Il protagonista rimane comunque anonimo.

Non è chiamato “servo” ma “discepolo/limmud”. Può essere benissimo un discepolo della cerchia del profeta Isaia, che attualizzò il messaggio del maestro annunciando la consolazione di Israele (cf. Is 40,1ss). La sua identità combacia con l’ascolto. Quotidianamente, giorno per giorno, YHWH gli “sveglia/yā‘r” l’orecchio. Nel momento di accompagnare il suo risveglio, YHWH gli “apre/pāta” l’orecchio. Glielo perfora come segno che, invece della libertà, il suo servo ha scelto di rimanere sempre col suo signore, in fedeltà assoluta e dedita (cf. Es. 21,2-6). Ogni mattino YHWH gli rinnova il rito della “libertà impegnata, libertà a servizio”. Ogni mattina YHWH gli risveglia una parola che dovrà annunciare lungo la giornata.

E il profeta apprende e accoglie con slancio la sua dipendenza vitale, la sua identità, la fonte della sua esistenza. Ascolto, dipendenza, appartenenza. Ogni mattino il profeta è costituito da YHWH discepolo dall’orecchio svegliato/forato/aperto. Riceve l’acqua per una parola di consolazione per l’uomo “stanco”, per sorreggerlo nel cammino faticoso della vita.

Il discepolo fonda la sua vita sull’ascolto prima che sull’annuncio. Non si ribella nel ricevere la parola. Non si inalbera né si ribella al fatto di ricevere la sua identità e la sua missione. Non si sottrae vigliaccamente a una vocazione che ha intravisto in modo molto chiaro. La parola di YHWH è luce della vita, della giornata, luce che rianima e guida nel cammino. Rinfranca l’animo e il passo. Conduce a pascoli non inquinati. Ricostruisce ogni mattino un’ecologia integrale, prima nel suo discepolo e, tramite lui, per tutto il suo popolo.

Anche Gesù, nell’essere l’Inviato del Padre, segue la stessa logica. Dice quello che prima ha ascoltato: «… io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me» (Gv 12,49-50).

Discepolo perseguitato

Il discepolo riceve la parola. È risvegliato ogni mattino alla verità di se stesso. E con questo riceve anche la forza di affrontare la persecuzione a causa della parola, di andare in esilio col suo popolo, di aver la schiena arata dai flagelli degli oppressori e dei torturatori. Non si vergogna di far parte dei feriti della storia, dei “danni collaterali” fatti dai grandi della terra che giocano a risiko con i popoli per ampliare le proprie zone di influenza e accaparrarsi più pozzi di petrolio possibili.

Il discepolo/profeta alza chiara la voce, non sottrae il suo corpo al rifiuto della sua persona e del suo annuncio. Gli sputi e le offese non lo scoraggiano, sa che YHWH è al suo fianco, gli “viene in aiuto/ya‘ăzor-lî” (vv. 7.9), perché lui è sempre vicino ai più fragili dei suoi figli.

Davanti al tribunale della storia il discepolo-profeta si alza con fiducia serena: chi potrà accusarlo di aver desiderato il male, di aver invocato qualcosa che offendesse la dignità degli uomini e dei popoli?

Il suo avvocato difensore gli porrà salda la mano sulla spalla destra, non avrà nulla da temere. La forza tranquilla della verità gli stria il cuore, nessuno riuscirà a condannarlo per colpevolezza manifesta. Non alzerà la voce, non ce n’è bisogno. Le cose vere si impongono da sole. Dalle sofferenze subìte ha imparato a essere discepolo. Ha inciso nella coscienza la parola perché intrisa di sofferenza, ingiusta agli occhi degli uomini ma “vera” secondo il cuore di YHWH.

La parola del discepolo sarà sofferta, ma “vera”, e per questo bucherà il velo nero delle sofferenze – e forse anche della morte violenta –, portando, a nome di YHWH, salvezza e riscatto.

Tutti lo abbandonarono

«Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo» (Mc 14,50-52). Dopo aver sentito preannunciare da Gesù nell’Ultima Cena il suo triplice rinnegamento (Mc 14,30), Pietro – e anche tutti gli altri apostoli dopo di lui – aveva detto con grande insistenza/ekperissōs elalei: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò”. Lo stesso dicevano pure tutti gli altri» (Mc 14,31). Di fatto, al momento dell’arresto di Gesù nel Getsemani «tutti lo abbandonarono e fuggirono/aphentes auton ephygon pantes». L’evangelista è crudo nella sua notazione e non salva l’onore di nessuno dei Dodici.

Dopo la predizione del rinnegamento di Pietro, Gesù aveva detto: «… Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse» (cf. Zc 13,7). È lo “scandalo/inciampo/skandalon” di un Messia che salva attraverso l’assunzione della violenza umana, della morte di croce, per giungere alla risurrezione. La salvezza nella croce. Questo è “il segreto messianico” di Gesù, ricordato spesso dall’evangelista Marco. Questo mistero di iniquità che ingloba la salvezza fa inciampare tutti. E tutti fuggirono.

I primi quattro chiamati – i discepoli e gli amici più cari – “avevano abbandonato le reti/aphentes ta diktua” e Andrea e Giovanni anche il loro padre Zebedeo/aphentes ton patera autōn Zebedaion e un’azienda ittica prospera, con garzoni assunti a contratto. Avevano abbandonato il padre, la fonte della vita e dell’autorità, la saldezza di una genealogia che ti radica nella storia, per mettersi alla sequela di lui (cf. Mc 1,18.20), il Maestro, il loro Signore, il Figlio dell’uomo. Ora lo abbandonano miseramente al suo destino. Solo di fronte alla violenza religiosa e politica immotivata e meschina, cieca di fronte alla novità di vita portata da Gesù.

Fuggì via nudo

L’evangelista Marco nota la solitudine di Gesù nel momento dell’arresto e nelle angoscianti ore successive, ma è anche l’unico a notare che solo un “ragazzo/neaniskos” “lo seguiva passo passo/synakolouthei autōi” con una sequela continua prudente ma coraggiosa, sobria, sciolta, leggera (cf. Mc 14,51). Soltanto un leggero “lenzuolo/sindona” di lino lo avvolge, appena sufficiente a ripararsi nelle fresche nottate di inizio aprile. Se l’era “gettato intorno/peribeblēmenos” come riparo minimale per coprire la sua nudità. Una «nudità necessaria» (G. Perego).

È la nudità necessaria a chi vuol essere discepolo, sciolto e libero da se stesso, agile nel seguire Gesù, staccato dal possesso di beni che appesantiscono la sequela e rallentano la missione. In lui la Chiesa vede se stessa, tra fuga e nudità necessaria. I nemici afferrano il neaniskos, ma egli “lascia cadere/katalipōn” il lenzuolo/sindone e fugge via, nudo.

Fugge anche lui. Non però per abbandonare Gesù per sempre, ma per custodirlo col suo omaggio nella tomba, che veglierà vuota in attesa delle donne…

Il suo “lenzuolo/sindōn” di discepolo fedele ora però ha subìto una trasformazione pasquale. Non è più un lenzuolo funebre prepasquale, come quello “acquistato/agorasas sindona” da Giuseppe di Arimatea (cf. Mc 15,46, sola altra ricorrenza del termine in Mc) per “avvolgerlo [= Gesù] con il lenzuolo/eneilēsen tēi sindoni” prima di deporlo nel sepolcro scavato nella roccia (cf. Mc 15,46).

 La “sindone” del neaniskos

Il lenzuolo “funebre prepasquale” del “ragazzo/giovane/neaniskos” (Mc 14,51) è diventato una “lunga e ampia veste fluttuante/stolēn” (cf. Mc 16,5), come quella portata con sussiego finanche esagerato dagli scribi (cf. Mc 12,38par, unica altra ricorrenza del termine in Mc), mentre passeggiano per strada ricevendo i saluti della gente per poi sedere nei primi posti nella sinagoga e nei banchetti.

È una veste “bianca/leukēn” del mondo di Dio, il mondo dei risorti, della vita definitiva. È la veste bianca indossata dalla moltitudine immensa, incalcolabile, di persone provenienti da ogni tribù, popolo e lingua mentre stanno in piedi, da risorti, davanti al trono (di Dio) e davanti all’Agnello apocalittico (cf. Ap 7,9), con in mano le palme della vittoria definitiva contro il Male (cf. Ap 7,9). «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14), risponde uno degli anziani al Veggente di Patmos che lo aveva interrogato sulla loro identità. Essi hanno immerso la loro vita nel sangue redentore dell’Agnello vittorioso, come sgozzato ma ritto in piedi risorto e vivente (cf. Ap 5,6).

Le loro vesti/vite sono state trasfigurate di risurrezione, rese bianche, per la morte gloriosa e riscattatrice dell’Agnello che, a Pasqua, ha vinto definitivamente il Drago, la Bestia e il suo codazzo di seguaci.

Alla destra

Nella tomba vuota, pasquale, un “giovane/neaniskos” (Mc 16,5) attende le donne la mattina dopo il sabato (Mc 16,1). La sua veste sontuosa e splendente è “gettata intorno/peribeblēmenon” (Mc 16,5; cf. 14,51!) al suo corpo mentre se ne sta seduto, vittorioso e regale, sulla destra del luogo dove era stato deposto Gesù. Se ne sta al posto di onore, come il Figlio dell’uomo sta seduto alla destra della Potenza [= Dio] e viene sulle nubi del cielo, come si è identificato Gesù rispondendo al sommo sacerdote (cf. Mc 14,62) che lo interrogava: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?» (cf. Mc 14,61).

Gesù aveva identificato con una persona di livello divino la sua identità di Figlio dell’uomo, di Messia, che, secondo la tradizione giudaica, non aveva tale natura (cf. Dn 7,13ss, unitamente a Sal 110,1). Per il sommo sacerdote, Gesù pronuncia una bestemmia (cf. Mc 14,64) passibile di pena di morte.

Il neaniskos pasquale, vestito di splendida veste di risorto, è il termine ultimo del cammino discepolare intrapreso dai Dodici – e dal discepolo di Is 50,4ss! –, al momento paurosi traditori di Gesù, ma trasformati in discepoli coraggiosi e vittoriosi grazie alla misericordia del Gesù pasquale.

Dio mio, Dio mio…

Gesù muore in croce, in mezzo a due terroristi che lo insultano, oltraggiato, sfidato dai passanti, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi a scendere da quel trono infamante e a salvare se stesso, dopo aver salvato altri. Scenda, vedremo e crederemo (cf. Mc 15,29-32).

A mezzogiorno si fa buio su tutta la terra, come si fece buio nel momento della rivelazione di YHWH al Sinai, al momento di donare la sua Istruzione/Torah al suo servo Mosè.

YHWH si rivela ora nel grido di dolore angosciato ma affidato di Gesù che muore pregando il Tu del Padre, con i primo versetto del Sal 22. Gesù muore pregando, nella dolorosa solitudine avvertita in modo lancinante a livello psicologico, ma affidato fiducioso a Colui che gli farà annunciare ancora da vivo il nome di YHWH in mezzo all’assemblea dei fratelli (cf. Sal 22,23). «Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli» (Sal 22,26b) prega fiducioso il salmista nel dolore mortale. Gesù prega con l’inizio del Sal 22, di cui ben conosce il finale positivo di vittoria. Gesù muore pregando un Tu ben conosciuto, affidabile, l’Affidabile. Muore angosciato ma non disperato.

Buio rivelatore

Prima della morte di Gesù il velo del tempio “fu scisso/squarciato/eschisthē” (da Dio, aoristo passivo, passivum divinum), in due, da cima a fondo, completamente (cf. Mc 15,38). In una densa nube YHWH va incontro al suo servo Mosè sul Sinai (cf. Es 19,9). In una “nube densa/‘ānān kābēd”, il terzo giorno, «il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì» (cf. Es 19,16-20). «Voi vi avvicinaste e vi fermaste ai piedi del monte – ricorda Mosè al popolo nel suo primo discorso nelle steppe di Moab –; il monte ardeva, con il fuoco che si innalzava fino alla sommità del cielo, fra tenebre, nuvole e oscurità/ōšek ‘ānān wa‘ărāpel. Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura: vi era soltanto una voce. Egli vi annunciò la sua alleanza, che vi comandò di osservare, cioè le dieci parole, e le scrisse su due tavole di pietra» (Dt 4,11-13). «Abbassò i cieli e discese – proclama il salmo –; una nube oscura sotto i suoi piedi. Cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento. Si avvolgeva di tenebre come di un velo, di acque oscure e di nubi come di una tenda» (Sal 18[17],10-12 = 2Sam 22,10ss, in un salmo attribuito a Davide).

Nel “buio/skotos” totale, cosmico, che avvolge la morte imminente di Gesù (cf. Mc 15,33), YHWH/Dio Padre si rivela ormai apertamente mentre consegna agli uomini il suo Dono definitivo, escatologico, la sua fedeltà insuperabile, la sua istruzione ineguagliabile, la Torah crocifissa per amore. Torah crocifissa, segno di alleanza definitiva, striata e sigillata dal sangue ricattatore di un vero uomo e del vero Figlio di Dio che entra nella vita di Dio, insanguinandola per sempre della vita donata sulla croce, sulla terra, a favore dei suoi fratelli, degli altri figli di Dio, figli nel Figlio.

Abbandonato, ma affidato

Muore un uomo. Muore il Figlio di Dio incarnato. Muore addolorato, abbandonato mentre si abbandona totalmente a Colui che ha generato in eterno i suoi giorni e che ancora gli farà vedere la luce, non abbandonandolo nelle tenebre dello Sheol. «… tu non abbandonerai la mia vita negli inferi, né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione» (Sal 16[15],10b; citato da Pietro nel discorso a Pentecoste), aveva tante volte pregato Gesù, innalzando con fede il salmo a YHWH suo Padre.

La roccia “teologica” del suo cuore credente e orante non vacilla, mentre la sua psicologia umana torturata a morte avverte in modo tragico la solitudine della fine.

Veramente costui…

Il centurione, un soldato pagano avvezzo alla pena crudele e disumana della crocifissione inflitta agli schiavi e ai terroristi che attentavano alla maestà dello Stato romano, “se ne sta lì in piedi, accanto al morente/parestēkōs”, “davanti a lui/guardandolo in volto/ex enantias autou” (Mc 15,38). Sente il grido innalzato a gran voce da Gesù nell’aramaico della sua vita di pio giudeo che ora gli sgorga quasi in modo inconscio, frutto di preghiera abituale e continua (v. 34).

È la preghiera del cuore. Una preghiera che cerca un Volto. «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 27[26],8-9a).

Muore un uomo, muore il Figlio di Dio incarnato. Muore crudelmente un uomo solo, un uomo credente, un ebreo dal cuore tutto deposto in YHWH suo Padre.

Il centurione vede quell’uomo “spirare in quel modo/houtōs exepneusen”. Angosciato e solo, ma abbandonato in preghiera al Padre. Torturato a morte, crocifisso, soffocato nel suo stesso sangue.

Angosciato, non disperato. Consegnato. Affidato.

Non c’è più fiato, resta la fede.

«Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39).

L’intuizione del pagano.

La fede del cristiano.

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