Fernando Armellini – Domenica delle Palme

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Perché ha dovuto morire per salvarci?

Per chi ha interiorizzato un’immagine pietistica di Gesù è difficile capire la ragione per cui egli è stato ucciso. Come si può divenire nemici di colui che cura i malati, abbraccia e accarezza i bambini, ama i poveri, difende i deboli? In quest’ottica la sua morte è un fatto inspiegabile, da attribuire ad una misteriosa volontà del Padre che, per perdonare il peccato dell’uomo, aveva bisogno di vedere scorrere il sangue di un giusto. Difficile davvero accettare quest’interpretazione!

Con profondo dolore ricordiamo poi l’assurda attribuzione di questa morte al popolo ebraico e le percosse inflitte con la croce agli Ebrei durante le processioni del venerdì santo.

Perché allora Gesù è morto? In quale senso ha immolato la sua vita per noi? Da quali schiavitù ci ha liberato consegnandosi a chi lo ha inchiodato in croce?

La ragione dell’ostilità che si è scatenata contro di lui sta nel fatto che egli è apparso come luce del mondo (Gv 9,5). “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,4-5). “Egli era la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), “ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19).

Alcuni raggi di questa luce che ha squarciato le tenebre del mondo sono stati particolarmente intensi. Sono raggi penetrati nel cuore delle persone semplici colmandole di gioia e di speranza, ma hanno abbagliato, hanno infastidito, sono divenuti insopportabili per gli occhi torbidi di altri (e questa drammatica storia può ripetersi oggi). In particolare:

ha proposto un nuovo volto di Dio. Non più un Dio giustiziere, ma un Dio che salva ogni uomo;

ha proposto un nuovo volto d’uomo. Ha capovolto i valori di questo mondo: grande per lui non è chi vince e chi domina, ma chi serve i fratelli;

ha proposto una nuova religione. Non più quella dei riti, ma quella “in spirito e verità”;

ha proposto una nuova società in cui il “primo” è il povero, il debole, l’emarginato.

Gesù non ha ricercato la morte in croce, ma per evitarla avrebbe dovuto rinnegare tutte queste sue proposte, avrebbe dovuto rientrare nei ranghi, stare zitto, adeguarsi alla mentalità corrente, rassegnarsi al trionfo del male, abbandonare per sempre l’uomo nelle mani del “principe di questo mondo”. Avrebbe dovuto tornare a Nazareth a costruire tavoli ed aratri. Lo avrebbero lasciato tranquillo. Non solo non sarebbe stato messo in croce, ma sarebbe stato colmato d’onori. Avrebbe fatto carriera nell’istituzione religiosa ufficiale… ottenendo quei “regni di questo mondo” che satana gli aveva promesso fin da principio. Ma questo sarebbe stato il fallimento della sua missione.

Durante questa settimana non siamo invitati a rattristarci e a piangere la morte di Gesù, ma a gioire per la liberazione che egli ha realizzato donando la sua vita.

Proviamo anche ad interrogarci: davvero siamo entrati nella nuova realtà nata dal suo sacrificio? Chiediamoci se abbiamo accolto il suo Regno, assimilando il nuovo volto di Dio, la nuova religione, il nuovo volto d’uomo e la nuova società da lui proposti.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
Come ogni apostolo ha fatto durante l’ultima cena, durante questa settimana anch’io mi chiederò: “Sono forse io Signore colui che si oppone al tuo Regno?”.

Prima Lettura (Is 50,4-7)

4 Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,
perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come gli iniziati.
5 Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
6 Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
7 Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.

Spiegando la prima lettura della festa del battesimo del Signore, abbiamo parlato di un personaggio misterioso che entra in scena nella seconda parte del libro d’Isaia. Si tratta del “Servo del Signore”. Nella lettura di oggi questo “Servo” ricompare ed è egli stesso che parla.

Descrive anzitutto la missione che gli è stata affidata: è inviato ad annunciare un messaggio di consolazione a chi è abbattuto e senza speranza (v.4). Dalle sue labbra escono sempre e solo parole di conforto per chi si è smarrito su vie non buone e non riesce a ritrovare il retto cammino, per chi è avvolto dalle tenebre e brancola nel buio.

Poi chiarisce il modo con cui porterà a compimento la sua missione (vv.4-5). Il Signore – dice – gli ha dato un orecchio capace di ascoltare e una bocca in grado di comunicare. Tuttavia, siccome ciò che questo Servo ha udito non era piacevole, la sua prima reazione è stata di tirarsi indietro, di rinunciare, di trovare una giustificazione per eclissarsi (v.5). Non lo ha fatto, ha saputo resistere.

Infine racconta ciò che gli è successo, quali sono state le conseguenze della sua coerenza. Ha trasmesso fedelmente il messaggio udito ed è stato percosso, insultato, schiaffeggiato, gli hanno sputato in faccia, ma non ha reagito, ha continuato a confidare nel Signore (v.7).

Ascoltando soprattutto l’ultima parte della lettura, si è spontaneamente indotti ad accostare questo Servo a Gesù (subito dopo la Pasqua, i cristiani hanno fatto questo collegamento). Come il “Servo del Signore”, Gesù si è mantenuto in ascolto del Padre, ha pronunciato solo parole di consolazione e speranza, ha dato conforto agli sfiduciati, agli emarginati ed ha fatto la fine del Servo di cui si parla nel libro di Isaia (Cf. Mt 27,27-31).

A questo punto il rischio è quello di soffermarsi a contemplare e ad ammirare la fedeltà di Gesù, di commuoversi di fronte a ciò che egli ha sofferto, di provare sdegno per le ingiustizie che ha subito e di concludere che, anche oggi, per qualche eroe fedele a Dio si può ripetere la medesima, drammatica esperienza del Servo del Signore.

Non qualche eroe, ma ogni uomo è chiamato a svolgere la missione del “Servo” e di Cristo.

Quale? Questa: mantenersi in ascolto della parola di Dio, tradurre in atto ciò che ha udito ed essere disposto a subirne le conseguenze.

Seconda Lettura (Fil 2,6-11)

6 Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
7 ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
9 Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11 e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

La comunità di Filippi era molto buona. Paolo ne era orgoglioso. Tuttavia, come succede anche nelle migliori comunità, a Filippi c’era un po’ d’invidia fra i cristiani. Qualcuno cercava di attirare su di sé l’attenzione, voleva farla un po’ da padrone imponendo la propria volontà.

È a causa di questa situazione che Paolo, nella prima parte della lettera raccomanda in modo accorato: “Fate che la mia gioia sia piena, andate d’accordo, abbiate lo stesso amore, un’anima sola, un medesimo modo di sentire; non fate nulla per rivalità, nulla per vanagloria. Non badate al vostro bene, ma a quello degli altri” (Fil 2,2-4).

Per imprimere meglio nella mente e nel cuore dei filippesi questo insegnamento, presenta l’esempio di Cristo e lo fa citando un inno stupendo, conosciuto in molte delle comunità cristiane del I secolo.

In due strofe l’inno racconta la storia di Gesù.

Egli esisteva già prima di farsi uomo; incarnandosi “si è svuotato” della sua grandezza divina ed ha accettato di entrare in un’esistenza schiava della morte. Non si è rivestito della nostra umanità come di un abito esterno del quale alla fine si è poi sbarazzato. Si è fatto per sempre simile a noi: ha assunto la nostra debolezza, la nostra ignoranza, la nostra fragilità, le nostre passioni, i nostri sentimenti e la nostra condizione mortale. È apparso ai nostri occhi nell’umiltà del più disprezzato degli uomini, lo schiavo, colui al quale i romani riservavano il supplizio ignominioso della croce (vv.6-8).

Il cammino che egli ha percorso non si è però concluso con l’umiliazione e la morte in croce.

La seconda parte dell’inno (vv.9-11) canta la gloria alla quale egli è stato elevato: il Padre lo ha risuscitato, lo ha additato a modello per ogni uomo e gli ha dato il potere ed il dominio su ogni creatura. L’umanità intera finirà per essere assimilata a lui e allora il progetto di Dio sarà compiuto.

Vangelo (Lc 22,14-23,56)

14 Quando fu l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui, 15 e disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16 poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. 17 E preso un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, 18 poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”.

19 Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. 20 Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.

21 “Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. 22 Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”. 23 Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.

24 Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. 25 Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. 26 Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. 27 Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.

28 Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; 29 e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, 30 perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.

31 Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; 32 ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. 33 E Pietro gli disse: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. 34 Gli rispose: “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”.

35 Poi disse: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. Risposero: “Nulla”. 36 Ed egli soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. 37 Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. 38 Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade”. Ma egli rispose “Basta!”.

39 Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. 40 Giunto sul luogo, disse loro: “Pregate, per non entrare in tentazione”. 41 Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: 42 “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. 43 Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. 44 In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. 45 Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. 46 E disse loro: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.

47 Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. 48 Gesù gli disse: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. 49 Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. 50 E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. 51 Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì. 52 Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? 53 Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”.

54 Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. 55 Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. 56 Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: “Anche questi era con lui”. 57 Ma egli negò dicendo: “Donna, non lo conosco!”. 58 Poco dopo un altro lo vide e disse: “Anche tu sei di loro!”. Ma Pietro rispose: “No, non lo sono!”. 59 Passata circa un’ora, un altro insisteva: “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un galileo”. 60 Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che dici”. E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. 61 Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. 62 E, uscito, pianse amaramente.

63 Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, 64 lo bendavano e gli dicevano: “Indovina: chi ti ha colpito?”. 65 E molti altri insulti dicevano contro di lui.

66 Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: 67 “Se tu sei il Cristo, diccelo”. Gesù rispose: “Anche se ve lo dico, non mi crederete; 68 se vi interrogo, non mi risponderete. 69 Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”. 70 Allora tutti esclamarono: “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”. Ed egli disse loro: “Lo dite voi stessi: io lo sono”. 71 Risposero: “Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca”.

23,1 Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato 2 e cominciarono ad accusarlo: “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. 3 Pilato lo interrogò: “Sei tu il re dei giudei?”. Ed egli rispose: “Tu lo dici”. 4 Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo”. 5 Ma essi insistevano: “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui”.

6 Udito ciò, Pilato domandò se era galileo 7 e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.

8 Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. 9 Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. 10 C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. 11 Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. 12 In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro.

13 Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, 14 disse: “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; 15 e neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. 16 Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò”. 17 . 18 Ma essi si misero a gridare tutti insieme: “A morte costui! Dacci libero Barabba!”. 19 Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio.

20 Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. 21 Ma essi urlavano: “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. 22 Ed egli, per la terza volta, disse loro: “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”. 23 Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. 24 Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. 25 Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.

26 Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. 27 Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. 28 Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. 29 Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato.

30 Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! 31 Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”.

32 Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati.

33 Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. 34 Gesù diceva: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”.

Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte.

35 Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. 36 Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: 37 “Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso”. 38 C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei giudei.

39 Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. 40 Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? 41 Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. 42 E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. 43 Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.

44 Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. 45 Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. 46 Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò.

47 Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: “Veramente quest’uomo era giusto”. 48 Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. 49 Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.

50 C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. 51 Non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei giudei, e aspettava il regno di Dio. 52 Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53 Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. 54 Era il giorno della parascève e già splendevano le luci del sabato. 55 Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, 56 poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.

Tutti gli evangelisti dedicano uno spazio considerevole al racconto della passione e morte di Gesù. La traccia che seguono e i fatti sono fondamentalmente gli stessi, anche se vengono narrati in modo e secondo prospettive diverse. Ogni evangelista presenta però anche episodi, dettagli, sottolineature che gli sono propri. Questi rivelano l’attenzione e l’interesse per alcuni temi di catechesi ritenuti significativi e urgenti per le sue comunità. La versione del racconto della passione che oggi ci viene proposta è quella secondo Luca. Nel nostro commento ci limiteremo a sottolinearne gli aspetti caratteristici.

Nel suo Vangelo Luca non si lascia mai sfuggire l’occasione per mettere in risalto la bontà e la misericordia di Gesù. Lo fa anche durante la passione.

La reazione istintiva di fronte a un aggressore che vuole uccidere è l’autodifesa. Quando viene data la notizia che, durante una colluttazione, un mafioso ha avuto la peggio ed è rimasto ferito, molti gioiscono e c’è anche chi si rattrista se qualcuno lo ha soccorso.

La reazione contro l’aggressore è spontanea, comprensibile e, dal punto di vista umano, anche giustificabile: nell’orto degli Ulivi, gli apostoli non esitano a porla in atto. Per impedire il sopruso, la violenza, l’ingiustizia, la prima cosa che pensano di fare è mettere mano alla spada. La frase: Signore, dobbiamo colpire con la spada?, nel testo originale non si presenta come una domanda, ma come una decisione: “Signore, noi adesso ricorriamo alla spada!”. E difatti, prima di attendere il parere del Maestro, uno di loro passa alle vie di fatto e stacca l’orecchio destro al servo del sommo sacerdote (Lc 22,49-51).

Gesù interviene e rimprovera severamente Pietro per il gesto inconsulto che ha compiuto. Poi – ed è questo il particolare che solo Luca riferisce – si prende cura del ferito e lo guarisce (Lc 22,51).

Il messaggio che l’evangelista vuole dare è chiaro: il discepolo non solo non può aggredire nessuno, ma è sempre pronto a rimediare ai guai provocati da altri. Si prende cura anche di chi gli ha fatto e magari continua a volergli fare del male.

Il cristiano ha avversari, non può non averne perché, come il Maestro, deve confrontarsi – anche in modo duro – con chi fa scelte di morte, con chi deforma il volto di Dio, con chi porta avanti un progetto di uomo e di società inaccettabili. Ma il cristiano non ha nemici. Il nemico è colui che deve essere annientato, schiacciato, umiliato, eliminato. L’avversario non viene distrutto, ma affrontato per aiutarlo a crescere, a liberarsi dalle sue schiavitù. Le armi vengono usate da chi ha nemici da sconfiggere, non da chi ha, come unica missione, quella di trasformare gli avversari in fratelli.

Poco più avanti troviamo un altro particolare toccante.

Come Marco e Matteo, anche Luca dice che, dopo aver rinnegato il Maestro nella casa del sommo sacerdote, Pietro uscì e scoppiò a piangere. Solo lui però nota che il Signore, voltatosi, guardò Pietro (Lc 22,61-62) e il verbo greco che usa non è blepo (vedere), ma emblepo (guardare dentro).

Lo sguardo di Gesù è commovente: non è un rimprovero, ma un gesto di comprensione per la debolezza del suo discepolo. Noi consideriamo l’azione esteriore, il gesto codardo, le parole vili di Pietro. Gesù, com’è solito fare, guarda dentro, vede il cuore del suo discepolo e scopre che egli compie, sì, un gesto pusillanime, ma in fondo gli vuole bene e gli rimane fedele.

Sottolineando questo sguardo, Luca indica ai cristiani di ogni tempo come devono essere considerate le fragilità proprie e dei fratelli: vanno guardate con gli occhi di Gesù, occhi che infondono fiducia e ridonano speranza, occhi che scoprono, anche nel più grande peccatore, una scintilla di amore e lo aiutano a ripartire.

Durante la passione i discepoli non fanno una bella figura: Giuda tradisce, Pietro rinnega, tutti fuggono (Mc 14,50). Gli evangelisti sottolineano questo comportamento vile. Solo Luca cerca di attenuare la responsabilità degli apostoli: non accenna alla loro fuga, anzi, dice che, sul Calvario, “tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano” (Lc 23,49); non riferisce il rimprovero di Gesù a Pietro: “Simone dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?” (Mc 14,37); trova una scusa per spiegare anche il loro sonno: “Dormivano per la tristezza” (Lc 22,45).

Luca è l’esempio del pastore d’anime che, pur non giustificando il peccato, lo sa capire, lo attribuisce all’ignoranza, alla miseria umana che tutti ci accomuna. Non sottolinea l’errore commesso, non lo rinfaccia perché sa che chi viene umiliato e svergognato, chi non si sente accolto e stimato malgrado le sue debolezze, finisce per ripiegarsi pericolosamente su se stesso e precludersi ogni via di recupero.

Ci sono stati martiri che sono morti disprezzando chi li uccideva e minacciando su di loro la vendetta del cielo. “Non credere di andare impunito!” – dice uno dei fratelli Maccabei al suo carnefice (2 Mac 7,19).

Il discepolo di Cristo non conosce questo linguaggio, non impreca, non maledice, non invoca castighi contro chi gli fa del male (Lc 6,27-36). Anche nei momenti più drammatici pronuncia solo parole di amore.

Questo atteggiamento è l’unico compatibile con quello del Maestro. Egli – dice Pietro nella sua lettera ai cristiani perseguitati delle sue comunità – “oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta” (1 Pt 2,23).

Nel racconto della passione, Luca riferisce una frase che ogni discepolo deve tenere presente quando è chiamato a sopportare ingiustizie, soprusi, vessazioni.

Solo Luca ricorda che, pochi istanti prima di spirare sulla croce, Gesù ha ancora la forza di dire: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). Non si riferiva ai soldati, intenti a dividersi le sue vesti, ma ai veri responsabili della sua morte: le autorità religiose del suo popolo. Gesù non si è limitato a ordinare ai suoi di perdonare sempre e senza condizioni, ma ha dato l’esempio. Sarà imitato da Stefano, il primo martire che, piegate le ginocchia sotto i colpi delle pietre scagliate contro di lui, griderà forte: “Signore, non imputare loro questo peccato!” (At 7,60).

Tutti conosciamo a memoria il racconto dell’istituzione dell’eucaristia: lo sentiamo ripetere durante ogni messa.

Forse non tutti sappiamo che soltanto Luca riferisce l’ingiunzione del Signore: Fate questo in memoria di me (Lc 22,19).

Indubbiamente Gesù ha voluto che il rito dello spezzar del pane e della condivisione del calice venisse ripetuto lungo i secoli dalle comunità cristiane, ma le sue parole non sono solo un invito a ripetere liturgicamente il suo gesto. Lo “spezzar del pane” per Gesù ha un valore simbolico straordinario: in esso ha voluto che fosse riassunta e rappresentata tutta la sua vita, spezzata e donata agli uomini.

“Fate questo in memoria di me” è un invito a fare propria questa sua scelta. Solo chi è entrato in questa logica del Maestro, solo chi, come lui, spezza la propria vita per gli altri può “spezzare il pane eucaristico” con purezza di cuore. Altrimenti la ripetizione del gesto liturgico si riduce a un rito vuoto e, a volte, addirittura ipocrita.

Qual è la malattia, il cancro che distrugge le nostre comunità? È la frenesia per occupare i primi posti, per essere superiori, per dominare, per imporsi agli altri, per ottenere privilegi e titoli onorifici. È questa passione che provoca invidie, critiche, pettegolezzi meschini, divisioni, discordie fra cristiani.

Questa malattia non è di oggi. I Vangeli riferiscono vari episodi spiacevoli, frequenti e meschine discussioni fra gli apostoli desiderosi di definire le precedenze, di stabilire chi fra loro fosse il maggiore. Essi non volevano in alcun modo accettare la proposta del Maestro di farsi piccoli, di scendere all’ultimo posto, di porsi a servizio dei più poveri, di divenire schiavi degli altri.

Come far comprendere ai cristiani che questo insegnamento di Gesù è la legge fondamentale su cui si basa la comunità? Luca ha un’idea: presentare questo tema durante l’ultima cena (Lc 22,24-27). Collocate in questo contesto le parole del Maestro acquistano un valore massimo: diventano il suo testamento, la sua ultima richiesta, dunque devono essere considerate come sacre e inviolabili. Chi di noi avrebbe il coraggio di non compiere ciò che il padre chiede prima di morire?

Dopo l’istituzione dell’eucaristia – dice Luca – gli apostoli cominciarono ad accapigliarsi perché ognuno di loro voleva essere il primo. Gesù allora prese la parola e spiegò che, nella nuova comunità, l’autorità non doveva essere intesa secondo i criteri di questo mondo. Cosa fanno i capi delle nazioni? Hanno il potere, comandano sugli altri, accumulano denaro, esigono maggiore rispetto, pretendono privilegi, aerei personali. Nella chiesa non può essere così! In essa l’autorità è solo servizio. Si badi bene: servire non vuol dire decidere in nome degli altri, imporre il proprio modo di pensare, obbligare a fare quello che si ritiene sia giusto. Questo è ancora dominare.

Servire vuol dire occupare davvero l’ultimo posto, rispettare, dialogare, capire, trovare per ognuno un ministero da svolgere con gioia in favore dei fratelli.

Il termine agonia per noi indica gli ultimi momenti che precedono la morte. Il suo significato etimologico è però diverso, indica la lotta, la competizione degli atleti ed è in questo senso che viene usato nel racconto evangelico.

Fin dagli inizi della vita pubblica, Gesù si è confrontato in combattimento con le forze del male – con satana – e ha vinto. Ma l’agone non si è concluso dopo il primo scontro. Luca nota che “dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (Lc 4,13).

Ecco, infatti, che all’inizio del racconto della passione ritorna il nemico per l’ultimo assalto: “Si avvicinava la festa degli Azzimi… Allora satana entrò in Giuda”. Le forze del male si incarnano in uno dei dodici apostoli e scatenano l’offensiva.

Gesù, come ogni atleta prima della gara, si deve preparare e Luca – più degli altri evangelisti – sottolinea come egli si prepara: con la preghiera. Il racconto dell’agonia inizia con la raccomandazione di Gesù ai discepoli: “Pregate per non entrare in tentazione”, poi continua: “si allontanò e, inginocchiatosi, pregava… Entrato in agonia, pregava più intensamente… Poi rialzatosi dalla preghiera… E disse ai discepoli: Alzatevi e pregate” (Lc 22,39-46). Un’insistenza sulla preghiera che ha l’obiettivo di indicare a tutti i cristiani come si ottiene la vittoria.

In questo contesto Luca introduce alcuni particolari significativi. Dice anzitutto che a Gesù “apparve un angelo dal cielo per rafforzarlo” (v.43). È l’effetto della preghiera. Quando nella Bibbia si parla di angeli non si deve immediatamente pensare a esseri spirituali che assumono sembianze umane. Essi indicano spesso una rivelazione di Dio avvenuta nell’intimo dell’uomo. Nel Getsemani Gesù è stato tentato di fuggire e di scegliere cammini diversi da quelli tracciati dal Padre. La preghiera, il dialogo con il Padre, gli ha fatto comprendere il senso, il valore della sua morte. Egli ha chiesto al Padre di allontanare da lui il calice e la sua preghiera è stata esaudita: non gli è stata risparmiata la sofferenza, non è stato sottratto alla morte, ma è stato illuminato e, sostenuto dallo Spirito, ha dato la sua adesione incondizionata al Padre.

Luca vuol dire ad ogni discepolo che, per non essere sopraffatti dalla tentazione, per superare la debolezza e la fragilità umane, bisogna pregare “intensamente”, come il Maestro.

Sempre in questo contesto della preparazione di Gesù all’imminente prova, Luca, il medico, nota un altro particolare: “Entrato in agonia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (v.44). L’interpretazione tradizionale spiegava questo fatto come un effetto dello sconforto di Gesù. Ma questo non ha senso dopo la consolazione datagli dall’angelo. Il fenomeno (ematoidrosi) – conosciuto nell’antichità – assume per l’evangelista un significato legato all’agonismo sportivo: indica la tensione dell’atleta in prossimità della gara. Vuole dirci che Gesù è concentratissimo, suda, è colto da tremiti, sa che sta per affrontare “un uomo forte e ben armato”, ma sa anche di essere infinitamente più forte (Lc 11,21-22).

C’è un altro episodio che solo Luca riferisce: l’incontro di Gesù con Erode. Costui era il figlio del famoso Erode che, per timore di perdere il potere, aveva fatto uccidere i bambini di Betlemme (Mt 2,16). Non era né un abile politico né un maniaco come suo padre, era solo un debole, un corrotto, un uomo senza personalità. Più volte aveva sentito parlare di Gesù e dei prodigi da lui compiuti. Immaginava che fosse uno stregone, un indovino, un esperto in arti occulte. Quando, durante la passione, Pilato glielo invia per sentire il suo parere riguardo alle accuse che gli sono mosse, si rallegra immensamente. Spera di assistere a qualche miracolo. A lui però Gesù non risponde nemmeno una parola. Come mai?

Sono significative le sottolineature degli stati d’animo di Erode: dapprima prova una “grande gioia” (v.8), poi, dopo la delusione per non avere ottenuto ciò che si attendeva (v.9), passa all’insulto e infine allo scherno (v.11). Il verbo greco tradotto con insultare in realtà vuol dire lo annientò. Per Erode al quale interessavano solo i miracoli (Lc 9,9), Gesù non conta più niente.

Luca vuole mettere in guardia coloro che cercano Gesù solo come facitore di prodigi: non riceveranno alcuna risposta. Non troveranno ciò che cercano perché egli non si presta a questo gioco. Il cristianesimo è il luogo dell’ascolto della Parola, è la religione dell’amore e del dono della vita per il fratello, non il mercato dove si comprano i prodigi. Gesù chiama chi pensa in questo modo: “gente perversa e senza fede” (Mt 16,4).

Luca è l’evangelista che, più di ogni altro, parla delle donne che, durante la vita pubblica, accompagnavano il Maestro (Lc 8,1-3). Egli è anche l’unico che dice che, lungo la via verso il Calvario, Gesù incontra un gruppo di donne che piangono e si battono il petto (Lc 23,27-31). Esse non sono responsabili di quanto sta accadendo, piangono per colpe di altri.

Sottolineando questo particolare, Luca vuole, ancora una volta, prendere le difese dei deboli, di coloro che pagano le conseguenze dei peccati di altri. Sono gli uomini che, tante volte, combinano disastri, scatenano guerre, provocano violenze e chi ne porta le conseguenze, chi piange sono le donne.

Tutti gli evangelisti dicono che Gesù fu crocifisso assieme a due banditi. Non si trattava di ladruncoli, ma di criminali che avevano ucciso persone.

Matteo e Marco riferiscono che ambedue insultavano Gesù. Luca invece narra il fatto in modo diverso. Dice che uno lo oltraggiava, ma l’altro no, anzi, rimproverava il suo compagno e, chiamando Gesù per nome, gli chiese: “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Il Signore morente gli rispose: “Oggi sarai con me in paradiso”.

All’inizio del Vangelo di Luca Gesù compare fra pastori: gli ultimi, le persone disprezzate, gli impuri di Israele.

Poi trascorre la sua vita pubblica in mezzo ai pubblicani, ai peccatori, alle prostitute.

Alla fine con chi muore: non con i santi. Anche alla fine – c’era da aspettarselo – si trova fra coloro che più ha amato: i peccatori. Sulla croce ha al fianco due poveri infelici che hanno sbagliato tutto nella vita. È venuto da Dio, ha compiuto il suo pellegrinaggio su questa terra e ora torna al Padre. Torna con uno che rappresenta tutti gli uomini: un peccatore recuperato dal suo amore.

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Un commento

  1. Sebehatu Petros 13 aprile 2019

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