IV di Pasqua: La pupilla del pastore

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Nella festosa sequela dei cinquanta giorni del tempo pasquale assimiliamo lentamente e gustiamo interiormente un mistero così grande – quello della risurrezione di Gesù e della nostra inaugurata col battesimo – che ci richiede calma, contemplazione, degustazione e testimonianza.

La gioia è grande non perché manchino in questo tempo situazioni dolorose a livello personale, ecclesiale e civile, ma perché ci sentiamo rassicurati dal sentirci custoditi dal mistero che ha coinvolto in pienezza Gesù nostro Signore e nel quale egli ci vuole trascinare e custodire perché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena.

Ciechi, recinti e ladri

La pericope evangelica di questa domenica apre il c. 10 del Vangelo di Giovanni conosciuto giustamente come il brano riguardante “Gesù il buon Pastore”. Occorre però che teniamo presente il fatto che la pericope si inserisce in un blocco letterario che si apre in Gv 8,59 e si chiude in Gv 10,21. In Gv 8,59, Gesù, dopo una durissima polemica con “i giudei” – le forze cioè a lui ostili che comprendono per lo più i capi religiosi: sacerdoti, scribi e farisei –, esce dal tempio.

Alcuni giudei avevano cominciato a dargli un certo credito (8,31) – non però una fede pasquale piena! –, ma poi la polemica conduce al rifiuto totale con un tentativo di lapidazione, la fuga e il nascondimento di Gesù dalla loro ricerca e, infine, l’uscita dal tempio. Fuori di esso Gesù trova il cieco nato (9,1) e lo guarisce (Gv 9). Ma i capi religiosi non accettano il fatto e, dopo aver insultato con arroganza il cieco guarito, «lo gettano fuori/exebalon auton exō» dal tempio (9,34).

Gesù viene a sapere che «lo avevano gettato fuori/exebalon auton exō» (9,35), lo trova e lo conduce alla professione di fede piena (9,38). Accusa poi alcuni farisei di peccato impenitente, perché nella loro arroganza non si sentono bisognosi di “vederci” veramente, rimanendo in tal modo nel loro peccato che, per Giovanni, è la mancanza di fede in Gesù (9,41).

Il discorso prosegue senza interruzioni o cesure.¹ In Gv 10,1 si accenna all’aulē, che è il recinto templare, e non solo il recinto delle pecore. Gesù prosegue con un discorso parabolico un po’ oscuro (paroimia: 10,6) sulla sua persona come porta (10,1-10) e pastore delle pecore (10,11-18). Questo discorso produce nell’uditorio giudaico una divisione (schisma: 10, 19; cf. già 7,43 [alla festa delle Capanne scoppia il dissenso sull’origine del Messia]; 9,16 [il dissenso si consuma sul fatto che Gesù sia o no un peccatore, dal momento che compie nel giorno di sabato la guarigione del cieco nato]).

Gesù crea una divisione di fonte alla sua persona, alle sue parole e alla decisione di fede da prendere personalmente. E, difatti, alcuni giudicano Gesù un posseduto dal demonio che lo fa uscire di senno, altri controbattono sostenendo che un indemoniato non può aprire gli occhi ai ciechi (10,21).

Qui si chiude il ciclo narrativo riguardante la guarigione del cieco nato e di Gesù buon Pastore, e con 10,21 si conclude anche il blocco narrativo su Gesù che porta a compimento le feste giudaiche, in questo caso la festa delle Capanne (Gv 7,1–10,21).

Pastore, non ladro e brigante

Con queste promesse che inquadrano letterariamente e teologicamente la pericope proclamata oggi, è più facile comprendere che l’aulē/il recinto (10,1) in cui entra il pastore, sulla cui porta vigila il portinaio (thurōros) il quale, alla sua vista, gli apre prontamente perché faccia uscire il suo gregge, lasciando al loro posto quelli degli altri pastori custoditi dal medesimo “portinaio”, è sì un “recinto di pecore” ma, nella similitudine/parabola/paroimia (10,6), sta a significare il recinto del tempio. Esso abbraccia la vasta “zona templare/hieros” – aperta anche ai pagani – che custodisce il tempio vero e proprio/naos, accessibile solo agli ebrei, in una successione di esclusione progressiva: cortile delle donne, degli uomini, dei sacerdoti (col sommo sacerdote che, una volta all’anno, poteva entrare da solo nel Santo dei Santi, la terza sezione del naos).

I capi religiosi gettano fuori dal recinto templare/aulē (9,34) il cieco guarito da Gesù ed egli lo trova “cacciato fuori” (cf. 9,35). Di qui parte la polemica similitudine/paroimia raccontata da Gesù, non compresa subito dagli interessati in quanto gioca proprio sul doppio referente esterno della parola aulē: recinto delle pecore e recinto del tempio.

Gesù, in realtà, si presenta nella sua missione messianica come colui che entra dalla porta principale del recinto delle pecore/del tempio e non surrettiziamente e furbescamente da altre parti come un ladro e un brigante. Gesù non cerca di scassinare entrate secondarie e finestre sconnesse. Con piena autorità e libertà egli entra nel recinto dalla porta perché è come uno dei pastori che hanno affidato il proprio gregge, assieme ad altri, al portinaio (più o meno affidabile) assoldato al compito. Ma se, nel recinto pastorizio, le greggi e i pastori sono tanti, quello del tempio contiene un gregge che aspira ad essere guidato da un solo vero pastore, disinteressato e trasparente nelle sue intenzioni.

Il pastore entra senza infingimenti dalla porta principale del recinto/aulē apertagli dal portinaio, le sue pecore conoscono la sua voce, lui le chiama per nome e le conduce-fuori/exagei. Il gregge deve essere in uscita, se non vuol morire di aria asfittica. Quando ha cacciate(fuori)/ ekbalēi (cf. il cieco nato cacciato fuori ekballō 9,34.35!) tutte le sue pecore, egli cammina davanti a loro ed esse lo seguono, perché conoscono la sua voce. Un estraneo non lo seguirebbero, anzi fuggirebbero dalla sua persona, perché non conoscono la sua voce.

Gesù è un pastore sincero, senza retropensieri di sfruttamento delle sue pecore ben pasciute né di trascuratezza nei confronti di quelle magre/bisognose/in difficoltà (cf. Ez 34!). Non è un mercenario, un lavoratore assoldato a giornata, un avventizio che fa il suo lavoro – spesso malamente – solo in vista della paga.

Gesù pastore conosce il nome delle persone, conosce la storia di ciascuno, ci chiama in vita chiamandoci per nome, dandoci un’identità non solo umana ma divina. Siamo conosciuti da lui e, se ascoltiamo personalmente e comunitariamente la sua parola proclamata, potremo uscire in libertà dal recinto templare che soffoca per una scorribanda continua nei pascoli che il suo amore ci procura. Potremo sgambettare felici, scorrazzare di qui e di là nella libertà dei figli di Dio. In noi regna una voce, una parola che chiama e libera, che guarisce il cuore e gli occhi, anche se ciechi dalla nascita.

La porta

Gesù pastore conosce, chiama, “getta fuori” verso la libertà, cammina davanti a noi per una strada sicura e un pascolo nutriente e genuino. Lui è la via, la verità e la vita (Gv 14,6), ma anche la “porta” vivente. Chi “entra attraverso lui”, il suo cuore, la sua vita, il suo essere Inviato del Padre, sarà “salvato”, troverà una vita piena. Potrà “entrare e uscire” in libertà. Un merismo che esprime la completa libertà di movimento, la vita in dinamismo continuo.

In questo attraversare continuamente la porta consiste la possibilità di trovare “pascolo”: cibo, nutrimento, senso, prospettiva di vita, serenità interiore, riposo dell’anima, soddisfacimento degli aneliti interiori più sconosciuti o ascolto per le invocazioni più lancinanti.

Gesù non ruba nulla, ma dona tutto – ricordava papa Benedetto ai giovani nell’omelia della solenne eucaristia di inizio del suo ministero petrino –. Non ruba l’anima, non tiene soggiogati, non aliena. Non uccide la giovinezza con le malìe del “tutto e subito”, dell’accaparramento di cose o di apparenza invece che di pienezza di vita filiale fondata su relazioni di accoglienza e di donazione. Gesù vuole la nostra vita interiore, “divina” /zōē (10,10), “eterna”/piena e che non sia risicata e “faticosa”, ma “sovrabbondante” /perisson.

L’immagine pastorale impiegata da Gesù può forse far sorridere più di uno per la sua arretratezza culturale e l’estraneità quasi totale all’universo mentale tecnologico attuale degli abitanti dei paesi cosiddetti “sviluppati”. Tutti avvertiamo però, anche a livello civile, la necessità di un’autorità mondiale autorevole e democratica che si prenda cura del cammino pacifico dei popoli, che procuri ad essi pace e giustizia, giusta ripartizione delle risorse della terra, la salvaguardia del creato e dell’acqua potabile, che scongiuri le guerre, sia quelle “a bassa intensità” sia quelle devastanti basate sull’impiego delle armi nucleari.

L’uomo si scopre fragile e precario, sempre esposto al pericolo di perdere la vita. Allora il sorriso facile, più o meno sardonico, sparisce velocemente, e può far spazio all’accoglienza della proposta della parabola/similitudine/paroimia di Gesù, se compresa nella sua profondità. Gesù “pastore” bello e buono offre e custodisce la vita “piena” degli uomini.

Trafitti, ma collocati nella pupilla

Le persone che, a Pentecoste, ascoltano il discorso di Pietro si sentono “trafiggere il cuore/katenugēsan tēn kardian (At 2,37). Il destino glorioso raggiunto da Gesù, fatto “Signore” e “Cristo” da Dio Padre dopo la donazione generosa della sua vita, tocca personalmente il centro vitale e decisionale degli ascoltatori e li spinge a conversione e all’accoglienza del battesimo. La testimonianza personale e il contatto fra Gesù risorto e la vita concreta delle persone produce la reazione chimica della conversione.

Gesù si interessa alla nostra vita. Gesù risorto desidera per noi una vita autentica e non artificiale, gonfiata, infantilmente alienata. Ci conosce per nome, ci chiama, ci “sbatte fuori” all’aria fresca e buona. Siamo “custoditi”. Siamo peccatori e trafitti, ma pieni di speranza nel Pastore Gesù, bello e buono (cf. Gv 10,11). Come ha pregato papa Francesco al termine della via crucis del venerdì santo al Colosseo: «[Proviamo] Tanta vergogna Signore ma il nostro cuore è nostalgioso anche della speranza fiduciosa che tu non ci tratti secondo i nostri meriti ma unicamente secondo l’abbondanza della tua Misericordia; che i nostri tradimenti non fanno venir meno l’immensità del tuo amore; che il tuo cuore, materno e paterno, non ci dimentica per la durezza delle nostre viscere; La speranza sicura che i nostri nomi sono incisi nel tuo cuore e che siamo collocati nella pupilla dei tuoi occhi».


¹ Si ricordi che la divisione in capitoli è attribuita all’ecclesiastico inglese Stephen Langton, che in seguito divenne arcivescovo di Canterbury. La realizzò all’inizio del XIII secolo, quando era docente presso l’università di Parigi. A metà del XVI secolo, il famoso tipografo ed erudito Robert Estienne semplificò ulteriormente le cose rendendosi conto di quanto sarebbe stato utile avere un sistema uniforme per la numerazione sia dei capitoli che dei versetti.

 

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