Giovedì Santo: “Vi ho dato un esempio”

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Triduo d’amore

Nell’unico giorno pasquale coi tre spicchi rigonfi d’amore plurale, la Chiesa entra nel talamo delle nozze tra lo sposo e la sua sposa. È un talamo sontuoso, ricco d’amore e di donazione. Un talamo oneroso, in cui lo Sposo dona tutto se stesso, fino all’effusione del sangue.

La vita donata dello sposo è anticipata nel segno del banchetto pasquale della sera e vissuta esistenzialmente nella notte. È la notte della Passione.

Il re-sposo infine “dorme” e libera gli uomini che giacciono nelle tenebre e che, da tanto tempo, attendono il redentore. È il tempo del silenzio e dell’espansione universale della redenzione.

La risurrezione segna il passaggio pasquale del re-sposo dalla morte alla vita, da questo mondo al Padre. Il frutto dell’amore pasquale, con i suoi tre spicchi gonfi di donazione, si apre all’effusione di vita dello Spirito. È il passaggio del Signore. È la Pasqua dello sposo e della sposa.

L’agnello pasquale

Secondo M. Priotto – uno specialista del libro dell’Esodo e autore di un suo pregevole commentario scientifico –, il libro può essere strutturato letterariamente in tre momenti: Uscita dall’Egitto (1,1–15,21; La sfida del deserto (15,22–18,27); Alla montagna del Sinai (19,1–40,38). Nella prima parte, dopo aver descritto la schiavitù e la missione di Mosè (1,1–10,29), vengono delineati i contorni della Pasqua (11,1–13,16), e quindi la descrizione dell’evento del Mar Rosso (13,17–15,21). Al centro di questa parte, all’annuncio della decima piaga (11,1-10), segue l’istituzione della Pasqua (12,1–13,16).

Le disposizioni sul sacrificio della Pasqua (12,1-42) possono essere ulteriormente suddivise in tre sottosezioni: Discorso di YHWH a Mosè e ad Aronne (12,1-20), Discorso di Mosè agli anziani (12,21-28), morte dei primogeniti e l’uscita dall’Egitto (12,29-42).

Il discorso di YHWH a Mosè e ad Aronne può essere strutturato in due parti: Il rituale dell’agnello pasquale (12,1-14) e la festa degli Azzimi (12,15-20).

Recupero di tradizioni antiche e norme attualizzanti che rispecchiano le usanze posteriori di un popolo già stanziato da tempo nella terra della libertà si mescolano in questo capitolo in un insieme di fili inestricabile.

Memoriale

Il progresso della rivelazione di YHWH al suo popolo è stato enorme. Un antichissimo rito inserito nel ciclo naturale delle stagioni, con funzione apotropaica di allontanamento dei geni malvagi e di protezione delle tende dei pastori nella transumanza primaverile delle greggi, si è trasformato in un rito di ricordo vivo e attualizzante di un evento storico di liberazione compiuto da YHWH per il suo popolo. Dalla natura alla storia. Il segno di YHWH si incide nella carne non solo dei giorni e delle stagioni, ma anche in quello della storia delle persone e dei popoli, del suo popolo eletto come testimone privilegiato del suo essere Dio unico nei cieli.

L’azione di YHWH diventa un evento concreto, che deve essere ricordato e attualizzato lungo in secoli, in “memoriale/zikkārôn” perenne. È il rito che ricorda e attualizza la liberazione dalla schiavitù di Israele in Egitto e del suo crescere nella coscienza di essere popolo di YHWH nell’esperienza della liberazione, del cammino faticoso nel deserto e nell’accoglienza delle Dieci parole di alleanza al Sinai. D’ora in poi YHWH sarà l’unico Dio per Israele, e non altri.

La festa che ricorderà celebrando e attualizzando sarà la Pasqua/Pesa, una delle tre “feste/ag” maggiori, celebrate con un pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme (Pasqua/Pesa; Settimane/Šābû‘ôt; Tende/Sukkôt).

In fretta

La liberazione va vissuta e celebrata comunitariamente, all’interno della famiglia ed, eventualmente, allargando lo spazio ai vicini dello stesso popolo. L’agnello perfetto, maschio, di un anno, sarà arrostito nel fuoco e consumato nel pasto comunitario in ricordo del riscatto dei primogeniti di Israele risparmiati dal sacrificio, a differenza di quelli egiziani che incontrano la morte come segno di punizione per la schiavitù inflitta in modo violento e pervicace a Israele, rifiutandone ripetutamente la liberazione.

Il sangue dell’agnello, cioè la sua vita sparsa, sarà posto come “segno/’ôt” sui lembi della tenda e sulle sue strutture portanti, che ora, nella celebrazione rituale annuale festeggiata nella terra della libertà, sono diventati gli stipiti e l’architrave delle porte di casa.

La celebrazione sarà segnata dalla fretta, dall’atteggiamento e dall’abbigliamento completo di un pastore pronto a mettersi in cammino. Non si può indugiare nella schiavitù. Non ci si può crogiolare nel tempo di mezzo dell’attesa. La libertà non aspetta. È un dono ineguagliabile. Ha la priorità assoluta nella vita dell’uomo e dei popoli.

Sarà accompagnata dall’amarezza per il ricordo dei patimenti sofferti in Egitto, per gli sconvolgimenti e le traversie che la fuga comporterà, con l’incognita di affrontare un vasto deserto sempre pericoloso.

È una liberazione che comporta un patire, una passione. La libertà è sempre costosa, e si conquista e si mantiene non senza molti dolori e rinunce. Ma in essa c’è la via dell’unica vita degna di essere vissuta dall’uomo e da un popolo.

Passerò oltre

«Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dalla terra d’Egitto» (Es 12,42). YHWH non può dormire la notte in cui ha deciso di liberare il suo popolo. È il tempo dell’azione decisa, dell’intervento efficace, inatteso quanto alla tempistica. È la Pasqua di YHWH questa! (cf. Es 12,11). È il suo passaggio, il suo “saltellare” (cf. 1Re 18,21: è il rimprovero di «saltare da un piede all’altro» fatto dal profeta Elia sul monte Carmelo al popolo esitante nella scelta fra YHWH e Baal).

YHWH si prepara nella notte di veglia a “passare/‘ābar” (12,12) nella terra d’Egitto e a “saltare/pāsa” le “case/famiglie/tende/battîm” dove c’è il segno apotropaico del sangue dell’agnello. Esso, però, non vorrà più invocare l’allontanamento degli spiriti del male che possono uccidere le greggi, ma sarà il segno della volontà di accogliere una liberazione-di-vita-da in vista di una libertà-di-vita-responsabile-per YHWH. È un sangue che invoca e porta vita da parte di YHWH.

Il nemico oppressore sarà colpito nel rigoglio dei primogeniti, il rinnovamento vitale che apre al futuro. La violenza oppressiva non deve sopravvivere, non deve avere alcun futuro. Anche i bimbi piccoli di Babilonia devono essere sfracellati contro la pietra (Sal 137,9).

YHWH “passerà oltre” l’oppresso e colpirà l’oppressione e chi la incarna. È una “pasqua/passaggio” che compie soprattutto YHWH, per grazia.

Ma è “pasqua/passaggio” che impegna anche la libertà del liberato. Pronto per la partenza, dovrà lasciare dietro di sé anche le piccole sicurezze che si era acquistato in lunghi anni di servizio. Dovà abbandonare l’abitudine alla schiavitù, la paura del nuovo. Dovrà aprirsi all’ebbrezza di una libertà consapevole e responsabile, che impegna a scelte personali, che non lasciano campo a qualcun altro che pensi e decida al posto proprio.

L’ora del passaggio

Gesù, vero ebreo per sempre, celebra la sua ultima festa-pellegrinaggio di Pasqua nei primi giorni di aprile del 30 d.C. È molto probabile che la celebri in casa di amici esseni, al martedì sera. Questa è la loro data per la Pasqua, diversa da quella fissata nel calendario ufficiale seguito nel tempio.

Gesù “sa per aver visto con immediatezza/eidōs < horaō = vedere” (cf. 13,1; 13,3) nella propria coscienza che, dopo l’avvio alle nozze di Cana (cf. Gv 2,2) e la sua dilazione per insufficienza di cammino e di annuncio (cf. Gv 7,30; 8,20), ormai è scattata l’“ora” della donazione totale di se stesso, l’ora della glorificazione del Padre e del suo Inviato, il Figlio dell’uomo (cf. Gv 12,23.27[bis]).

Nella prima grande disputa con i giudei, dopo la guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà, Gesù aveva annunciato: «In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno… Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5,25.29).

Gesù ha pregato il Padre non di salvarlo dall’ora (cf. 12,27a), perché proprio per quest’ora egli è venuto nel mondo. È l’ora del “discrimine/krisis” in cui il principe di questo mondo sarà «gettato fuori», sconfitto definitivamente (cf. Gv 12,31). Anche i suoi piccoli dovranno essere sfracellati. Sarà annientato il menzognero e il padre della menzogna, l’omicida fin da principio, colui che, tramite il peccato, tiene schiavi gli uomini (cf. Gv 8,34.43-44).

Gesù “sa”, percepisce che è giunta l’ora in cui il suo amore per coloro che lo avevano seguito “nel mondo” chiama alla pienezza. Lo chiama a estendersi “fino alla fine del tempo e dell’intensità/eis to telos” (13,3). È l’ora dell’amore, l’ora della “pasqua”, l’ora di “passare da/metabainō” questo mondo e di trasferirsi al Padre dal quale era venuto, disceso per attendarsi fra i suoi (cf. Gv 1,14). Solo così potrà amarli fino alla fine, fino all’estremità della tensione, fino agli estremi della terra e dei tempi. Donando loro il suo Spirito di Figlio morto e risorto, e darlo «senza misura» (cf. Gv 3,34: «Colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito»).

Gesù “sa”, percepisce chiaramente con la coscienza che sta per tornare da quel Padre da cui era uscito come Inviato a rivelare il suo volto (cf. Gv 1,18). Vi ritorna ripieno del possesso di “ogni cosa/panta” (13,13) che il Padre gli ha donato nelle mani/in suo potere.

Gesù, Verbo incarnato, ha nelle mani il potere assoluto su ogni realtà, ma lo esercita… “alzandosi/risorgendo/egeiretai” da tavola – in un drammatico presente storico – per lavare i piedi agli apostoli!

Le vesti

L’agnello pasquale, maschio primogenito, di un anno, perfetto viene messo da parte dagli israeliti e dai loro discendenti, per essere conservato per quattro giorni prima di essere sacrificato (cf. Es 12,13-6).

In una mirabile continuità trasfigurata e dialogica tra i due Testamenti, Gesù “risorge/si alza” volontariamente e consapevolmente da tavola, per compiere il servizio umiliante della lavanda dei piedi ai Dodici, lavoro che non era possibile esigere neppure a uno schiavo ebreo. È un’«inversione di ruoli» (Destro – Pesce) che dovrà sigillare lo stile della comunità dei discepoli di Gesù. Come il pastore “bello/buono/kalos” “depone/tithesin” la sua vita per le pecore (cf. Gv 10,11.17), così Gesù “depone/tithesin” le sue vesti, simbolo antropologico indicante la persona (Gv 13,4).

Il Padre “ama/agapa” il Figlio proprio perché liberamente “depone” la sua vita, con la capacità propria – e ricevuta dal Padre – di “riprenderla/labō” (Gv 10,17) nella risurrezione. «Nessuno me la toglie/airei: io la do/pongo/tithēmi da me stesso/ap’hemautou. Ho il potere di darla/theinai e il potere di riprenderla di nuovo/palin labein. Questo è il comando/entolēn che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,18), chiarisce ancora Gesù, parlando della libertà personale dell’offerta tipica del pastore “bello/buono”.

Un “comando” d’amore circola vorticosamente all’interno della Trinità. Ognuno desidera anticipare l’altro nella realizzazione del suo desiderio. Ogni desiderio dell’uno è un “comando” per l’altro… Il Padre desidera fortemente che il suo progetto d’amore sia rivelato nella sua completezza a tutti gli uomini. Il Figlio – tutta recezione amorosa della volontà del Padre – lo desidera altrettanto intensamente. Un bacio d’amore infuocato e silenzioso lega le loro volontà in un desiderio di anticiparsi e di superarsi nella misura dell’amore.

Non capisci la parte

Nel Vangelo di Giovanni non viene raccontata l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena, anticipazione rituale e sacramentale dell’offerta totale che Gesù compirà all’indomani sulla croce. Ne viene narrato simbolicamente il frutto più alto, che dalla croce discende sacramentalmente nell’eucaristia per farsi vita: il servizio d’amore tra i fratelli che, per i Dodici, diventerà un servizio ministeriale stabile quali ri-presentazioni di Gesù Signore, Maestro, Schiavo per amore. «Vi ho dato un esempio/hypodeigma, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (13,15), dirà Gesù alla fine del suo gesto simbolico, “riprendendo/elaben” (13,12) le proprie vesti in una “risurrezione” simbolica anticipata. Io vi ho “mostrato/deiknymi” sotto/hypo gli occhi un disegno, uno schema, uno schizzo/hypodeigma. Voi “ricalcatelo” nella vostra vita, nel vostro servizio di “apostoli-schiavi”.

“Sapere/percepire chiaramente per contemplazione e rivelazione ricevuta/oidate” (< horaō = vedere) queste cose e riuscire a “farle/poiēte” (13,17) comporterà “beatitudine/makarioi este” (13,17) per i Dodici e i loro successori.

Pietro non accetta lo scandaloso rovesciamento dei ruoli attuato da Gesù nel suo servizio di schiavo (cf. v. 6). Ma, se non accetta la logica del rovesciamento dei ruoli, con il Signore e il Maestro che si mette a servire come uno schiavo pagano, a Pietro viene detto: «Non avrai parte con me/ouk echeis meros met’emou» (13,8).

Se non ti lasci lavare i piedi non riuscirai a comprendere e a internalizzare lo stile che ha segnato tutta la mia vita e che ora arriva al suo compimento estremo di realizzazione, dice di fatto Gesù a Pietro. Sarà come se la tua tenda non sia segnata dal mio sangue pasquale di morte e risurrezione.

Nella Pasqua io e il Padre “passeremo”, ma non faremo “pasqua” per te, non ti “sorpasseremo/salteremo”. Sarai travolto nella morte dell’egoismo, del narcisismo, nell’inopportuna ritrosia a lasciarsi amare e servire.

Non riuscirai ad afferrare il mio cuore, sarai perso per sempre. Non mangerai l’agnello pasquale, resterai impantanato nella terra di schiavitù, resterai prigioniero della logica sfruttatrice del principe di questo mondo…

Mani e testa, Signore!

Capisco che bastano i piedi, secondo te. Ma io voglio essere lavato tutto in te, voglio immergermi in te, nella tua vita donata, nel tuo sangue versato.

Voglio andare sul sicuro, Signore, essere tutto tuo.

Tutto pasquale.

Sangue/Vita donata dappertutto, Signore, non solo sugli stipiti e sull’architrave della casa (cf. Es 12,7). Non solo parole legate al braccio, poste come pendaglio fra gli occhi e scritte sugli stipiti (cf. Dt 6,8-9), ma vita d’amore colata nel cuore, nutrita di te. Bagnata nel sangue, nutrita della tua carne.

È giovedì santo, in coena Domini.

È la sera dell’amore, del dono, del servizio, dell’eucaristia.

«Mangiate, amici, bevete; inebriatevi d’amore» (Ct 5,1c).

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