Giovedì Santo: Gesù, pane spezzato

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Tra i tanti nomi con cui è stato chiamata l’eucaristia, quello che meglio esprime il senso e la ricchezza del sacramento è lo spezzar del pane.

I discepoli di Emmaus riconoscono il Signore “nello spezzare il pane” (Lc 24,35), la comunità di Gerusalemme partecipa assiduamente alla catechesi degli apostoli e “allo spezzare del pane”, a Troade ci si riuniva “il primo giorno della settimana a spezzare il pane” (At 20,7).

Come mai i primi cristiani erano così affezionati a questa espressione? Quali ricordi, quali emozioni risvegliava in loro?

Il pasto dei pii israeliti iniziava sempre con una benedizione sul pane. Il capofamiglia lo prendeva tra le mani, lo spezzava e lo offriva ai commensali.

Non poteva essere mangiato prima di essere spezzato e condiviso con tutti i presenti.

Fin da bambino Gesù ha osservato Giuseppe compiere devotamente, ogni giorno, questo rito sacro ed egli stesso, divenuto adulto, lo ha ripetuto più volte: a Nazaret, quando suo padre è venuto a mancare e, durante la vita pubblica, ovunque fosse invitato a mensa.

Una sera, a Gerusalemme, lo ha rivestito di un significato nuovo.

Durante l’ultima cena prese del pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Questo sono io. Prendete, mangiate!.

Parole arcane, enigmatiche che i discepoli compresero solo dopo la Pasqua.

Al termine della sua “giornata”, il Maestro aveva riassunto in quel gesto tutta la sua storia, tutta la sua vita donata.

Non aveva offerto qualcosa, ma se stesso. Aveva consegnato la sua persona in alimento. Ogni briciola della sua esistenza era stata donata per saziare la fame dell’uomo: fame di Dio e della sua parola, fame di senso della vita, di felicità, di amore.

Commosso davanti alle “pecore senza pastore” si era seduto a insegnare molte cose: aveva spezzato il pane della Parola (Mc 6,33-34). A chi aveva fame di perdono aveva offerto i segni della tenerezza di Dio.

A Gerico nessuno immaginava che Zaccheo avesse fame. Nessuno si era dimostrato sensibile alla sua richiesta di comprensione e di accoglienza; nessuno tranne Gesù che vide, nascosto tra le foglie di un sicomòro, colui che si vergognava di essere visto. Entrò nella sua casa e lo saziò di amore e di gioia.

Sulla mensa eucaristica, durante ogni celebrazione, Gesù ripresenta – nel segno del pane – tutta la sua vita e chiede di essere mangiato.

Nel mondo gli uomini “si mangiano”. Lottano per sopraffarsi e asservire, “si divorano” per accaparrarsi i beni e dominare. Ha successo chi, in questa competizione per il cibo, si dimostra il più forte.

Gesù ha rivoluzionato questo modo preumano di relazionarsi.

Invece di “mangiare” gli altri, di lottare per la conquista dei regni di questo mondo – come gli aveva suggerito il maligno – si è fatto mangiare.

È da questo dono di se stesso come alimento che ha avuto inizio l’umanità nuova.

Il gesto di porre su una mensa, di fronte a una persona affamata, una pagnotta e una coppa di vino è un chiaro invito non a guardare o a contemplare, ma a sedersi, prendere, mangiare e bere.

Sull’altare, il pane eucaristico è una proposta di vita: mangiarlo significa unirsi a Gesù, accettare di divenire con lui pane e offrirsi in alimento a chiunque abbia fame.

“Noi non possiamo stare senza la cena del Signore”. “Sì, sono andata all’assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana”.

Pronunciate dai martiri di Abitine, nell’Africa proconsolare, queste parole rivelano la passione con cui, fin dai primi secoli, i cristiani hanno partecipato allo spezzar del pane domenicale. Era per loro un’esigenza irrinunciabile. Avevano compreso che quello era il segno distintivo dei discepoli del Signore Gesù.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Non possiamo stare senza la cena del Signore.

Prima lettura (Es 12,1-8.11-14)

1 Il Signore disse a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto:
2 “Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
3 Parlate a tutta la comunità di Israele e dite:
Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. 4 Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne. 5 Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre 6 e lo serberete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. 7 Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case, in cui lo dovranno mangiare. 8 In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
11 Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la pasqua del Signore! 12 In quella notte io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d’Egitto, uomo o bestia; così farò giustizia di tutti gli dei dell’Egitto. Io sono il Signore! 13 Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando io colpirò il paese d’Egitto.
14 Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne”.

Ogni popolo ricorda i momenti gloriosi della propria storia e tende a fissarli in riti che hanno lo scopo di evocare e, in certo qual modo, di far rivivere gli eventi del passato. Esempi di questi riti sono la parata militare, le salve di cannone, i discorsi commemorativi, l’inaugurazione di monumenti.

A Israele il Signore ha raccomandato di non scordare i prodigi con cui è stato liberato dall’Egitto: “Bada bene, guardati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Dt 4,9).

Israele è un popolo che ricorda e quando proclama la propria fede non si addentra in ragionamenti, ma racconta: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto e vi stette come forestiero. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore… Egli ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso” (Dt 26,5-8).

“Per non dimenticare”, ogni anno, il quattordicesimo giorno del primo mese, celebra – con una cena – la liberazione dall’Egitto, la sua nascita come popolo.

Nel nostro brano sono puntualizzati i momenti di questo pasto: la scelta dell’agnello, la sua immolazione, lo spargimento del sangue sui due stipiti e sull’architrave delle case e il modo come deve essere cucinato e mangiato (vv. 1-8). È spiegata la funzione del sangue dell’agnello – segno che ha scampato gli israeliti dalla morte (vv. 11-13) – e infine viene data la disposizione: “Questo giorno sarà per voi un memoriale: lo celebrerete come festa del Signore di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne” (v. 14).

Durante la cena pasquale, ai commensali adagiati a mensa, il capofamiglia chiarisce il senso di ciò che stanno compiendo, perché – viene ricordato nell’Haggadah – “in ogni generazione ognuno deve considerarsi come se egli stesso in persona fosse uscito dall’Egitto, perché il Signore non ha liberato soltanto i nostri padri, ma insieme a loro anche noi”.

Gli israeliti non festeggiano un evento del passato, ma celebrano la loro personale liberazione. Nella Pasqua prendono coscienza della loro vocazione come popolo: hanno fatto l’esperienza della schiavitù, sono vissuti in terra straniera e Dio li ha scelti per annunciare al mondo che egli è liberatore, che non tollera alcuna forma di schiavitù e che ama e protegge il forestiero e chiunque sia sottoposto a vessazioni (Es 22,20).

Israele non ha tratto tutte le conseguenze dall’esperienza che ha fatto. Non è arrivato a “sciogliere tutte le catene inique, a spezzare i legami del giogo e a rimandare liberi gli oppressi” – come raccomandava il profeta (Is 58,6). Non ha ripudiato ogni forma di asservimento; ha solo mitigato la schiavitù praticata dagli altri popoli (Dt 15,12-18). Ha continuato a ritenere che la terra promessagli da Dio fosse quella che era riuscito a sottrarre ai cananei che l’abitavano.

Non ha compreso che la vera terra della libertà è un’altra: è quella in cui Cristo introduce tutti coloro che credono in lui e si fidano della sua parola.

Di questa liberazione e del banchetto eucaristico con cui i cristiani continuano a celebrarla, la Pasqua d’Israele era solo una pallida immagine (1 Cor 10,6.11).

Seconda lettura (1 Cor 11,23-26)

23 Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24 e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.
25 Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”.
26 Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.

Un certo linguaggio devozionale e intimistico, sviluppatosi lungo i secoli, ha contribuito ad offuscare e, a volte, addirittura a compromettere il senso autentico dell’Eucaristia.

Lo spezzar del pane non ha lo scopo di catturare Gesù per tenerlo più vicino, per poterlo adorare, ma perché sia alimento e bevanda.

Il cristiano che si ciba del pane eucaristico assume, davanti a Dio e alla comunità, un impegno solenne: si unisce a Cristo per formare con lui un solo corpo, come la sposa e lo sposo che “divengono una carne sola; sicché non sono più due, ma una sola carne” (Mc 10,7-8).

Sulla celebrazione eucaristica incombe però un grave pericolo: che venga sganciata dalla vita e si riduca a rito, a pia pratica cui si partecipa per dovere, ma di cui si può anche fare a meno.

Accade, purtroppo, che la vita sia una smentita del gesto compiuto con lo spezzar del pane. È per questo che ogni cristiano si sente interpellato dal severo ammonimento che Paolo rivolge alla comunità di Corinto e che precede il brano che ci viene proposto oggi nella lettura: “Non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1 Cor 11,17.20).

Cosa accadeva a Corinto?

C’erano dissolutezze sessuali, discordie e fazioni; ma ciò che più inquietava Paolo era un comportamento particolarmente scandaloso dei corinzi: quando si riunivano per la santa Cena, alcuni mangiavano e bevevano oltre misura mentre altri rimanevano senza cibo.

A Corinto – come in tutte le comunità primitive – l’Eucaristia non era celebrata in chiese, ma in case private che i cristiani benestanti mettevano a disposizione dei loro fratelli di fede.

La comunità di Corinto era composta nella quasi totalità da gente povera, braccianti, scaricatori di porto, schiavi. I ricchi, le persone influenti, i nobili erano pochi (1 Cor 1,26), ma si facevano notare per la loro alterigia e supponenza. Non si erano ancora resi conto che l’arroganza e l’ambizione sono incompatibili con l’Eucaristia.

Nelle giorno stabilito per lo spezzar del pane, questi amavano ritrovarsi, fin dalle prime ore del pomeriggio, in uno dei triclini delle loro ville; poi, adagiati su comodi divani, si abbandonavano a gozzoviglie mentre i loro fratelli erano al lavoro. Quando, sfiniti dalla fatica, questi si presentavano per la celebrazione, erano accolti con distacco e, a volte, addirittura erano scherniti.

Per mostrare quanto sia assurda e incompatibile con la fede in Cristo una simile condotta, Paolo richiama ai corinzi il significato dello spezzar del pane.

L’Eucaristia non è un alimento da consumarsi in solitudine: è pane spezzato e condiviso con i fratelli. Coloro che ne mangiano si identificano con Cristo; dichiarano di essere decisi a far proprio il suo gesto di amore e si impegnano a donare la vita ai fratelli, come egli ha fatto e questa scelta non la fanno come singoli, ma uniti in un unico corpo con la comunità.

È dunque inammissibile che, mentre si compie il gesto che indica comunione e totale disponibilità a donare se stessi, ci si comporti in modo altezzoso, insolente e si provochi divisione.

Una comunità che si riunisce per lo spezzar del pane con queste indegne disposizioni interiori “mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11,28-29); la sua celebrazione è una menzogna, un monumento all’ipocrisia.

Dopo il gesto sul pane – spiega ancora Paolo ai corinzi – Gesù prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (v. 25).

Nella cultura semitica, bere allo stesso calice significava dichiararsi disponibili a condividere lo stesso destino, fino alla morte.

L’invito di Gesù a bere al suo calice è la richiesta più impegnativa che egli fa al discepolo: gli chiede di fare, insieme con lui, la scelta risoluta del dono totale di sé.

Il rischio di perdere la vita spaventa, ma Gesù assicura: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25).

Vangelo (Gv 13,1-15)

1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
2 Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, 3 Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto.
6 Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”.
7 Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”.
8 Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi!”.
Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”.
9 Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”.
10 Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti”.
11 Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete mondi”.
12 Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15 Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”.

Si rimane sorpresi, leggendo il vangelo secondo Giovanni, dal fatto che in esso non è raccontata l’istituzione dell’Eucaristia che invece è riferita da tutti gli altri evangelisti.

Questa lacuna stupisce ancor più se si tiene presente che, al tema del “Pane della vita”, Giovanni ha dedicato un intero capitolo (Gv 6) e che il racconto dell’ultima cena occupa un quarto del suo vangelo (Gv 13-17). Come mai in questi cinque capitoli non ha neppure accennato al fatto più importante?

Non è stata una dimenticanza. L’omissione è voluta e, se si considera l’episodio con cui è stata sostituita, si comprende anche l’obbiettivo che Giovanni intendeva raggiungere.

Al posto dell’istituzione dell’Eucaristia, egli ha inserito la lavanda dei piedi, un fatto che gli altri evangelisti ignorano, ma che per lui ha somma importanza.

Con questa sostituzione voleva far comprendere ai cristiani delle sue comunità che Eucaristia e lavanda dei piedi sono, in certo qual modo, intercambiabili, si intrecciano, sono collegate, non possono essere capite se non l’una in rapporto con l’altra.

La lavanda dei piedi chiarisce il significato dello spezzar del pane, mette in evidenza che cosa comporta per il discepolo entrare in comunione con il corpo e il sangue di Cristo nell’Eucaristia.

L’introduzione del racconto è solenne.

Inizia con l’indicazione di tempo: stava approssimandosi la Pasqua, la festa che celebra il passaggio dalla schiavitù alla libertà.

Gesù sta per realizzare la sua Pasqua. È giunto il momento del suo esodo, del passaggio da questo mondo al Padre: deve immergersi nelle acque profonde e buie della passione e della morte per tracciare il cammino che introdurrà tutti gli uomini nella terra della libertà.

Dopo il richiamo alla Pasqua, viene ricordata l’ora, quell’ora misteriosa cui Giovanni ha già fatto riferimento più volte nel suo vangelo.

Il primo rintocco è risuonato a Cana quando Gesù ha detto alla madre: “Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). In seguito, a Gerusalemme, si sono uditi altri rintocchi: nessuno è riuscito a mettere le mani su Gesù “perché non era ancora giunta la sua ora” (Gv 7,30; Gv 8,20). Pochi giorni prima della sua passione Gesù annuncia che l’ora sta per scoccare: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo… L’anima mia è turbata. E che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,23.27).

È il momento da lui tanto atteso, quello in cui, dopo aver amato immensamente i suoi, gli è offerta l’opportunità di dare la prova massima del suo amore con il dono della vita.

Dopo un accenno alla cena e a Giuda – il discepolo che, mosso dal maligno, stava per consegnare il Maestro ai sommi sacerdoti – il racconto riprende con un tono molto solenne: “Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava”.

Perché questo lungo giro di parole? Sembra eccessivo il richiamo all’autorità di Gesù, alla sua origine divina, al suo destino finale per introdurre una – apparentemente banale – lavanda dei piedi.

Il testo risulta ridondante solo se non ci si rende conto del significato rivoluzionario del gesto compiuto da Gesù. Per Giovanni il fatto è di una importanza eccezionale: colui che sta per abbassarsi al livello dello schiavo è nientemeno che il Signore, l’Unigenito vedendo il quale si vede il Padre (Gv 14,9).

Prima e durante i pasti rituali, i pii Israeliti erano soliti compiere abluzioni con l’acqua. Al capotavola le mani venivano lavate da un servo o dal più giovane dei convitati.

Durante l’ultima cena accade qualcosa di inaudito. Nella mente dell’evangelista il fatto è rimasto scolpito in modo così nitido e indelebile da essere ricordato fin nei minimi dettagli.

Sotto gli sguardi attoniti dei discepoli, Gesù si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugatoio, se lo cinge attorno alla vita; poi versa dell’acqua nel catino e comincia a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si è cinto.

Tutto si svolge in silenzio.

Tacciono i discepoli: la scena cui stanno assistendo è tanto sorprendente da lasciarli allibiti. Non credono ai loro occhi: Gesù si è tolto le vesti – come fanno gli schiavi – e non lava le mani, ma i piedi; si sottopone a un gesto tanto umiliante che un giudeo, ridotto in schiavitù, doveva rifiutarsi di eseguire per non disonorare il suo popolo.

Gesù lo compie: lui, Dio.

Lo stupore dei discepoli è comprensibile: sono vissuti per tre anni accanto a Gesù, lo hanno riconosciuto come il Cristo e attendono impazienti che egli porti a compimento le Scritture. Hanno appreso che il Messia “dominerà da mare a mare… lambiranno la polvere i suoi nemici… Davanti a lui tutti i re si prostreranno e lo serviranno tutte le nazioni” (Sl 72,8-11).

Ora, nel cenacolo queste loro speranze di gloria si dissolvono, impietosamente demolite dalla scena che lentamente sta svolgendosi sotto il loro occhi.

Durante l’ultima cena, il Dio “venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14) ha scoperto le carte e ha mostrato la sua vera identità. Nel gesto della lavanda dei piedi i discepoli hanno potuto leggere, indicata a chiare lettere, la sua professione: non padrone, ma “schiavo”.

Impossibile immaginare una rivelazione di Dio più sorprendente. Eppure questo Dio‑servo è l’unico vero, tutti gli altri sono idoli creati dalla mente dell’uomo.

Ora cominciamo a intuire la ragione dell’importanza che Giovanni ha attribuito a questo episodio.

Lavando i piedi dei discepoli, Gesù ha distrutto per sempre l’immagine che gli uomini si erano fatta di Dio: il Dio grande sovrano seduto in trono; il Dio che pretende adorazioni, ossequi, atti di sottomissione da parte dei sudditi; il Dio che esige obbedienza e rispetto altrimenti si indigna e reagisce con rappresaglie e punizioni; il Dio dominatore che annienta coloro che osano schierarsi contro di lui.

Gesù rende presente un Dio dal volto completamente diverso: è il Dio che si pone in ginocchio davanti all’uomo, sua creatura. Lo colloca su un piedestallo mentre lui – l’Onnipotente – gli si prostra davanti per servirlo. Questo è l’unico Dio in cui siamo invitati a credere. Prendere o lasciare!

Di fronte a questa scena – che provoca vertigini – si rivelano grottesche, patetiche le nostre competizioni per ottenere baciamani, inchini, titoli onorifici, riconoscimenti. Appaiono meschini i nostri conflitti per raggiungere posizioni sempre più elevate.

Pietro comprende che il Maestro sta introducendo nel mondo un principio che scombina tutti gli schemi dettati dal buon senso, stravolge tutti i criteri di giudizio accolti come logici dagli uomini.

Non ci sta. Non può ammettere che i superiori, i più dotati, coloro che, con pieno merito, riescono a emergere e a farsi una posizione prestigiosa, debbano ritenersi servi degli ultimi.

Reagisce e, a nome di tutti, prima chiede stupito: “Signore, tu lavi i piedi a me?”; poi oppone un rifiuto categorico: “Tu non mi laverai mai i piedi!”.

Non accetta che il Maestro compia quel gesto.

Gesù non si meraviglia della sua incapacità di comprendere: la logica del servizio gratuito e incondizionato è lontana dai pensieri degli uomini come il cielo dalla terra. Non sorprende che sia inaccettabile per Pietro che – come Gesù gli ha già fatto notare – non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini (Mc 8,33).

“Se non ti laverò, non avrai parte con me” – gli dice.

Non è un rimprovero e neppure un invito ad accettare, come norma della propria vita, il gesto compiuto dal Maestro. Sarebbe pretendere troppo da un discepolo sconcertato e titubante.

Gesù non gli dice: “Se non accetti di lavare i piedi ai fratelli, tu non hai nulla a che vedere con me”, ma: “Se io non ti lavo i piedi”.

È Gesù – non Pietro – che deve lavare i piedi.

A Pietro è chiesto soltanto di non impedire a Dio di rivelare la propria identità di schiavo dell’uomo. Se glielo impedisse non otterrebbe la salvezza.

Essere salvati, infatti, significa lasciarsi liberare dalla convinzione che ci si umanizza salendo, dominando, facendosi servire.

Chi ripudia questa proposta suggerita dal maligno e sceglie – come fa Dio – di essere servo di tutti è salvo.

La salvezza è giunta all’uomo quando Gesù ha realizzato la discesa cantata nel celebre inno della Lettera ai filippesi: “Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso,  assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5-8).

Concluso il dialogo con Pietro, il racconto prosegue con la descrizione dettagliata dei gesti compiuti da Gesù: “Riprese le vesti, sedette di nuovo…”.

Ogni movimento è accuratamente rilevato dall’evangelista ed è carico di simbolismo.

Gesù aveva deposto le vesti, gesto che indicava la sua identità di schiavo. Erano gli schiavi infatti che indossavano abiti succinti per essere più liberi nei movimenti.

Ora Gesù riprende le vesti e si siede.

Ambedue questi gesti richiamano la condizione della persona libera (gli schiavi non si mettevano tuniche ingombranti e rimanevano in piedi, pronti a scattare agli ordini del padrone).

Dopo aver donato la propria vita servendo l’uomo, Gesù è entrato nella condizione gloriosa del cielo e il Padre lo ha fatto sedere alla sua destra.

Si noti però un dettaglio che rischia di passare inosservato: Giovanni non dice che Gesù si è tolto il grembiule prima di rimettersi le vesti. Questo capo di vestiario gli è rimasto addosso, lo porta anche in paradiso. Non è venuto sulla terra per recitare la parte del servo e tornare in cielo a fare il padrone.

Rimane sempre servo perché questa è l’identità di Dio.

Il grembiule è il simbolo del servizio, è la divisa che il cristiano non può mai deporre, deve indossarla ventiquattro ore su ventiquattro. In ogni momento un fratello può avere bisogno di lui ed egli deve essere sempre disponibile a correre in suo aiuto.

È da questo grembiule e non da altre divise che sono riconoscibili i discepoli autentici.

Pochi versetti più avanti Gesù ripresenta, in forma di testamento, il punto centrale di questa sua proposta di vita: “Vi dono un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).

Discepolo è colui che segue le orme del Maestro.

“Abbiate in voi stessi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” – raccomanda Paolo ai filippesi (Fil 2,5).

Vi ho dato l’esempio – dice Gesù – affinché come ho fatto io facciate anche voi.

Egli “non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mc 10,45). Anche i suoi discepoli, sul suo esempio, sono chiamati a divenire servi.

Ora possiamo riprendere il tema dell’Eucaristia.

La lavanda dei piedi ci ha fatto comprendere che cosa comporta il gesto di accostarsi all’altare per “comunicare al pane eucaristico”. Significa accettare coscientemente di identificarsi con colui che, per tutta la sua vita, ha indossato il “grembiule”. Mangiare il suo corpo e bere il suo sangue vuol dire divenire un corpo solo con lui.

Nella seconda lettura, Paolo raccomandava che, prima dello spezzar del pane, ciascuno facesse un accurato esame di coscienza. La domanda, l’unica domanda che ci si deve porre e che riassume tutti gli impegni della vita cristiana è: ho sempre indossato il “grembiule” oppure sono nudo e, come Pietro sul lago di Tiberiade (Gv 21,7), ho bisogno di rivestirmi prima di andare incontro a Cristo?

“Un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (vv. 16-17).

Il brano che la liturgia di oggi ci propone non include questi due versetti. Li riprendiamo lo stesso perché costituiscono la conclusione di tutto il racconto.

Spogliarsi, farsi schiavi, mettere il grembiule. È un cammino che sembra avere come meta ultima il dolore, l’umiliazione e la morte.

Una certa spiritualità del passato ha difatti presentato l’adesione a Cristo come una ricerca della sofferenza e il dolore come un mezzo per piacere a Dio. Da qui è derivata la convinzione che la vita cristiana non sia fonte di gioia, ma di angoscia e paura.

L’uomo cerca la felicità. È Dio che gli ha posto nel cuore questo incontenibile desiderio. Difficile è però individuare il cammino per raggiungerla ed è facile puntare su obbiettivi sbagliati e ritrovarsi delusi e avviliti. Si pecca quando si punta su una felicità illusoria. Il vangelo è lieta notizia, propone la beatitudine. Contro tutte le logiche umane, Gesù garantisce a coloro che si fidano della sua proposta: “Sarete beati!”. Ecco la sorpresa: il dono di sé è l’unico cammino che porta alla gioia. È la prima delle due beatitudini che si trovano nel vangelo di Giovanni. La seconda Gesù la rivolgerà a Tommaso: “Beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20,29). Due beatitudini: una per chi pratica la carità, l’altra per chi ha la fede.

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