Per itinerari diversi, giunsero alla stessa meta

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Con una frase a noi ben nota – “Avevano un cuore solo e un’anima sola” – Luca sintetizza il pieno accordo esistente nella comunità primitiva (At 4,32).

Eppure, nella storia della Chiesa, raramente si sono registrati tensioni e contrasti tanto forti come quelli verificatisi nei primi decenni. I cristiani di origine giudaica – custodi gelosi delle consuetudini religiose del loro popolo – esigevano che si continuasse ad osservare le prescrizioni della legge, come segno di fedeltà a Dio.

Gli spiriti più aperti invece avevano preso coscienza che “le tradizioni degli antichi” avevano adempiuto il loro compito (portare a Cristo). Continuare a imporle costituiva un serio ostacolo per i pagani che desideravano aderire al vangelo.

Pietro – un conservatore, per l’educazione ricevuta, anche se non fanatico – cercò di mediare fra le due anime della comunità, ma scontentò un po’ tutti.

Paolo – lui sì un tradizionalista fanatico – era partito dalle posizioni più rigide della religione giudaica, poi era giunto a una rottura radicale con il passato, al punto da divenire intollerante con chi – come Pietro – non aveva il coraggio di fare scelte radicali. Un giorno, ad Antiochia di Siria, lo insultò pubblicamente dandogli dell’ipocrita (Gal 1,11-14).

In seguito, i rapporti fra i due apostoli furono ristabiliti e in una sua lettera Pietro chiama Paolo “nostro fratello carissimo” (2 Pt 3,15).

Insieme hanno dato la vita per Cristo e insieme oggi li festeggiamo.

Per cammini diversi – e molto lentamente – sono giunti a riconoscere in Gesù il messia di Dio.

Pietro ha incontrato per la prima volta colui che doveva divenire il suo Maestro lungo il lago di Galilea. All’inizio lo identificò come il carpentiere venuto da Nazaret; poi si rese conto che era un grande profeta; in seguito, a Cesarea di Filippo, scoprì finalmente la sua vera identità. Dichiarò: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mc 8,27).

Professò una formula di fede perfetta. Tuttavia, credere in Cristo non significa aderire a un pacchetto di verità, ma condividere le scelte di vita che egli propone. I sogni che coltivava Pietro non erano quelli del Signore: “Tu non pensi secondo Dio – gli disse Gesù – ma secondo gli uomini” (Mc 8,33).

Solo alla luce della Pasqua cominciò a capire e, timidamente, giunse a confessare la sua fragile fede: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).

Paolo ha percorso un cammino diverso. Ha considerato Gesù prima come un avversario da combattere, un demolitore delle speranze messianiche d’Israele, un bestemmiatore che predicava un Dio diverso da quello dalle guide spirituali del suo popolo.

Lo aveva conosciuto “secondo la carne” (2 Cor 5,16), secondo i criteri religiosi, politici e sociali di questo mondo. In base a questi parametri, non poteva che giudicarlo un malfattore, un sovvertitore dell’ordine stabilito, un eretico.

Sulla via di Damasco ricevette la luce dall’alto e comprese: Gesù, il crocefisso, è il Messia di Dio. Da quel momento tutto ciò che per lui costituiva un prezioso tesoro, si trasformò in spazzatura (Fil 3,7-8).

Se la nostra esperienza di fede è meno sofferta di quella dei due apostoli che oggi festeggiamo, forse non è altrettanto autentica.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Le vie sono diverse, ma tutte conducono al Signore.

Prima lettura (At 12,1-11)

1 In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa 2 e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. 3 Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Azzimi. 4 Fattolo catturare, lo gettò in prigione, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua.
5 Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui. 6 E in quella notte, quando poi Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro piantonato da due soldati e legato con due catene stava dormendo, mentre davanti alla porta le sentinelle custodivano il carcere.
7 Ed ecco gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: “Alzati, in fretta!”. E le catene gli caddero dalle mani. 8 E l’angelo a lui: “Mettiti la cintura e legati i sandali”. E così fece. L’angelo disse: “Avvolgiti il mantello, e seguimi!”. 9 Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si era ancora accorto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva infatti di avere una visione. 10 Essi oltrepassarono la prima guardia e la seconda e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città: la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si dileguò da lui. 11 Pietro allora, rientrato in sé, disse: “Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei”.
12 Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera.

Compagno di bagordi di Caligola, Erode Agrippa aveva ottenuto dall’amico, divenuto imperatore, il regno del nonno, Erode il grande. Era un usurpatore ma, abile demagogo, seppe cattivarsi le simpatie del popolo giudaico, ostentando un’osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni. Per compiacere le frange più oltranziste, cominciò anche a perseguitare i cristiani, invisi al popolo perché si scostavano dalla pratica religiosa degli antichi e non si facevano scrupolo di sedersi a mensa con i pagani. Fece uccidere Giacomo di Zebbedeo e arrestare Pietro con il proposito di giustiziarlo davanti al popolo nella settimana dopo la Pasqua quando Gerusalemme brulicava ancora di pellegrini.

Chiuso nella prigione, Pietro dormiva. Il suo sonno può essere interpretato come espressione di serenità interiore, ma anche come segno di resa di fronte allo strapotere del male.

Solidale con lui, la comunità riunita elevava a Dio la sua supplica “incessante e intensa”. Era notte e, quando tutte le speranze umane parevano svanite, ecco le catene spezzarsi, la porta di ferro spalancarsi, un angelo scendere dal cielo e liberare l’apostolo.

Reportage di un fatto o racconto favolistico?

Troppo bello per essere vero! – verrebbe da dire – Non sarebbe difficile credere in un Dio che soccorre in questo modo i suoi fedeli e che, quando li vede in difficoltà, invia i suoi angeli per liberarli.

Il libro degli Atti è stato scritto al tempo di Domiziano, il despota folle che pretendeva gli si rendesse culto come a un dio e che sottoponeva a vessazioni i cristiani che non si piegavano alle sue deliranti disposizioni.

Per infondere coraggio e speranza in questi discepoli perseguitati, Luca ricorda loro le prove cui sono stati sottoposti, fin dagli inizi, gli apostoli e come essi si siano mantenuti fedeli anche a costo della vita.

C’è un secondo messaggio che egli intende comunicare: Dio non abbandona mai chi mette in gioco la propria vita per il vangelo.

Non lo enuncia a parole, ma lo illustra con un episodio accaduto a Gerusalemme una quarantina d’anni prima: Pietro era stato imprigionato e, quando tutti erano ormai rassegnati al peggio, in modo inatteso egli era stato messo in salvo.

Le circostanze in cui questa liberazione era avvenuta sono difficili da stabilire e non interessavano a Luca. Ciò che a lui premeva era mostrare che il Signore era intervenuto in favore del suo apostolo e, per dare un tono di freschezza al racconto, mantenere viva l’attenzione del lettore e disporlo a cogliere il messaggio, ha introdotto nella vicenda dettagli meravigliosi presi dall’Antico Testamento.

L’immagine centrale è il misterioso angelo del Signore che, sfolgorante di luce, si è presentato a Pietro.

Quando la Bibbia parla di angeli, non dobbiamo subito pensare a creature eteree con ali, capelli fluenti e lineamenti dolci. L’espressione “angelo del Signore” è impiegata nella Bibbia per designare l’azione di Dio nel mondo, descrive il suo intervento efficace nella storia (Gn 16,7-13; 21, 17-19; 22,11,16ss; Es 3,1-5; Gdc 2,1-5; 2 Re 1,3.15; At 8,26.29).

Qualche volta l’“angelo del Signore” indica direttamente Dio, ma più spesso un suo intermediario umano. Per esempio, quando il Signore dice al suo popolo: “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato… Il mio angelo camminerà alla tua testa” (Es 23,20-24) non si riferisce a uno spirito, ma a un uomo concreto, a Mosè. È lui l’“angelo” incaricato di portare a compimento la liberazione di Israele.

Dobbiamo essere molto cauti nell’interpretare queste “apparizioni”.

Le visioni, le voci del cielo, l’intervento di personaggi soprannaturali spesso non sono altro che un linguaggio umano, impiegato per mettere in risalto un fatto reale e concreto, ma ineffabile: la provvidenza, l’assistenza del Signore, la luce interiore che egli concede ai suoi fedeli. Gli autori biblici passano spesso sotto silenzio le cause seconde, i mediatori, le circostanze e indicano immediatamente l’autore principale, Dio che ha guidato l’avvenimento.

La chiave di lettura di tutto il brano è la frase che Pietro pronuncia quando si rende conto di ciò che gli è accaduto: Ora – soggiunge – sono veramente certo che è stato il Signore a liberarmi dalla mano di Erode (v. 11). Ha compreso che la salvezza non era dovuta a una sua iniziativa, ma era opera del Signore.

A Roma, durante la persecuzione di Nerone, Pietro e Paolo non furono scampati dalla morte; nessuno li difese, anzi – come scrive Clemente romano nella sua lettera ai cristiani di Corinto – “I buoni apostoli Pietro e Paolo, le maggiori e più virtuose colonne della Chiesa”, sono caduti vittime “di geloso zelo e di invidia”, probabilmente dei loro stessi fratelli di fede (1 Clem. 5,2-7).

Tuttavia, lì l’“angelo del Signore” ha compiuto un prodigio ancora più straordinario: ha liberato i due apostoli non dalle catene, ma dal timore di offrire la vita per Cristo.

È questo il prodigio che il Signore vuole realizzare anche oggi in ogni autentico discepolo: liberarlo dalle catene che lo tengono prigioniero e gli impediscono di correre spedito lungo la via tracciata da Gesù.

Seconda lettura (2 Tm 4,6-8.17-18)

Carissimo, 6 il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. 8 Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
16 Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. 17 Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. 18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

La lettera dalla quale è tratto questo brano non è stata scritta da Paolo, ma da un suo fedele discepolo che, per infondere coraggio nei cristiani delle sue comunità perseguitati, fa loro contemplare, nella figura dell’apostolo delle genti, il prototipo del discepolo, l’ideale del martire coraggioso.

Nell’ultima sezione della lettera pone sulle labbra di Paolo un commovente discorso di addio.

L’Apostolo è in carcere a Roma ed è in attesa dell’ormai imminente esecuzione capitale. Il suo sangue “sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele” (v. 6).

Non parla di morte, ma di partenza per una meta a lungo sospirata.

Con un’immagine nautica dice che sta dispiegando le vele per staccarsi da questa riva e raggiungere il porto sicuro, la patria celeste dove è approdato Cristo.

 Scrivendo ai filippesi aveva già espresso il medesimo anelito: “Per me vivere è Cristo e il morire un guadagno… Desidero essere sciolto dal corpo per essere con Cristo” (Fil. 1,21.23).

Come aveva fatto a Mileto, salutando gli anziani di Efeso (At 20,27-38), anche qui, ricorrendo a immagini, fa un bilancio di tutta la sua vita.

Si è comportato da soldato fedele per cui è certo che il suo Signore si complimenterà con lui per l’impegno profuso e il coraggio manifestato.

Ha gareggiato da atleta serio: si è sacrificato senza riserve, si è sottoposto a ogni tipo di rinuncia per vincere la gara. Durante la corsa non ha mai sbandato, si è attenuto alle regole e ora taglia il traguardo (v. 7).

È vecchio e stanco per il lavoro compiuto e le lotte che ha affrontato. Si affida al Signore, giusto giudice che non gli consegnerà una effimera corona di alloro, ma una gloriosa “corona di giustizia”, quella che Dio offrirà non soltanto a lui, ma “a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (v. 8), a coloro che, nell’attesa dell’incontro con il Signore, hanno condotto una vita coerente con il vangelo.

Nella seconda parte del brano (vv. 16-18) l’autore della lettera dà gli ultimi ritocchi alla figura idealizzata del maestro.

Ispirandosi ai Salmi – che spesso presentano la figura dell’innocente perseguitato e indifeso – mostra realizzata in Paolo l’immagine biblica del giusto abbandonato da amici e vicini, ma capace di perdonare chi gli ha fatto del male e di affidare il proprio destino al Signore.

Questi versetti sintetizzano in modo mirabile la vita dell’Apostolo. La sua adesione esemplare al vangelo ci viene proposta oggi per stimolarci a condurre una vita più coerente con la fede che professiamo.

Vangelo (Mt 16,13-19)

13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”.
14 Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. 15 Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”.
16 Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
17 E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.

A Filippo – uno dei figli prediletti – Erode il grande, pochi giorni prima di morire, aveva assegnato la parte nord del suo regno, quella terra di Bashàn – l’attuale Golan – che nella Bibbia è celebrata per la fertilità del suolo, i pascoli rigogliosi, la fecondità dei greggi e degli armenti. Nel punto più incantevole di questa regione, là dove, fresche e abbondanti, scaturiscono le acque del fiume Giordano e dalla pianura, irrigata da innumerevoli ruscelli, sale il profumo di una vegetazione lussureggiante, Filippo aveva edificato la sua capitale che, in onore del potente di turno, l’imperatore Tiberio, aveva chiamato Cesarea.

Prima la località si chiamava Panias perché si riteneva che, in questo angolo di paradiso, Pan e le Ninfe avessero stabilito la loro dimora.

È in questa deliziosa cornice che l’evangelista colloca le due domande che Gesù rivolge ai suoi discepoli: “Chi è per la gente il figlio dell’uomo?”; “E voi chi dite che io sia?”.

Il contesto geografico in cui l’episodio è ambientato conferisce ai due quesiti una carica particolare.

I discepoli sono affascinati dal paesaggio, dalla vita agiata degli abitanti della regione e dalla magnificenza dei due palazzi del tetrarca.

È di fronte a questo spettacolo che Gesù vuole che prendano coscienza della scelta che si impone a chi lo vuole seguire.

Cosa si aspetta da lui la gente e, soprattutto, cosa si aspettano loro, i discepoli?

Pan e le Ninfe mostrano di saper colmare di beni della terra i loro devoti; Gesù cos’è in grado di offrire? Ai suoi amici Filippo elargisce ricchezza, posizioni di prestigio e di potere, li fa partecipi delle gioie della sfarzosa vita di corte. Gesù assicura qualcosa di meglio?

Cosa si dice in giro sul suo conto?

La risposta a questo primo quesito è semplice: la gente lo accosta a personaggi eminenti, al Battista, a Elia, a Geremia, agli antichi profeti (vv. 13-14).

 È innegabile l’ammirazione degli uomini di tutti i tempi per Gesù, eppure la stima e la venerazione per lui non sono sufficienti per essere considerati suoi discepoli.

A lui non basta essere ritenuto la personificazione di valori eccellenti, perseguiti in genere da tutte le persone di buona volontà; non vuole essere considerato uno dei tanti che si sono distinti per l’onestà e la lealtà, per l’amore ai poveri, per l’impegno profuso in favore della giustizia, della pace, della non violenza.

Vuole sapere cosa pensano di lui i discepoli: “Chi sono io per voi?”.

A nome anche degli altri, Pietro risponde: “Tu sei il Cristo”, il messia, il salvatore annunciato dai profeti e atteso dal nostro popolo (v. 16).

La professione di fede che ha pronunciato è perfetta, ma si è reso conto di ciò che implica?

Il seguito del racconto (non riportato nel brano evangelico odierno), mostra chiaramente che Pietro, in realtà, non ha capito nulla del Cristo. Pensa ancora al messia che – più del dio Pan – sarà in grado di favorire il benessere terreno; ritiene che, ai suoi seguaci, egli conferirà gloria e potere – come fa il divo Augusto, in cui onore Erode il grande ha edificato uno splendido tempio sulla sorgente del Giordano.

Nella seconda parte del brano (vv. 17-20) l’evangelista riferisce la risposta di Gesù a Simone: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa…”.

L’interpretazione di questa dichiarazione del Maestro non è semplice. Per quale ragione e in che senso Simone è chiamato “pietra” su cui viene edificata la chiesa? Una semplice affermazione del primato del papa? No, molto di più.

Cominciamo a fare due osservazione che ci aiutano a capire meglio questo importante testo.

 Anzitutto notiamo che della “roccia” posta a fondamento della chiesa si parla altre volte nel NT e questa “roccia”, solida, inamovibile, è sempre e solo Cristo.

“Nessuno – dichiara Paolo – può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1 Cor 3,11).

Ai cristiani delle comunità dell’Asia Minore ricorda così la loro gloriosa condizione: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2,19-21).

Più esplicito ancora è Pietro che, nella sua prima lettera, invita i neo-battezzati a non staccarsi mai da Cristo, perché egli è la “pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”. Poi sviluppa l’immagine e, rivolto ai cristiani, dice: “Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale”, uniti come siete alla “pietra angolare, scelta, preziosa” collocata da Dio, nel giorno di Pasqua, come base di tutta la costruzione (1 Pt 2,4-6).

La seconda osservazione è che il nome dato a Simone – Cefa-Pietro – in aramaico (la lingua parlata da Gesù) non significa roccia, ma semplicemente pietra da costruzione.

La pietra di cui parla Gesù è la fede professata da Pietro.

È questa fede che costituisce il fondamento della chiesa, che la mantiene unita a Cristo-roccia, che la rende incrollabile e le permette di non essere mai sopraffatta dalle forze del male. Tutti coloro che, come Pietro e con Pietro, professano questa fede, vengono inseriti, come pietre vive, nell’edificio spirituale progettato da Dio.

L’espressione le porte dell’inferno non va materializzata. Queste porte rappresentano il potere del male, indicano tutto ciò che si oppone alla vita e al bene dell’uomo. Nulla mai – assicura Gesù – potrà impedire alla chiesa di portare a compimento la sua opera di salvezza, a condizione che rimanga strettamente unita a lui, il figlio del Dio vivente.

Pietro riceve anche le chiavi e il potere di legare e di sciogliere.

Sono due immagini impiegate spesso dai rabbini.

Consegnare le chiavi equivale ad affidare l’incarico di gestire la vita che si svolge all’interno di un palazzo; significa concedere il potere di introdurre in casa o di negare l’accesso.

I rabbini erano convinti di possedere “le chiavi della Toráh” perché conoscevano le sacre Scritture; ritenevano che tutti dovevano dipendere dalle loro decisioni dottrinali, dai loro giudizi; si arrogavano il diritto di discriminare fra giusti e ingiusti, fra santi e peccatori.

Gesù riprende questa immagine nella sua dura requisitoria contro gli scribi: “Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito” (Lc 11,52). Invece di aprire la porta della salvezza, essi la sbarravano, non rivelando al popolo il vero volto di Dio e la sua volontà.

A costoro Gesù ha sottratto la chiave di cui si erano abusivamente appropriati; ora è soltanto sua.

Riprendendo la profezia di Isaia su Eliakìm (Is 22,22), il veggente dell’Apocalisse dichiara che è Cristo, e nessun altro, “colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre” (Ap 3,7).

L’edificio spirituale cui Gesù fa riferimento è “il regno dei cieli”, la condizione nuova in cui entra chi diviene suo discepolo e la chiave che permette di entrare è la fede professata da Pietro.

Consegnando le chiavi a Pietro, Gesù non lo incarica di fare il portinaio del paradiso, né, tanto meno, di “farla da padrone” sulle persone a lui affidate, ma gli ingiunge di “divenire modello del gregge” (1 Pt 5,3), gli affida il compito di spalancare a tutti l’ingresso alla conoscenza di Cristo e del suo vangelo. Chi passa attraverso la porta aperta da Pietro con la sua professione di fede (è questa la “porta santa”) accede alla salvezza; chi si rifiuta rimane escluso.

L’immagine del legare e sciogliere si riferisce alle decisioni riguardanti le scelte morali. Legare significava proibire, sciogliere era a dichiarare lecito. Indicava anche il potere di pronunciare giudizi di approvazione o di condanna del comportamento delle persone e quindi di ammetterle o di escluderle dalla comunità.

Dal brano evangelico di oggi, come da numerosi altri testi del Nuovo Testamento (Mt 10,2; Lc 22,32; Gv 21,15-17), risulta chiaro che a Pietro è affidato un incarico particolare nella chiesa: è lui che compare sempre per primo, che è chiamato a pascere gli agnelli e le pecorelle e che deve sostenere nella fede i suoi fratelli.

I malintesi e i dissensi non sono nati da questa verità, ma dal modo in cui questo servizio è stato svolto. Lungo i secoli tante volte è degenerato e da segno di amore e di unità è divenuto espressione di potere.

In ogni tempo l’esercizio di questo ministero va confrontato con il vangelo, in modo che il vescovo di Roma sia realmente e per tutti – secondo la stupenda definizione di Ireneo di Lione (secolo II) – “colui che presiede alla carità”.

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