III Quaresima: convertirsi

di:

(Carlo Ghidelli)

Di settimana in settimana, la materna pedagogia della Chiesa esercita la sua azione efficace su di noi, a condizione che accogliamo con docilità e con intelligenza ciò che «lo Spirito dice alla Chiesa», qui e ora, cioè nella concretezza, talvolta drammatica, di quel pezzo di storia – o di cronaca – che stiamo vivendo.

Nostro specifico dovere è di accogliere tutte le stimolazioni che salgono dall’insieme delle letture bibliche di ogni domenica, consapevoli di avere sempre molto da imparare e da assimilare nel cammino di fede che ciascuno sta vivendo.

1. La prima lettura di questa domenica ci è offerta dal libro dell’Esodo: una pagina estremamente ricca di messaggi, tutti degni di essere considerati con grande attenzione.

Il primo messaggio si sprigiona dal racconto della vocazione di Mosè. Accade un fatto straordinario: il roveto arde nel fuoco, ma non si consuma. Mosè avverte il fatto e si avvicina «a osservare questo grande spettacolo», ma Dio gli dice: «Non avvicinarti oltre». Avvertiamo qui tutta la problematica del mistero di Dio fascinosum et tremendum: nello stesso tempo, Dio è realtà che affascina e incute timore, che attira e tiene lontani, che è desiderabile e temibile.

Un altro messaggio lo ricaviamo dalle parole con le quali il Signore si rivolge a Mosè per affidargli una missione estremamente difficile: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti». Annotiamo: la prima volta che Mosè vede la condizione triste e desolante nella quale versano i suoi connazionali, la vede con gli occhi di Dio. È Dio che dice: «Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa». Mosè non deve fare altro che collaborare con il Signore in questa stupenda opera di liberazione.

Un ultimo messaggio lo accogliamo dal modo con il quale Dio rivela il suo nome a Mosè. Che cosa dirò a quelli, tra i miei fratelli israeliti, che mi chiederanno il tuo nome? La richiesta di Mosè viene subito esaudita: «Io sono colui che sono!». Qui dobbiamo precisare il senso esatto di questa definizione: anche se il tetragramma divino – cioè le quattro consonanti ebraiche [YHWH] con le quali è indicato il nome di Dio – viene solitamente spiegato con l’accostamento al verbo “essere”, tuttavia qui il verbo “essere” non va inteso come una definizione metafisica di Dio, quanto piuttosto come un “essere per”: Dio è presente al suo popolo, Dio è in favore del suo popolo.

2. Il salmo responsoriale è un inno di benedizione a Dio, con il quale l’orante intende lodare il Signore Dio per tutte le meraviglie che ha operato a favore del suo popolo.

Anche se l’inizio del salmo assume un tono individuale: «Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome», tuttavia, nel prosieguo, esso enumera gli interventi salvifici di Dio a favore di Israele, il popolo eletto. È quasi spontaneo, nella preghiera cristiana, questo intreccio tra l’ io e il noi, perché ad ambedue questi aspetti ci ha educato lo stesso Gesù.

Particolare attenzione vogliamo prestare a due passaggi. Il primo è: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità». Prima di fare memoria della rivelazione fatta a Mosè e dell’implicita liberazione dall’Egitto, l’orante accenna a questa liberazione spirituale che interessa ogni israelita nel suo rapporto personale con il Signore.

Il secondo passaggio è quello relativo a Mosè: «Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele». È con questa rivelazione che prende inizio la grande epopea storica che ha visto l’umiliazione del popolo egiziano e l’esaltazione del popolo eletto. Ormai Mosè procede “nel nome del Signore”: Dio lo ha chiamato, gli ha fatto conoscere il suo nome e lo precede in tutte le sue imprese.

3.L’apostolo Paolo in questa pagina della sua prima lettera ai cristiani di Corinto, ci aiuta a rinnovare la piena consapevolezza del grande dono che per ciascuno di noi è stato e rimane il battesimo. Nel tempo quaresimale questo richiamo è di prima importanza.

Qui Paolo ci offre un lucido esempio di come lui rileggeva l’Antico Testamento e di come noi stessi possiamo e dobbiamo rileggerlo nella luce del mistero pasquale. Quando Paolo scrive: «Non voglio che ignoriate, fratelli…», dà inizio ad una sorta di catechesi con la quale intende aiutare i fedeli di Corinto a mantenersi liberi da ogni possibile “ritorno” alle pratiche della loro vita pagana.

Facendo memoria del cammino del popolo eletto verso la terra promessa, Paolo mette in risalto la differenza tra coloro che hanno preso parte all’impresa («furono tutti sotto la nube…, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale…») e la maggior parte di loro nei quali Dio non si compiacque. E il motivo è subito detto: perché hanno desiderato e goduto dei benefici divini senza penetrarne il significato, anzi mormorarono contro Mosè e contro Dio e «caddero vittime dello sterminatore».

Per i destinatari della sua lettera, l’apostolo si augura che non si ripeta la stessa cosa. Essi devono evitare questo pericolo, nella piena consapevolezza che «tutte queste cose accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento; di noi, per i quali è arrivata la fine dei tempi».

4. La pagina evangelica ci offre due distinti passaggi dell’insegnamento di Gesù: il primo offerto in termini diretti, il secondo, invece, per mezzo di una parabola. Ma tra le due parti, nella prospettiva lucana, esiste un rapporto diretto: la parabola illustra il precedente insegnamento di Gesù.

Di fronte a un paio di eventi storici di eccezionale gravità (dodici galilei che Pilato aveva fatto uccidere mentre stavano offrendo i loro sacrifici e quei diciotto che morirono schiacciati sotto la torre di Siloe), i discepoli di Gesù rimangono perplessi: non sanno rendersi conto di come certe cose possano succedere: due fatti storicamente documentati, che devono pur avere una spiegazione.

A Gesù l’onere di offrire una spiegazione. Egli non si pone nella prospettiva di coloro che vedono in quegli eventi un castigo di Dio, il quale manifesterebbe la sua giustizia anche con questo genere di eventi. Al contrario, Gesù rifiuta quella visuale così gretta e semplicistica (cf. anche Giovanni 9,2ss) e afferma che quelle persone non erano peggiori delle altre. La disgrazia che è caduta su di loro è solo il segno del giudizio che incombe su tutti.

Vi è, dunque, un avviso di Dio per tutti, per i contemporanei di Gesù e anche per noi. In altri termini, urge convertirsi: ma non per paura di fare la stessa fine di quelli, bensì per un convincimento personale.

Anche la parabola del fico sterile dev’essere interpretata nello stesso senso: il contadino, chiedendo al padrone di avere pazienza ancora per un anno, ci fa comprendere che sono due gli equivoci da sfatare: da un lato, quello di chi pensa che ormai è troppo tardi e che la pazienza di Dio si è logorata nell’attesa; dall’altro, l’equivoco di chi pensa che c’è sempre tempo e che la pazienza di Dio è senza limiti.

La risposta di Gesù è un’altra: Dio è certamente paziente, ma noi non possiamo programmare o fissare scadenze alla pazienza di Dio. C’è ancora spazio per il ritorno di Israele: questa è la prospettiva di Gesù, secondo Luca. Ancora una volta: urge convertirsi!

 

 

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