III Quaresima: Il culto del cuore

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Quando si accenna alla necessità della rinuncia, dell’autocontrollo e del sacrificio, si nota spesso, sul volto degli ascoltatori sorpresa, stupore, a volte qualche sorriso ironico e qualche ammiccamento divertito. È un’esperienza abbastanza imbarazzante; l’ha fatta anche Paolo, a Cesarea. Il procuratore romano aveva ascoltato con attenzione l’Apostolo, ma, quando questi cominciò “a parlare di giustizia, di continenza e del giudizio futuro”, lo interruppe: “Puoi andare – esclamò – ti farò chiamare di nuovo quando ne avrò il tempo” (At 24,25).

In un mondo dove il successo arride agli opportunisti, dove sono ammirati coloro che si godono la vita, si permettono ogni intemperanza e fanno della loro forza la regola della giustizia (Sap 2,6-9), chi richiama certi valori, certe scelte impegnative corre il rischio di non essere capito e di divenire impopolare.

Eppure, non è questo l’unico motivo per cui oggi l’etica cristiana è guardata con diffidenza o è irrisa.

C’è un errore che anche gli educatori animati dalle migliori intenzioni spesso commettono: espongono gli obblighi morali prima di aver parlato di Dio e del suo amore, prima di aver chiarito che egli non è l’antagonista della felicità dell’uomo, ma il Padre che vuole che i suoi figli abbiano la pienezza di vita. Questo approccio teologico e pedagogico scorretto è la prima ragione del rifiuto della morale cristiana.

Ce n’è una seconda: l’ipocrisia. È la pratica religiosa ineccepibile, disgiunta dall’amore e dalla giustizia; il culto a Dio associato all’attaccamento al denaro e al rancore verso il fratello; l’adempimento di riti esteriori per tacitare la coscienza.

Le azioni liturgiche sono autentiche solo quando celebrano una vita conforme al vangelo. Le preghiere gradite a Dio sono quelle fatte “alzando al cielo mani pure, senza ira e senza contese” (1 Tm 2,6).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“La pratica religiosa pura e senza macchia non è mai disgiunta dall’amore all’uomo ”

Prima Lettura (Es 20,1-17)

1 Dio allora pronunciò tutte queste parole:
2 “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: 3 non avrai altri dei di fronte a me. 4 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6 ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.
7 Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.
8 Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: 9 sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
12 Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio.
13 Non uccidere.
14 Non commettere adulterio.
15 Non rubare.
16 Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
17 Non desiderare la casa del tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.

La legge di Dio e i dieci comandamenti possono apparire, ai meno accorti, un’interminabile lista di divieti che suscitano un istintivo senso di rigetto o addirittura stimolano, come sosteneva Paolo, ogni sorta di desideri: “Io non avrei conosciuto la concupiscenza – affermava – se la legge non avesse detto: Non desiderare” (Rm 7,7-8).

Accostiamoci al celebre testo che ci viene proposto nella lettura di oggi, cominciando col ridare ai dieci comandamenti il loro vero nome: decalogo, cioè dieci parole. Non sono – e questo non sarà mai sottolineato abbastanza – norme giuridiche imposte da un despota che non è obbligato a giustificare i suoi ordini; non vi è allegata alcuna sanzione; c’è solo una promessa di bene per chi onora il padre e la madre: “perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio” (v. 12).

È scorretto presentarli come precetti in base ai quali, un giorno, ogni uomo verrà giudicato e riceverà un premio o subirà un castigo. No, non ci sarà un Dio irato e offeso, pronto a punire i trasgressori. Chi non ascolta il Signore non ha da temere castighi futuri, ma è chiamato piuttosto a rendersi conto che oggi sta rovinando la propria vita e danneggiando anche quella degli altri. È oggi che Dio, quale padre premuroso, si rivolge al figlio e, accorato gli raccomanda: “Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, scegli la vita, perché viva tu e la tua discendenza” (Dt 30,19).

Le dieci parole sono riportate nella Bibbia secondo due versioni (Es 20,2-17; Dt 5,6-21), introdotte dalla stessa formula: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù” (v. 2). È la chiave di lettura di tutto il testo. Il decalogo non è un giogo duro e pesante, non è un elenco di ingiunzioni immotivate, ma dieci parole di un padre che ha a cuore la vita dei figli.

Colui che indica i comportamenti da seguire, per rimanere liberi, è lo stesso Signore che ha liberato il suo popolo dall’Egitto e che non tollera alcuna forma di schiavitù.

Solo dopo essersi resi conto dell’identità dell’autore di queste dieci parole e dell’obiettivo per cui sono state pronunciate, si è disposti a rispondere a Dio, come ha fatto Israele: “Tutto quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Es 24,7).

Nessun codice dell’antico Medio Oriente ha un’introduzione simile a quella del decalogo. Il più celebre, quello di Hammurabi, è preceduto da un lungo prologo in cui il grande sovrano prima si autopresenta come “il principe zelante, incaricato di manifestare la giustizia, dirigere il popolo e insegnare la retta via al paese”, poi dà disposizioni, frutto della sua perspicacia e saggezza. Nessun re d’Israele si è mai arrogato il diritto di promulgare un codice: in Israele il cammino della vita poteva essere indicato solo da Dio.

Anche il linguaggio impiegato dalla legislazione biblica è originale e in sintonia con il versetto che introduce il decalogo.

Nei codici dell’antico Medio Oriente i precetti erano enunciati con una formula generica, impersonale: “Se uno farà la tal cosa… subirà la seguente pena…”. Non così le dieci parole. Queste sono rivolte dal Signore direttamente a ognuno: “Tu farai o tu non farai que­sto e quest’altro”. Il pio israelita è sempre interpellato direttamente dal suo Dio e non riduce mai la propria fedeltà alla stretta osservanza di norme, ma la vive come una risposta perso­nale al Signore.

Il decalogo ha avuto un’importanza notevole nella vita religiosa d’Israele. Costituiva la sintesi di tutta la Toràh, era letto solennemente durante la festa delle capanne ed era usato nella liturgia quotidiana del tempio. Anche oggi, ogni giudeo lo ripete, due volte al giorno, nelle preghiere del mattino e della sera. Nella festa del bar mitzvàh, colui che, raggiunti i 13 anni, diviene un adulto, lo proclama davanti a tutta l’assemblea riunita nella sinagoga, per dichiarare la sua decisione di rimanere fedele a tutta la legge del suo popolo.

L’interesse per il decalogo è sempre stato tanto elevato che i sacerdoti del tempio ne avevano ristretto l’uso ad alcuni momenti particolarmente solenni, mentre alcuni rabbini, per impedire che si diffondesse la convinzione che soltanto i “dieci comandamenti” erano stati dati da Dio, sostenevano che, sulle due tavole, fra una lettera e l’altra del decalogo, Dio aveva scritto tutti i 613 precetti.

Di fronte all’importanza che ha sempre avuto il decalogo nella religione giudaica, stupisce che, nel Nuovo Testamento, non sia mai citato esplicitamente e non abbia avuto un posto specifico nella predicazione di Gesù e della chiesa primitiva. Solo Marco riferisce che Gesù, una sola volta, lo ha citato e in modo incompleto (Mc 10,19). Benché il suo valore non venga mai messo in discussione, non ha occupato il centro della predicazione morale del Maestro, non è mai stato identificato con la volontà di Dio.

Gesù ha riassunto tutta la Toràh non più in dieci parole, ma, prima in due: “Ama Dio e ama il prossimo tuo” (Mt 22,34-40), poi in una soltanto: “Ama il fratello” (Gv 13,34-35). In tutto il resto del Nuovo Testamento si parla sempre di un solo comandamento, come ricorda Paolo: “Chi ama il fratello ha adempiuto tutta la legge. Infatti i precetti: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non concupire e qualsiasi altro comandamento si riassumono in queste pa­role: Ama il prossimo tuo come te stesso” (Rm 13,8-9).

Il precetto dell’amore non è solo la sintesi di tutti i comanda­menti, ma spalanca orizzonti e possibilità infiniti. Nessuno dei “dieci comanda­menti” obbliga ad amare il nemico, a perdonare senza limiti e senza condizioni, a distribuire generosamente i propri beni a chi è nel bisogno, a sa­crificare la vita per il fratello, compreso il nemico. Nulla di tutto ciò è imposto dai “dieci comanda­menti”, ma la legge dell’amore lo richiede; esige l’attenzione costante al fratello, la generosità senza limiti, un cuore grande come quello del Padre che sta nei cieli.

Se il discepolo di Cristo è colui che è disposto, come il Maestro, a donare, in ogni momento, la propria vita, ha ancora senso ricordargli che non deve uccidere, rubare, commettere adulterio…?

Le dieci parole sono sempre attuali, anche se indicano solo i primi passi, i più elementari e indispensabili della sequela. Non esauriscono tutta la legge di Dio perché, come dice Paolo: “Solo l’amore è il pieno compimento della legge” (Rm 13,10); sono tuttavia utili perché richiamano quelle che sono le frontiere minime dell’amore. Chi si rendesse conto di non essere fedele neppure a queste, dovrebbe prendere atto della sua drammatica condizione e ammettere di avere oltrepassato anche l’ultimo steccato che lo separava dalle scelte di morte.

Seconda Lettura (1 Cor 1,22-25)

Fratelli, 22 mentre i giudei chiedono i miracoli e i greci cercano la sapienza, 23 noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani; 24 ma per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. 25 Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

In questi quattro versetti abbiamo, in sintesi, la predicazione di Paolo: Cristo crocifisso è il segno dell’amore di Dio e, di fronte a questo amore, nessuno può rimanere indifferente; tutti devono prendere posizione.

Due sono le risposte negative: quella dei giudei, per i quali Gesù crocifisso è uno scandalo e quella dei greci, che lo considerano una follia.

I giudei si attendevano manifestazioni spettacolari della potenza di Dio, com’era accaduto durante l’esodo dall’Egitto; erano convinti che il mondo nuovo sarebbe sorto in modo prodigioso (v. 22). Gesù invece, sfidato a mostrare, scendendo dalla croce, che Dio stava dalla sua parte, ha accettato la sconfitta.

I saggi della Grecia non credevano nei miracoli, si fidavano solo, come gli illuministi settecenteschi, della razionalità (v. 23). La morte di Gesù in croce non rispondeva a nessuna logica umana ed era perciò un’autentica pazzia.

I due atteggiamenti sono denunciati da Paolo perché possono infiltrarsi sempre anche nelle comunità dei discepoli. Ci può essere chi ragiona come i giudei e considera la fede e la religione mezzi per ottenere grazie e miracoli, per essere preservati da sventure e dalle disgrazie che colpiscono gli altri uomini. Molti cristiani non venerano forse i santi più come autori di prodigi che come testimoni di colui che ha dato la vita per i fratelli?

Ci possono anche essere cristiani che si comportano da greci: pretendono prove razionali della fede e dimenticano che, per chi giudica secondo i criteri degli uomini, la proposta di Cristo rimarrà sempre una follia.

Vangelo (Gv 2,13-25)

13 Si avvicinava intanto la Pasqua dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14 Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. 15 Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, 16 e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. 17 I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora. 18 Allora i giudei presero la parola e gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”. 19 Rispose loro Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. 20 Gli dissero allora i giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. 21 Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22 Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
23 Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome. 24 Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti 25 e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo.

La scena della cacciata dei mercanti dal tempio è riferita da tutti e quattro gli evangelisti e questo dimostra l’importanza da loro attribuita al fatto.

Nel tempo di Pasqua, Gerusalemme brulicava di pellegrini, giunti da ogni parte del mondo per celebrare la festa, offrire sacrifici e adempiere voti. La città, che normalmente contava cinquantamila abitanti, in occasione della Pasqua poteva raggiungere i centottantamila, per questo tutte le famiglie erano coinvolte nell’accoglienza di qualche ospite. Molti pellegrini giungevano da paesi lontani, dopo aver risparmiato, fatto sacrifici e rinunce per anni, per potersi permettere, forse per l’unica volta nella vita, “il santo viaggio” (Sl 84,6). Durante i giorni della festa si recavano al tempio per pregare, consigliarsi con i sacerdoti, offrire olocausti al Signore, consegnare le loro generose offerte con le monete di rame, le uniche che potevano circolare nel luogo santo; i denari di Roma erano dichiarati legalmente impuri e dovevano essere cambiati agli appositi tavoli dei cambiavalute.

Per i commercianti il tempo della Pasqua era un’opportunità da non perdere: in poche settimane potevano accumulare più guadagni che durante tutto il resto dell’anno. Nonostante i prezzi elevati, i pellegrini gremivano i negozi dalle prime ore del mattino fino a tarda notte. Difficile per i sacerdoti del tempio resistere alla tentazione di entrare in un giro d’affari tanto redditizio e, difatti, durante le tre settimane che precedevano la Pasqua, sotto i portici del sacro recinto, aprivano anch’essi un loro mercato. Avevano adibito il portico regio alla vendita degli agnelli (si dice che, per la cena pasquale, ne venissero sacrificati 18.000), dei buoi e degli altri animali; in fondo alla scalinata che, dalla parte sud occidentale, introduceva nel tempio, erano stati ricavati quattro vani, destinati ai cambiavalute che, per la loro commissione, operavano una trattenuta del dodici per cento. Dentro e attorno al luogo santo, il viavai era indescrivibile, era tutto un vociare di mercanti, allevatori, conciatori di pelli, guardie, pellegrini.

Beneficiari di questo commercio erano gli aristocratici di Gerusalemme, appartenenti alla setta dei sadducei. I gestori erano i membri della famiglia dei sommi sacerdoti Anna e Caifa che, da decenni, mantenevano il controllo del potere economico e religioso della capitale.

La casa di preghiera era stata trasformata, dai suoi stessi ministri, in un luogo di mercato.

L’episodio drammatico narrato nel vangelo di oggi va inserito in questo contesto. È in occasione di una festa di Pasqua che Gesù, giunto al tempio, s’imbattè nello spettacolo indegno sopra descritto (vv. 13-14).

Le emozioni che ha provato non sono riferite da nessun evangelista, ma sono facili da intuire, se si considera la reazione che ha avuto: non ha pronunciato una parola, si è fatto una sferza, probabilmente servendosi delle corde con cui erano legate le bestie, poi ha cominciato, con furia, a cacciar fuori tutti da sotto il portico regio, ha mandato all’aria le sedie, il denaro, le gabbie delle colombe; poi, senza fermarsi un attimo, è sceso dalla scalinata e, colti di sorpresa i cambiavalute, ha rovesciato i loro tavoli e gettato a terra le monete che vi erano ammucchiate sopra.

Giovanni, unico fra gli evangelisti, nota che, oltre ai venditori, sono stati scacciati anche le pecore e i buoi (v. 15).

Il gesto di Gesù ha decretato la fine della religione legata all’offerta di animali e ha dichiarato il rifiuto, da parte di Dio, dei sacrifici cruenti, la cui inconsistenza era già stata denunciata dai profeti: “Che m’importa – aveva affermato il Signore – dei vostri sacrifici senza numero? Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco” (Is 1,11). Nella prova massima d’amore che Gesù stava per dare, sarebbe stato indicato l’unico sacrificio gradito al Padre, quello che, ai cristiani delle sue comunità, Giovanni avrebbe spiegato così: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16).

Il gesto compiuto da Gesù nel tempio è sorprendente. Da chi si era presentato “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), nessuno si sarebbe aspettato una reazione simile, quasi scomposta. Perché si è comportato in questo modo? La spiegazione si trova nelle due frasi da lui pronunciate.

La prima: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato” (v. 16). Si riferiva a un oracolo del profeta Zaccaria che, dopo aver annunciato la comparsa di un mondo completamente rinnovato, un mondo in cui il Signore sarebbe divenuto re di tutta la terra e il paese sarebbe stato trasformato in giardino, concludeva: “Non vi sarà più alcun commerciante nella casa del Signore dell’universo” (Zc 14,21).

Purificando il tempio dai mercanti, Gesù ha pronunciato la sua condanna, severa, inappellabile contro ogni commistione fra religione e denaro, fra culto al Signore e interessi economici. Dall’uomo Dio si attende solo amore e l’amore è gratuito, si manifesta e si alimenta solo attraverso doni generosi e disinteressati. Per evitare pericolosi equivoci, Gesù ha ingiunto ai discepoli: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento” (Mt 10,9-10).

L’insegnamento più importante si trova, però, nella seconda frase: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (v. 19). Non si riferiva più al commercio e ai traffici indegni che si svolgevano in quel santuario, ma all’inaugurazione di un nuovo tempio; annunciava l’inizio di un nuovo culto. Chiarificatore è il commento dell’evangelista: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (v. 21).

I giudei erano convinti che Dio dimorasse nel santuario di Gerusalemme, dove accorrevano per offrirgli sacrifici. Gesù ha dichiarato che questa religione aveva ormai adempiuto la sua funzione.

La drammatica scena dello squarciarsi del velo del tempio (Mt 27,51) avrebbe segnato la fine di tutti gli spazi sacri, di tutti i luoghi riservati all’incontro con Dio; sarebbe stata la solenne dichiarazione che era finito il tempo della separazione fra il sacro e il profano. Ovunque si trovi, chi è in comunione con Cristo è unito a Dio e può adorare il Padre.

Il gesto di Gesù non equivale a una semplice correzione di abusi, ma è l’annuncio della scomparsa del tempio, considerato una garanzia della presenza di Dio e della salvezza. L’incontro dell’uomo con Dio non sarebbe più avvenuto in un luogo particolare, ma in un nuovo tempio: il corpo di Cristo risorto.

Alla samaritana che gli chiedeva in quale luogo si sarebbe adorato il Signore, Gesù rispose: “Credimi donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. I veri adoratori renderanno culto al Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca chi lo adora così” (Gv 4, 21-24).

Alcuni testi del Nuovo Testamento chiariscono in che cosa consiste il nuovo culto introdotto da Gesù. Scrivendo ai romani, Paolo raccomanda: “Vi esorto, fratelli, per questa tenerezza di Dio, ad offrire la vostra stessa esistenza come sacrificio vivo, consacrato e gradito a Dio; è questo il vostro culto autentico” (Rm 12,1) e l’autore della Lettera agli ebrei: “Non dimenticatevi della beneficienza e condividere i vostri beni con gli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (Eb 13,16). Giacomo concretizza ancor più il contenuto del nuovo culto: “Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e mantenersi immuni dai vizi di questo mondo” (Gc 1,27). Questi sacrifici che il cristiano è chiamato a offrire non hanno luogo in un ambiente sacro né mediante riti, ma nella stessa vita.

La costruzione del nuovo tempio è iniziata – come per due volte viene ripetuto nel vangelo di oggi – dopo tre giorni (v. 20), cioè nel giorno di Pasqua.

Risuscitando dai morti il proprio figlio, il Padre ha posto la pietra angolare del nuovo santuario. Pietro esorta i neo-battezzati delle sue comunità a unirsi a Cristo, “pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” e spiega: “Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio” (1 Pt 2,4-5).

Ora è chiaro: l’unico sacrificio gradito a Dio è il dono della vita, sono le opere di amore, il servizio generoso prestato all’uomo, specialmente al più povero, all’ammalato, all’emarginato, a colui che ha fame, a chi è nudo. Chi si china davanti al fratello per servirlo, compie un gesto sacerdotale: unito a Cristo, tempio di Dio, fa salire verso il cielo il profumo soave di un’offerta pura e santa.

Che senso hanno allora le nostre solenni liturgie, i sacramenti, i canti, le processioni, i pellegrinaggi, le preghiere comunitarie, le pratiche devozionali?

Non danno nulla a Dio, non aggiungono nulla alla sua gioia perfetta.

Le manifetazioni religiose rispondono però a un intimo bisogno dell’uomo: celebrare, attraverso gesti e segni sensibili, da soli e in comunità, ciò in cui si crede. I sacramenti sono segni mediante i quali Dio comunica il suo Spirito e l’uomo gli manifesta la propria gratitudine per questo dono. L’errore è ritenere che l’esecuzione di riti basti a stabilire un buon rapporto con il Signore e che la partecipazione a solenni celebrazioni possa sostituire le opere concrete d’amore.

Il brano evangelico si chiude con un’informazione sorprendente: durante la festa, Gesù compì dei segni e molta gente credette in lui, ma egli non si fidava di loro perché li conosceva tutti e sapeva quello che c’è in ogni uomo (vv. 23-25).

La ragione di questo atteggiamento distaccato di Gesù sta nel fatto che queste persone si erano accostate a lui non perché attratte dal suo messaggio, ma perché avevano assistito a prodigi. La fede che ha bisogno di vedere, di verificare opere straordinarie è fragile. Gesù non si fiderebbe, neppure oggi, di chi lo cerca come operatore di miracoli. La vera fede consiste nell’accettare di divenire, insieme con lui, pietre vive del nuovo tempio e nell’immolare la propria vita per i fratelli.

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