Fernando Armellini: Pasqua, II domenica C

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Difficile credere, anche per chi ha visto

“Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete” – ha detto un giorno Gesù (Lc 10,23). I discepoli che hanno accompagnato il Maestro durante tutta la vita pubblica sono chiamati da Luca testimoni degli avvenimenti successi tra noi (Lc 1,1-2). E’ innegabile, sono beati perché hanno visto. Fra di loro c’è anche Tommaso.

Eppure quest’esperienza è stata solo la prima tappa di un cammino impegnativo, quello che li doveva portare alla fede.

Tanti che come loro hanno visto non sono giunti a credere, basti pensare ai “guai” pronunciati da Gesù contro le città del lago che hanno assistito ai segni da lui compiuti e non si sono convertite (Lc 10,13-15). Il vedere è causa di beatitudine, ma non è sufficiente.

Dopo la Pasqua, il Signore – che non può più essere visto da occhi materiali – proclama un’altra beatitudine: “Beati coloro che non hanno visto, eppure hanno creduto”. Sono beati se, mediante l’ascolto, giungono alla stessa meta, la fede. A costoro Pietro rivolge parole commoventi: “Senza averlo visto, voi lo amate; sebbene non lo vediate ora, credete in lui e godete di gioia ineffabile e sublime” (1 Pt 1,8).

E’ la gioia assicurata a chi si fida della Parola, non quella degli uomini, ma quella di Cristo, contenuta nelle Scritture e consegnata alla chiesa dagli apostoli – come ci ricorda Giovanni nella conclusione del suo Vangelo.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Beati noi che, pur non avendo visto, crediamo”.

Prima Lettura (At 5,12-16)

12 Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; 13 degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. 14 Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore 15 fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. 16 Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.

La lettura descrive la vita della prima comunità cristiana di Gerusalemme. Vediamone le caratteristiche perché esse dovrebbero essere riprodotte nelle nostre comunità di oggi.

Era anzitutto una comunità unita: “Erano soliti stare insieme” (v.12).

La fede cristiana non può essere vissuta in solitudine, nell’isolamento dagli altri. Il cristiano non è uno che se la intende direttamente e da solo con Dio. La chiesa non è il luogo dove ogni singolo fedele va a prendere ciò di cui ha bisogno per salvare la propria anima. I cristiani costituiscono una famiglia, sono solidali gli uni con gli altri e, in qualche modo, si sentono responsabili di tutto ciò che accade ai loro fratelli.

Oggi, anche noi ci raduniamo per pregare, come facevano i primi cristiani di Gerusalemme. Durante la celebrazione ci stringiamo la mano, ci sorridiamo, uniamo le nostre voci per lodare il Signore, preghiamo gli uni per gli altri. E’ bello, è un segno di ciò che dovremmo essere sempre, non solo dentro la chiesa, ma anche fuori.

La seconda caratteristica dei primi cristiani: erano persone stimate. “Il popolo li esaltava” (v.13). La vita di coloro che avevano abbracciato la fede suscitava interesse ed ammirazione perché era radicalmente diversa da quella degli altri uomini. Non agivano per ostentare la propria integrità e superiorità morale. Anche per questo chi li osservava non era irritato, disturbato da questa vita singolare, ma invogliato a imitarla.

La terza caratteristica è la forte attrattiva che la comunità primitiva esercitava su tutti: “Andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore” (v.14).

Che cosa spingeva tante persone a divenire discepole di Cristo? Lo chiarisce la seconda parte della lettura (vv.15-16): “La folla… accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti”. Si noti che non si tratta di prodigi curiosi e strani; sono ben diversi da quelli attribuiti agli stregoni, ai fattucchieri, ai maghi di oggi. I gesti compiuti dagli apostoli sono gli stessi che ha compiuto Gesù, sono le opere in favore dell’uomo: la cura dei malati, la salvezza di chi è oppresso dal male o vive in uno stato di infelicità. Questa è la prova che Gesù è vivo ed ha comunicato ai discepoli la sua stessa forza risanatrice.

Seconda Lettura (Ap 1,9-11a.12-13.17-19)

9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù. 10 Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: 11 Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese. 12 Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro 13 e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. 17 Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo 18 e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. 19 Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo.

La lettura ci presenta la visione con cui si apre il libro dell’Apocalisse. L’autore – che si identifica come Giovanni – dice di trovarsi a Patmos, un’isola del mare Egeo. E’ stato deportato là a causa della sua fede in Cristo, probabilmente a causa del suo rifiuto di rendere culto all’imperatore.

I tempi sono difficili. Siamo negli anni in cui a Roma regna Domiziano, un megalomane che ha riempito l’impero delle sue statue, che sull’esempio di Giulio Cesare e di Augusto ha dato il suo nome a un mese dell’anno e ha chiamato Domizio il mese di ottobre in cui è nato, che ha fatto erigere ovunque templi in suo onore, che ha stabilito che ogni circolare emanata in suo nome cominci con le parole: “Domiziano, il nostro signore e il nostro dio ordina che…”.

Questa pretesa dell’imperatore di essere adorato come un dio suscita conflitti di coscienza nei cristiani dell’Asia Minore; molti di loro rifiutano e per questo vanno incontro ad angherie e soprusi. Per incoraggiarli a rimanere saldi nella fede, l’autore dell’Apocalisse scrive la sua visione e utilizza delle immagini che, per essere capite, hanno bisogno di una spiegazione.

Giovanni vede un figlio d’uomo in mezzo a sette candelabri; ha una veste bianca che gli arriva fino ai piedi ed è cinto con una fascia d’oro (vv.12-13).

Il figlio dell’uomo è il Signore risorto. La veste lunga – che era la divisa dei sacerdoti del tempio – indica che Gesù ora è l’unico sacerdote. La fascia d’oro ai fianchi era il simbolo della regalità. Gesù, dunque, è indicato come l’unico re. I sette candelabri rappresentano l’insieme delle comunità cristiane (il numero sette indica la totalità). Va ricordato anche che, in Oriente, durante le cerimonie in onore dell’imperatore, si era soliti prostrarsi davanti ad una sua immagine, collocata in mezzo a dei candelabri.

Il senso di questa scena grandiosa è il seguente: il Signore risorto, non l’imperatore, sta al centro dell’adorazione di tutte le comunità cristiane. E’ lui il re che le guida e le governa con la sua parola; è lui il sacerdote che, donando la propria vita, offre l’unico sacrificio gradito a Dio.

L’autore dell’Apocalisse rivolge a tutte le comunità cristiane l’invito a fare una verifica e a chiedersi chi collocano al centro dei loro incontri nel giorno del Signore: è il Risorto e la sua Parola o sono altre persone e altre parole? Vuole che si chiedano a chi rendono culto, a quale re obbediscono: a Cristo o al potente di turno?

Vangelo (Gv 20,19-31)

19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. 20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. 22 Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; 23 a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

 24 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.

 26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. 27 Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. 28 Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. 29 Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”.

30 Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. 31 Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Il brano di oggi è diviso in due parti che corrispondono alle apparizioni del Risorto. Nella prima (vv.l9-23) Gesù comunica ai discepoli il suo Spirito e con esso dà loro il potere di vincere le forze del male. E’ lo stesso brano che ritroveremo e commenteremo a Pentecoste. Nella seconda (vv.24-31) è raccontato il famoso episodio di Tommaso.

Il dubbio di questo apostolo è diventato proverbiale. A chi manifesta qualche diffidenza si è soliti dire: “Sei incredulo come Tommaso!”. Eppure, a ben vedere, non pare abbia fatto nulla di male: chiedeva solo di vedere ciò che gli altri avevano visto. Perché pretendere solo da lui una fede basata sulla parola?

Ma davvero Tommaso è stato l’unico ad avere dubbi, mentre gli altri discepoli sarebbero arrivati in modo facile e immediato a credere nel Risorto? Non pare proprio che le cose siano andate così.

Nel Vangelo di Marco si dice che Gesù apparve agli undici “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato” (Mc 16,14). Nel Vangelo di Luca il Risorto si rivolge agli apostoli stupiti e spaventati e chiede: “Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” (Lc 24,38). Nell’ultima pagina del Vangelo di Matteo si dice addirittura che quando Gesù apparve ai discepoli su un monte della Galilea (quindi molto tempo dopo le apparizioni a Gerusalemme) alcuni ancora dubitavano (Mt 28,17).

Tutti dunque hanno dubitato, non soltanto il povero Tommaso! Come mai allora l’evangelista Giovanni sembra voler concentrare su di lui i dubbi che invece hanno attanagliato anche gli altri? Vediamo di capire.

Quando Giovanni scrive (verso l’anno 95 d.C.) Tommaso è morto da tempo, dunque, l’episodio non è certo riferito per mettere in cattiva luce questo apostolo. Se vengono posti in risalto i problemi di fede che ha avuto, la ragione è un’altra: l’evangelista vuole rispondere agli interrogativi ed alle obiezioni che i cristiani delle sue comunità sollevano con crescente insistenza. Si tratta di cristiani della terza generazione, di persone che non hanno visto il Signore Gesù. Molti di loro non hanno nemmeno conosciuto qualcuno degli apostoli. Fanno fatica a credere, si dibattono in mezzo a tanti dubbi, vorrebbero vedere, toccare, verificare se il Signore è veramente risorto. Si chiedono: quali sono le ragioni che ci possono indurre a credere? E’ ancora possibile per noi fare l’esperienza del Risorto? Ci sono delle prove che egli è vivo? Come mai non appare più? Sono le domande che anche noi oggi ci poniamo.

Ad esse, Marco, Luca e Matteo rispondono dicendo che tutti gli apostoli hanno avuto esitazioni. Non sono arrivati né subito né con facilità a credere nel Risorto. Anche per loro il cammino della fede è stato lungo e faticoso, malgrado Gesù abbia dato tanti segni che era vivo, che era entrato nella gloria del Padre.

La risposta di Giovanni è diversa. Egli prende Tommaso come simbolo della difficoltà che ogni discepolo incontra per arrivare a credere nella risurrezione di Gesù. Difficile sapere la ragione per cui ha scelto proprio questo apostolo. Forse perché ha avuto più difficoltà o ha impiegato più tempo degli altri ad avere fede.

Ciò che Giovanni vuole insegnare ai cristiani delle sue comunità (e a noi) è questo: il Risorto possiede una vita che sfugge ai nostri sensi, una vita che non può essere toccata con le mani né vista con gli occhi. Può solo essere raggiunta mediante la fede. Questo vale anche per gli apostoli che pure hanno fatto un’esperienza unica del Risorto.

Non si può aver fede in ciò che si è visto. Non si possono avere dimostrazioni, prove scientifiche della risurrezione. Se qualcuno pretende di vedere, constatare, toccare deve rinunciare alla fede.

Noi diciamo: “Beati coloro che hanno visto”. Per Gesù invece beati sono coloro che non hanno visto. Non perché a loro costa di più credere e quindi hanno meriti maggiori. Sono beati perché la loro fede è più genuina, più pura, anzi, è l’unica fede pura. Chi vede ha la certezza dell’evidenza, possiede la prova inconfutabile di un fatto.

Tommaso compare altre due volte nel Vangelo di Giovanni e non fa mai – diremmo noi – una gran bella figura. Ha sempre difficoltà a capire, equivoca, fraintende le parole e le scelte del Signore.

Interviene una prima volta quando, ricevuta la notizia della morte di Lazzaro, Gesù decide di andare in Giudea. Tommaso pensa che seguire il Maestro significhi perdere la vita. Non comprende che Gesù è il Signore della vita e, sconsolato e deluso, esclama: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16).

Durante l’ultima cena Gesù parla della via che egli sta percorrendo, una via che passa attraverso la morte per introdurre nella vita. Tommaso interviene di nuovo: “Signore non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?” (Gv 14,5). E’ pieno di perplessità, di esitazioni e di dubbi, non riesce ad accettare ciò che non capisce. Lo dimostra una terza volta nell’episodio narrato nel brano di oggi.

Sembra quasi che Giovanni si diverta a tratteggiare in questo modo la figura di Tommaso. Ma alla fine gli rende giustizia: mette sulla sua bocca la più alta, la più sublime delle professioni di fede. Nelle sue parole è riflessa la conclusione dell’itinerario di fede dei discepoli.

All’inizio del Vangelo, i primi due apostoli si rivolgono a Gesù chiamandolo Rabbì (Gv 1,38). E’ il primo passo verso la comprensione dell’identità del Maestro. Non passa molto tempo e Andrea che ha già capito molto di più dice a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1,41). Natanaele intuisce subito con chi ha a che fare e dichiara a Gesù: “Tu sei il Figlio di Dio” (Gv 1,49). I samaritani lo riconoscono come il salvatore del mondo (Gv 4,43), la gente come il profeta (Gv 6,14), il cieco nato lo proclama Signore (Gv 9,38), Pilato re dei Giudei (Gv 19,19). Ma è Tommaso a dire l’ultima parola sull’identità di Gesù, lo chiama: Mio Signore e mio Dio. Un’espressione che la Bibbia riferisce a YHWH (Sal 35,23). Tommaso è dunque il primo a riconoscere la divinità di Cristo, il primo che arriva a capire cosa intendeva dire Gesù quando affermava: “Io e il Padre siamo uno” (Gv 10,30).

La conclusione del brano (vv.30-31) presenta la ragione per cui Giovanni ha scritto il suo libro: ha raccontato dei “segni” – non tutti, ma quelli sufficienti – per due ragioni: per suscitare o confermare la fede in Cristo e perché, attraverso questa fede, si giunga alla vita.

Il quarto evangelista chiama i miracoli segni. Gesù non li ha compiuti per impressionare coloro che vi assistevano, anzi ha avuto parole di condanna nei confronti di chi non credeva se non vedeva prodigi (Gv 4,48) e Giovanni non li racconta per stupire i suoi lettori, per “dimostrare” il potere divino che Gesù possedeva.

I segni non sono prove, ma rivelazioni sulla persona di Gesù, sulla sua natura e sulla sua missione. Arriva a credere in modo solido e duraturo chi, dal fatto materiale, si eleva alla realtà che esso indica. Non comprende il segno chi nella distribuzione dei pani non coglie che Gesù è il pane della vita, o nella guarigione del cieco nato non riconosce che Gesù è la luce del mondo, o nella rianimazione di Lazzaro non vede in Gesù il Signore della vita.

Nell’epilogo del suo Vangelo, Giovanni usa la parola segni in senso ampio: intende tutta la rivelazione della persona di Gesù, i suoi gesti di misericordia (le guarigioni, la moltiplicazione dei pani) e le sue parole (Gv 12,37). Chi legge il suo libro e comprende questi segni si trova davanti, nitida, la persona di Gesù ed è invitato a fare una scelta. Sceglierà la vita chi riconoscerà in lui il Signore e gli darà la sua adesione.

Eccola l’unica prova che è offerta a chi cerca ragioni per credere: lo stesso Vangelo. Lì risuona la parola di Cristo, lì rifulge la sua persona. Non ci sono altre prove all’infuori di questa stessa Parola.

Per capire, è utile richiamare quanto Gesù dice nella parabola del buon Pastore: “Le mie pecore riconoscono la mia voce” (Gv 10,4-5.27). Non occorrono apparizioni! Nel Vangelo risuona la voce del Pastore e, per le pecore che gli appartengono, il suono della sua voce basta per farlo riconoscere e per attirare a lui.

Ma dove si può ascoltare questa voce? Dove risuona questa parola? E’ possibile ripetere oggi l’esperienza che gli apostoli hanno fatto nel giorno di Pasqua e “otto giorni dopo”? Come?

Avremo sicuramente notato che ambedue le apparizioni avvengono di domenica. Avremo notato anche che coloro che fanno l’esperienza del Risorto sono gli stessi (…uno più, uno meno), che il Signore si presenta con le stesse parole: “La pace sia con voi” e che in ambedue gli incontri Gesù mostra i segni della sua passione. Ci sarebbero altri particolari, ma bastano questi quattro per aiutarci a rispondere alle domande che ci siamo appena posti.

I discepoli si trovano riuniti in casa. L’incontro al quale Giovanni allude è chiaramente quello che avviene nel giorno del Signore, quello in cui, ogni otto giorni, tutta la comunità viene convocata per la celebrazione dell’eucaristia. Quando tutti i credenti sono riuniti, ecco comparire il Risorto. Egli, per bocca del celebrante, saluta i discepoli e augura, come nella sera di Pasqua e “otto giorni dopo”: La pace sia con voi.

In quel momento Gesù si manifesta vivo ai discepoli.

Chi, come Tommaso, diserta gli incontri della comunità, non può fare l’esperienza del Risorto (vv.24-25), non può udire il suo saluto e la sua Parola, non può accogliere la sua pace e il suo perdono (vv.19.26.23), sperimentare la sua gioia (v.20), ricevere il suo Spirito (v.22). Chi nel giorno del Signore rimane in casa, foss’anche per pregare da solo, può sì fare l’esperienza di Dio, ma non quella del Risorto, perché questi si rende presente là dove la comunità è radunata.

E chi non incontra il Risorto che fa? Come Tommaso avrà bisogno di prove per credere, ma di prove non ne otterrà mai.

Contrariamente a quanto si vede raffigurato nei quadri degli artisti, nemmeno Tommaso ha messo le mani nelle ferite del Signore. Dal testo non risulta che egli abbia toccato il Risorto. Anch’egli è giunto a pronunciare la sua professione di fede dopo aver ascoltato la voce del Risorto, assieme ai fratelli della comunità. E la possibilità di fare questa esperienza è offerta ai cristiani di tutti i tempi… ogni otto giorni.

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