II dopo Natale: La sua tenda in mezzo a noi

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 La scena più famosa di tutto il ciclo di affreschi della Cappella Sistina è forse la creazione di Adamo. L’attenzione di chi la contempla è subito rapita da quelle mani che si sfiorano senza toccarsi, dall’indice di Dio teso verso la mano inerte del primo uomo, nell’incanto dello sbocciare della vita.

Pochi però prestano attenzione all’altra mano di Dio, la sinistra che, in un tenero abbraccio, avvolge una stupenda ragazza, la Sapienza che – come dice la Bibbia – era accanto a lui quando “con intelligenza distendeva i cieli” (Ger 10,12).

Si rimane affascinati dall’armonia del firmamento e dall’ordine dell’universo e lo sguardo del credente può cogliere nel creato il progetto sapiente da cui tutto ha avuto inizio. Può coglierlo perché “in principio” Dio ha operato assistito dalla sua Sapienza.

Fra le creature che noi conosciamo, l’uomo è l’unico in grado di comprendere che i cieli non sono solo degli spazi infiniti e misteriosi, ma sono la realizzazione di un disegno, di un sogno d’amore.

Gli antichi che sapevano ascoltare il canto delle stelle e godere delle danze celesti degli astri erano forse più uomini di noi.

Il mondo esiste, va studiato e usato, punto e basta – afferma lo scienziato.

È vero: non c’è bisogno di Dio per capire le leggi che regolano l’universo.

Ma, se rinunciamo a cercare il senso del creato, se rinunciamo a cogliere la Sapienza con cui è stato fatto, siamo uomini?

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Più della luce amo la tua Sapienza, Signore!”.

Prima Lettura (Sir 24, 1-4.8-12)

1 La sapienza loda se stessa,
si vanta in mezzo al suo popolo.
2 Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca,
si glorifica davanti alla sua potenza:
3 “Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo
e ho ricoperto come nube la terra.
4 Ho posto la mia dimora lassù,
il mio trono era su una colonna di nubi.
8 Il creatore dell’universo mi diede un ordine,
il mio creatore mi fece posare la tenda
e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe
e prendi in eredità Israele.
9 Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò;
per tutta l’eternità non verrò meno.
10 Ho officiato nella tenda santa davanti a lui,
e così mi sono stabilita in Sion.
11 Nella città amata mi ha fatto abitare;
in Gerusalemme è il mio potere.
12 Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore, sua eredità”.

Nell’Antico Testamento ci sono molte personificazioni: Gerusalemme è una sposa che si adorna di gioielli (Is 61,10); Babilonia una donna tenera e voluttuosa, prima regina e poi schiava costretta a muovere la mola e macinare la farina (Is 47,1-2); la giustizia e la pace sono sorelle che si baciano (Sal 85,11); il peccato una belva accovacciata che tende insidie (Gen 4,7), un tiranno che rende schiavi (Pr 5,22).

Fra le personificazioni bibliche una emerge su tutte, la Sapienza. Ragazza affascinante: assiste all’opera del Creatore, è come sua figlia, collabora con lui, danza e si diletta, comunica gioia in cielo e delizia gli uomini sulla terra (Pr 8,22-31).

Nella lettura di oggi la Sapienza si autopresenta come parola “uscita dalla bocca dell’Altissimo”, come “nube che ha ricoperto la terra” (v. 3).

Benedetti coloro che prestano attenzione alla sua voce e camminano al riparo della sua ombra!

In queste immagini la Sapienza appare come colei che indica la via della vita; mostra le scelte che conducono alla felicità. È colei che aiuta a discernere fra il bene e il male, fra la luce e le tenebre.

Dove trovarla, come incontrarla? “La sapienza da dove si trae? – si chiedeva Giobbe – Dov’è il luogo della saggezza? L’uomo non sa dove trovarla, essa non si trova sulla terra dei viventi” (Gb 28,12-13).

La Sapienza di Dio non è di questo mondo, non è frutto delle capacità e della genialità umane, viene dall’alto, è dono del Signore.

Salomone la desiderava più della ricchezza, più della potenza, più di una lunga vita, la amava più di una sposa (1 Re 3,1-15). La chiese al Signore: “Dammi la Sapienza che siede accanto a te in trono, inviala dai cieli santi perché mi assista e io sappia ciò che ti è gradito. Essa mi guiderà prudentemente nelle mie azioni e io sarò degno del trono di mio padre” (Sap 9,1-12). Dio gliela concesse.

La gioia della Sapienza era stare con i figli degli uomini (Pr 8,31), per questo il creatore dell’universo le diede quest’ordine: “Fissa la tenda in Giacobbe” (v. 8).

Raggi di Sapienza divina sono presenti in tutta la creazione, possono essere rintracciati nelle culture di tutti i popoli, ma è in Israele – popolo benedetto e glorioso – che la Sapienza ha preso stabile dimora (vv. 8-12).

La tradizione giudaica l’ha identificata con la Legge di Mosè (Sir 24,23). “Quanti si attengono ad essa – assicurava il profeta Baruc – avranno la vita, quanti l’abbandonano moriranno” (Bar 4,1).

Ma i cristiani l’hanno vista incarnata, non in un libro, ma in una persona, in Gesù di Nazaret che – come dice Giovanni nel prologo del suo vangelo – è venuto a piantare la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14).

Seconda Lettura (Ef 1,3-6.15-18)

3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli,in Cristo.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
6 secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto.
15 Perciò io, Paolo, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, 16 non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere, 17 perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui.
18 Possa egli davvero illuminare gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.

La lettera agli efesini esordisce con un inno di benedizione a Dio per le meraviglie da lui operate in favore degli uomini.

La benedizione è la più caratteristica delle preghiere giudaiche. In ogni momento della giornata, il pio israelita pensa agli interventi di Dio in favore del suo popolo, ricorda i benefici da lui concessi e lo ringrazia pronunciando benedizioni.

Quella della Lettera agli efesini è un inno commovente, sgorgato dal cuore di un cristiano dell’Asia minore, eseguito durante le celebrazioni liturgiche e che ci è stato conservato dall’autore della lettera.

Inizia con una lode al Signore, che non è più chiamato “Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe”, ma Padre del Signore nostro Gesù Cristo (v. 3). È benedetto perché, avendoci inseriti in Cristo, ci ha resi partecipi di ogni benedizione spirituale.

Le benedizioni promesse ai patriarchi erano materiali, Dio si mostrava benevolo verso il suo popolo quando donava messi abbondanti, moltiplicava greggi e armenti, faceva crescere i figli come virgulti d’ulivo e rendeva le figlie incantevoli “come colonne d’angolo” (Sal 144,12).

Chi, mediante il battesimo, è stato inserito in Cristo, è colmo di benedizioni spirituali, che non sono in contrapposizione con quelle materiali, ma costituiscono una realtà nuova, un’offerta di beni imperituri, di una vita che va oltre gli orizzonti di questo mondo.

Dopo questa esclamazione gioiosa, l’inno presenta il progetto d’amore ideato da Dio (vv. 4-6). Già prima della creazione del mondo, egli ha pensato alla salvezza di tutti gli uomini; ha voluto che divenissero un’unica persona in Cristo, che fossero partecipi della sua vita ed entrassero a far parte della sua famiglia. Questo è il destino che attende l’intera umanità: non la rovina, ma la gioia senza fine, “a lode e gloria della sua grazia”. La gratitudine dell’uomo è rivolta a Colui che non premia secondo i meriti, ma dona tutto in modo incondizionato, elargisce i suoi beni ai poveri, offre a chi non può vantare alcun diritto.

La gioia che pervade l’intero inno deriva dalla certezza che la benevolenza di Dio non dipende dalla bontà dell’uomo, ma è pura grazia.

Quando, nella storia del mondo o nella vita personale, il male sembra avere il sopravvento, questo canto rammenta al credente che la vittoria finale apparterrà all’amore di Dio. Egli riuscirà comunque a portare a compimento il disegno che ha ideato “prima della creazione del mondo” (v. 4).

Dopo aver richiamato l’inno di benedizione, Paolo si congratula con i suoi lettori per le belle notizie che ha ricevuto. Gli è stato riferito della loro fede incrollabile e dell’amore che regna nelle loro comunità. In un mondo segnato da divisioni, odi e violenze essi sono diversi dagli altri, si comportano da santi, sono riconoscibili perché sui loro volti brilla l’immagine di Cristo, il Santo (v. 15).

L’Apostolo ricorda agli efesini la preghiera che continuamente egli eleva a Dio per loro. Non chiede i beni di questo mondo, la ricchezza, il successo, ma il dono più sublime, lo spirito di sapienza (vv. 16-17).

Salomone confidava al Signore: “Anche il più perfetto fra gli uomini, privo della sapienza che viene da te, sarebbe stimato un nulla” (Sap 9,6) e Paolo non vuole che i suoi cristiani orientino la loro vita secondo la saggezza e il buon senso di questo mondo che è follia agli occhi di Dio (1 Cor 1,18). Per questo chiede al Signore di illuminare gli occhi del loro cuore (v. 18).

Il cuore, nella cultura semitica, rappresenta il centro della persona, il punto in cui vengono prese tutte le decisioni.

Il cuore ha occhi che però corrono il rischio di essere ottenebrati da ragionamenti incompatibili con il vangelo. Tali erano gli occhi dello stesso Paolo prima che venisse illuminato sulla via di Damasco.

L’acqua del Battesimo li lava ad ogni credente, li rende luminosi, così il cuore può fare scelte secondo la sapienza di Dio. È per questo che nei primi secoli i battezzati erano chiamati “gli illuminati” (Eb 6,4).

Vangelo (Gv 1,1-18)

1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
4 In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5 la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta.
6 Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
7 Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10 Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
11 Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l’hanno accolto.
12 A quanti però l’hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13 i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni gli rende testimonianza
e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
perché era prima di me”.
16 Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
17 Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18 Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.

Tutti gli autori curano con particolare impegno la prima pagina dei loro libri perché costituisce il foglio di presentazione di tutta l’opera. Deve essere non solo piacevole e accattivante, ma è bene che accenni anche ai temi essenziali che verranno trattati in seguito. È un modo per stuzzicare l’interesse e la curiosità del lettore.

Per introdurre il suo Vangelo, Giovanni compone un inno così sublime, così elevato da meritargli, giustamente, il titolo di “aquila” fra gli evangelisti. In questo prologo, come nell’“ouverture” di una sinfonia, è possibile cogliere i motivi che saranno poi ripresi e sviluppati nei capitoli successivi: Gesù inviato del Padre, sorgente di vita, luce del mondo, pieno di grazia e di verità, Unigenito nel quale si rivela la gloria del Padre.

Nella prima strofa (vv. 1-5) Giovanni sembra spiccare il volo da un’immagine cara alla letteratura sapienziale e rabbinica: la “Sapienza di Dio” raffigurata come una ragazza incantevole e deliziosa.

Ecco come la “Sapienza” si autopresenta nel libro dei Proverbi: “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io sono stata generata. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando stabiliva al mare i suoi limiti, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui” (Pr 8,22-29).

Si tratta di una personificazione ripresa anche nel libro del Siracide, dove si afferma che la Sapienza si è come incarnata nella Toràh, nella Legge, e ha fissato la sua tenda in Israele (Sir 24,3-8.22).

Giovanni conosce bene questi testi e – forse anche con un filo di polemica nei confronti del giudaismo – li riprende e li applica a Gesù.

È lui – dice – la Sapienza di Dio venuta a porre la sua tenda in mezzo a noi, è lui, e non la legge mosaica, che rivela agli uomini il volto di Dio e la sua volontà. Egli è il Verbo, la Parola ultima e definitiva di Dio, è quella stessa Parola mediante la quale Dio, in principio, ha creato il mondo.

Non solo. A differenza della Sapienza personificata (Sir 24,9), la Parola di Dio – che in Gesù si è fatta carne – non è stata creata, ma “era” presso Dio, esisteva dall’eternità ed era Dio.

Per Israele la Sapienza è “un albero di vita per chi ad essa si attiene” (Pr 3,18). Giovanni chiarisce: la Sapienza di Dio si è manifestata pienamente nella persona storica di Gesù. È lui, non più la Legge, la sorgente della vita.

La venuta di questa Parola nel mondo divide la storia in due parti: prima e dopo Cristo, tenebre senza di lui, luce dove c’è lui. Parola che, come una spada, penetra nell’intimo di ogni uomo e separa in lui ciò che è “figlio della luce” da ciò che è “figlio della tenebra”. La tenebra cercherà di sopraffare questa luce, ma non vi riuscirà. Anche la risposta negativa dell’uomo non potrà soffocarla e alla fine la luce avrà la meglio nel cuore di ognuno di noi.

La seconda strofa (vv. 6-8) è un primo intermezzo narrativo che introduce la figura del Battista. Di lui non si dice che “era presso Dio”. Giovanni è un semplice uomo suscitato da Dio per una missione. Doveva essere il testimone della luce. Il suo ruolo è tanto importante che viene sottolineato per ben tre volte.

Egli non era la luce, ma seppe riconoscere la luce vera e indicarla a tutti.

La terza strofa (vv. 9-13) sviluppa il tema di Cristo-luce e la risposta degli uomini di fronte al suo apparire nel mondo.

L’inno si apre con un grido di gioia: “Veniva nel mondo la luce vera”. Gesù è la luce autentica, in contrapposizione ai luccichii illusori, ai fuochi fatui, ai miraggi, ai bagliori ingannevoli proiettati dalla sapienza degli uomini.

A questo grido entusiastico si contrappone però subito un lamento: “il mondo non lo riconobbe”. È il rifiuto, l’opposizione, la chiusura alla luce. Gli uomini preferiscono l’oscurità perché affezionati alle loro opere malvagie (Gv 3,19).

Neppure gli israeliti – “la sua gente” – la accolgono. Eppure avrebbero dovuto riconoscere in Gesù la manifestazione ultima, l’incarnazione della “Sapienza di Dio”, di quella Sapienza che “fra tutti i popoli aveva cercato un luogo di riposo nel quale stabilirsi” e proprio in Israele aveva trovato la sua dimora. Il Creatore dell’universo le aveva dato quest’ordine: “Fissa la tua tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele” (Sir 24,7-8).

Sorprende il rifiuto della luce e della vita da parte degli uomini, anche dei più preparati e ben disposti. Anche Gesù si meraviglierà un giorno dell’incredulità dei suoi stessi conterranei (Mc 6,6). Questo significa che la luce che viene dall’alto non si impone, non fa violenza, lascia liberi, ma pone di fronte ad una decisione ineludibile: bisogna scegliere fra “benedizione e maledizione” (Dt 11,27), fra “ vita e morte” (Dt 30,15).

La strofa si conclude con la visione gioiosa di coloro che hanno creduto nella luce. Credere non significa dare il proprio assenso intellettuale ad un pacchetto di verità, ma accogliere una persona, la Sapienza di Dio che si identifica con Gesù.

A coloro che si fidano di lui viene concesso “un diritto” inaudito: divenire figli di Dio. È la rinascita dall’alto di cui Gesù parlerà a Nicodemo (Gv 3,3), rinascita che non ha nulla a che vedere con la nascita naturale che è legata alla sessualità, al volere dell’uomo. La generazione da Dio è di un altro ordine, è opera dello Spirito.

La quarta strofa (v. 14): “E il Verbo si fece carne e fissò la sua tenda in mezzo a noi”. È il punto culminante di tutto il prologo e sono le parole del Vangelo che oggi ascolteremo in ginocchio. Sono ancora cariche dell’ammirazione gioiosa e stupita dei cristiani delle prime comunità di fronte al mistero di Dio che per amore si spoglia della sua gloria, annienta se stesso e prende dimora sotto la nostra tenda.

“Carne” nel linguaggio biblico indica l’uomo nel suo aspetto di essere debole, fragile, perituro. Si percepisce qui la drammatica contrapposizione fra “carne” e “Parola di Dio” espressa in modo così efficace nel famoso testo di Isaia: “Ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria è come il fiore del campo. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre” (Is 40,6-8).

Quando Giovanni dice che la “Parola” divenne carne non afferma semplicemente che prese un corpo mortale, che si rivestì di muscoli, ma che divenne uno di noi, che si fece in tutto simile a noi (compresi i sentimenti, le passioni, le emozioni, i condizionamenti culturali, la stanchezza, la fatica, l’ignoranza – sì, anche l’ignoranza – e poi le tentazioni, i conflitti interiori…). In tutto simile a noi fuorché nel peccato.

“E noi vedemmo la sua gloria”. L’uomo biblico era cosciente che l’occhio umano è incapace di vedere Dio. Di lui si può solo contemplare la “gloria”, cioè, i segni della sua presenza, le sue opere, i suoi gesti di potenza in favore del suo popolo: “Dimostrerò la mia gloria sul faraone e su tutto il suo esercito, i suoi carri e i suoi cavalieri” (Es 14,17).

Si sentono riecheggiare in questa frase del prologo le espressioni colme di intensa commozione della prima lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1, 1 -4).

Giovanni parla al plurale perché intende riferire l’esperienza dei cristiani delle sue comunità che, con lo sguardo della fede, sono riusciti a cogliere, al di là del velo della “carne” di Gesù umiliato e crocifisso, il volto di Dio.

Il Signore ha manifestato spesso la sua gloria con segni e prodigi, ma mai si era rivelato in modo così chiaro e palese come nel suo “Unigenito, pieno di grazia e di verità”. “Grazia e verità” è un’espressione biblica che significa “amore fedele”. La troviamo nell’AT quando il Signore si presenta a Mosè come “il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6). In Gesù è presente la pienezza dell’amore fedele di Dio. Egli è la dimostrazione inconfutabile che nulla potrà mai sopraffare la benevolenza di Dio.

La quinta strofa (v. 15) è il secondo intermezzo. Ricompare il Battista e questa volta egli parla al presente: “rende testimonianza” in favore di Gesù. “Grida” agli uomini di tutti i tempi che egli è unico.

La sesta strofa (vv. 16-18) è un canto di gioia dal quale trabocca la riconoscenza a Dio della comunità per il dono ricevuto. Dono incomparabile. Anche la legge di Mosè era un dono di Dio, ma non era definitiva. Le disposizioni esterne che essa conteneva non erano in grado di comunicare “la grazia e la verità”, cioè, la forza che permette all’uomo di corrispondere all’amore fedele di Dio. La “grazia e la verità” sono state donate per mezzo di Gesù. Compare qui, per la prima volta, il suo nome.

Dio nessuno l’ha mai visto. È un’affermazione che Giovanni richiama spesso (5,37; 6,46; 1 Gv 4,12.20). La si ritrova già nell’AT: “Tu non potrai vedere il mio volto – dice Dio a Mosè – perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20).

Le manifestazioni, le apparizioni, le visioni di Dio raccontate nell’AT non erano delle visioni materiali, erano un modo umano di descrivere le rivelazioni dei pensieri, della volontà, dei progetti del Signore.

Ora invece è possibile vedere realmente, concretamente Dio osservando Gesù. Per conoscere il Padre non si devono fare ragionamenti filosofici o perdersi in sottili disquisizioni. Basta contemplare Cristo, osservare quello che fa, cosa dice, cosa insegna, come si comporta, come ama, chi preferisce, chi frequenta, da chi va a cena, chi sceglie, chi rimprovera, chi difende. Basta, soprattutto, contemplarlo nel momento più alto della sua “gloria”, quando viene innalzato sulla croce. In quella manifestazione somma di amore il Padre ha detto tutto.

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