III Per annum: Una luce per il lago

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Gelîl haggôyim (Is 8,23), “curva delle genti”, era chiamata la Galilea, periferia lontana del paese di Israele. Dopo Salomone, Israele esisteva diviso in due regni, il Regno di Giuda al sud, con Gerusalemme, e il Regno del Nord, con capitale Samaria.

Quest’ultimo era stato invaso dagli assiri alla fine dell’VIII secolo a.C. Il re di Ninive aveva fatto pagare cara la chiamata in aiuto fatta per incredulità dal re di Giuda, Achaz. La periferia povera delle due tribù di Zàbulon e di Nèftali occupa lo spazio a nord-ovest del Lago di Genesaret. Nèftali occupava in verticale la parte settentrionale, la Bassa e l’Alta Galilea. Zàbulon, posta in longitudine, comprendeva parte del fertile triangolo della pianura di Izreel.

Un po’ di gloria per la “curva delle genti”

L’importanza della regione era data dal fatto che vi passava la Via maris che dall’Egitto conduceva ai regni delle superpotenze della Mesopotamia. Vista da est, questa via è “oltre” il Giordano, in ogni caso nei suoi pressi. Passando lungo la sponda occidentale del lago, essa proseguiva per Damasco e il lontano Oriente. Questa terra vedeva la convivenza di ebrei che vivevano lontani dal centro religioso del tempio di Gerusalemme e di gente pagana dedita ai culti idolatrici stranieri, specie quelli del dio Ba‘al.

Il popolo è scoraggiato e avvilito. Davanti a sé non vede altro che una pura sopravvivenza in una terra tenebrosa, sepolcrale, simile a quella che ospita i morti sottoterra, nello Sheol. Un avvilimento che butta a terra gli animi, che toglie il respiro alla speranza di un futuro umano e sereno, prospero e attraente.

YHWH aveva abbracciato questo tempo provvisorio di prova e di avvilimento. Aveva “reso leggera, di poca importanza” questa fetta di terra, simile a una mezzaluna, il distretto o “la curva” della Galilea. Ma il profeta Isaia lega strettamente prova e risurrezione, umiliazione e gloria, ombra di morte e “una grande luce”. Il collegamento è dato dalla promessa della nascita di un grande personaggio, dal profilo alto, messianico.

La nascita di un bambino particolare, dai titoli gloriosi (cf. Is 9,5), porterà aumento di popolazione, crescita della gioia, perché una “luce grande” (così l’ordine delle parole in ebraico) permetterà al popolo di camminare nella sicurezza, nella pace, con un senso positivo ai propri giorni. Si gioirà come quando ci si spartisce il bottino di guerra (gioia ben effimera e amara, di per sé). Ma soprattutto si gioirà come quando si può raccogliere il frutto della fatica nei campi e il grano tornerà a biondeggiare in piccole montagnole nelle aie dei contadini. L’oppressione finirà, il giogo pesante dell’aguzzino non peserà più sul popolo schiavizzato.

Il Signore-YHWH ha frantumato il bastone del potente che colpiva con lo sfruttamento, il ricatto economico della grande finanza, l’indifferenza globalizzata per la sorte di interi continenti “impoveriti”, la cinica spartizione di terre e popolazioni in zone di influenza determinate dalla presenza del gas e del petrolio, la guerra fatta con armi nuove e luccicanti in vista della migliore rotta da far seguire al pipeline diretto verso l’Occidente e il Nord ricco del mondo.

Il Signore-YHWH ha sconfitto i madianiti con pochi mezzi, grazie ai soli trecento guerrieri coraggiosi comandati da Gedeone (cf. Gdc 7,15-25). Anche la gioia e la “luce grande” verranno in pienezza a suo tempo, nel silenzio paradossale dei mezzi deboli scelti da Dio per realizzare le sue promesse.

“Luce grande” per la periferia

A volte le cose coincidono. Quando viene la luce per qualcuno, per un altro si aprono le porte della galera oscura del Macheronte, che si erge sui contrafforti orientali della parte settentrionale del Mar Morto. La lampada del precursore Giovanni Battista ha brillato per un po’ di tempo, ma il “debole” Erode Antipa ha deciso che poteva bastare così.

Ora però è il tempo della “luce grande” dell’Annunciato, Gesù di Nazaret. Messo in prigione l’araldo, l’Annunciato si allontana dal Giordano e torna nella terra in cui è cresciuto nel nascondimento per trent’anni, a Nazaret. Vi aveva imparato la lingua, la vita di fede e di preghiera, il lavoro manuale, il ritmo della vita familiare, la convivenza sociale con tutti i suoi problemi. Aveva osservato il lavoro dei contadini e degli artigiani, la fatica quotidiana delle donne, le gioiose scorribande dei bambini, la miseria sempre in agguato dietro l’angolo a causa di possibili carestie o aumenti di tasse degli occupanti romani e dei loro vassalli erodiani.

Ma, dopo il battesimo al Giordano, Gesù prende la decisione di iniziare la sua missione pubblica. La luce non può rimanere nascosta sotto il moggio, ma va posta sul lucerniere perché faccia luce alla famiglia, agli ospiti che vi entrano, al popolo che l’attende da secoli.

Le coincidenze non sono tali per i credenti, ma sono compimenti di promesse antiche, mai revocate. L’evangelista Matteo ne è profondamente convinto e dissemina tutto il suo racconto con una ventina di citazioni di compimento di parole divine e profetiche raccolte negli scritti sacri degli ebrei, quello che diventerà l’Antico o Primo Testamento.

Gesù decide di spostarsi nel ganglio vitale della “curva delle genti”, Cafarnao. Dal suo villaggio, posto a 500 metri di altezza, “scende” a Cafarnao, posta a 200 metri sotto il livello del mare. Una discesa certo, ma non agli inferi. Una discesa non per nascondersi ancora di più, ma per condividere meglio la condizione di chi sta “lontano” e “sotto”.

Cafarnao è una cittadina popolosa, posta sulla Via maris. Vi passa di tutto: commercianti, viaggiatori, militari, prostitute, lavoratori giornalieri, pescatori che vanno a vendere pesce fresco e pesce posto sotto sale. Poco fuori città c’è la dogana, con le tasse da pagare e i soldati mercenari al soldo di Roma occupante da non far arrabbiare. Subito di là comincia la tetrarchia dell’Iturea e della Traconitide, retta da Filippo, un altro figlio di Erode il Grande.

“Luce grande”. Come si può essere “luce grande” nella vita quotidiana della gente indaffarata, preoccupata, tesa, tentata di ribellarsi e di alzare la voce?

Gesù è luce grande con la sua persona. Le notti passate in preghiera a contatto col Padre gli hanno fatto capire che la gente ha bisogno di sentire parlare e di vedere Dio nella propria vita di lavoro, di fatica, di gioia, di malattie, di convivenza sociale più o meno facile. E Gesù va direttamente al sodo. Proclama chiaro che occorre convertirsi, “cambiare mentalità”, perché qualcosa di grande ormai sta toccando i lembi della vita della gente. Dio Padre ha fretta di instaurare la sua regalità di amore, di misericordia, di vicinanza agli ultimi, ai poveri. Dio Padre ha fretta di amare la gente e che la gente lo sappia e lo senta. Dentro, profondamente. Nel cuore, nella testa, nelle viscere. Dio Padre vuole stare nella vita, a stretto contatto con la vita quotidiana.

La luce non cambia le cose, cambia radicalmente il modo di vederle e di viverle. Rende possibile gioirne al vederle belle, dà lo slancio e la direzione per cambiarle quando sono brutte, disumane, laceranti la vita con sfregi di oppressione, solitudine, odio, incomprensione. “Luce grande” per i pescatori del lago, per i giornalieri che coltivano con fatica le viti e gli ulivi, “luce grande” per chi vive e si arrabatta per mettere insieme pranzo e cena (di solito solo la cena…).

E Gesù cammina, passa, si intrufola nella vita quotidiana, parla con le persone, sorride loro, la sta ad ascoltare e poi, alla fine, fa loro vedere la “luce grande” che gli parte dal cuore. La bella notizia che Dio sta dalla parte degli uomini, abita la strada e il lavoro, non solo il tempio e la sinagoga. Abita la vita, l’amore, la comunione. Non può sopportare delitto e solennità, religiosità superficiale e cura affannosa dei propri interessi di corto respiro, se non addirittura di oppressione e di danneggiamento degli altri. La grande luce è il vangelo, la bella notizia, la persona di Gesù che porta la luce del Padre, proprio là nelle terre di periferie un tempo umiliate dalle tenebre e dalla morte.

Il “quintetto base” del Gelîl haggôyim

La “luce grande” splende, vede tutto. Passeggia come il Signore-YHWH nell’Eden, nella vita quotidiana degli uomini. E la luce vede, vede dentro gli uomini; vede le miserie, ma soprattutto le grandi potenzialità. Vede il bene, illumina sul meglio.

Due coppie di fratelli, in società, al lavoro quotidiano della pesca. Gesù, luce grande della Terra di Zàbulon e di Nèftali, dopo l’annuncio della buona notizia che fa appello a cambiare mentalità, illumina chiamando le persone dietro a sé. La fraternità della carne familiare è una base ottimale per il progetto di Gesù. La liberazione della “curva delle genti” comincerà da una famiglia nuova, la raccolta dei figli di Israele nella pienezza della loro fede nel volto e nell’azione del Signore-YHWH, Dio dei loro padri, presente ora nella luce di Gesù. Ci saranno stati forse dialoghi intensi, diurni e forse notturni, ma alla fine il sì alla “luce grande” viene dato.

Quattro uomini, i punti cardinali del mondo, due coppie di fratelli, lievito di una fraternità futura ancora solo intravveduta. Lasciano il bene delle loro famiglie, del loro padre, del loro lavoro. Lasciano il bene per il meglio. Anche il misterioso “servo del Signore” cantato da Is 49,6 si era sentito dire: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe… Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra». La fraternità carnale diventa lievito di comunione di discepoli che vanno dietro i passi del loro Maestro, la sua scia di luce e di calore. Si lascia la sicurezza, la tradizione, il potere (“il padre”, la barca…), le lacerazioni umanamente insanabili (“riparavano le reti”). Con Gesù inizia un “quintetto base” di una vita nuova esplosiva, luminosa, umanizzante.

Nella rete generosa del vangelo vengono raccolti uomini semivivi per farli vivere in pienezza, si guariscono esistenze paralizzate e cuori vuoti di speranza, si comincia a guardare al di là delle proprie quattro mura. L’altro sono io. La vita dell’altro mi importa, è cara per me, è luce ai miei occhi. Voglio il meglio per lui. Non più gioghi o bastoni di aguzzini, ma vita cuore a cuore, una vita con-vocata nella comunità ecclesiale.

Un “quintetto base” che esce, ascolta, annuncia, condivide speranze e passi in avanti. Vita nuova è possibile, tra le case, in mezzo a dove vive, fatica e gioisce la gente. Il vangelo non può perdere, la bella notizia che Dio ama gli uomini e sta con loro non è in discussione. Ora tutto è possibile. Il campionato è lungo, ma con la squadra del Gelîl haggôyim al completo in campo, non ce ne sarà per nessuno.

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