IV Quaresima: L’Innalzato

di:
La teocrazia postesilica

1-2 Cronache non sono libri molto letti, anche in ambito cristiano. Sembra che essi siano stati redatti nell’epoca persiana (539-333 a.C.) come rilettura dell’intera storia di Israele. In termini anacronistici il suo genere letterario potrebbe esser definito “rewritten Bible/Bibbia riscritta”. Terminologia anacronistica, dal momento che ancora non esisteva alcun testo scritto conosciuto come “Bibbia”.

In questi libri si dà molto peso alle figure del re Davide e a quella di Salomone, non tanto però come re ma in quanto fondatore (Davide) e costruttore (Salomone) del tempio. Gli altri re sono visti come suoi protettori. In 1-2Cr vi «è un’analitica descrizione dell’istituzione del tempio di Gerusalemme, una storia del servizio liturgico, un resoconto dell’organizzazione del personale del culto secondo le classi e i suoi uffici, un ritratto di Israele come comunità cultuale» (C. Balzaretti).

Composti probabilmente da scribi ritornati dall’esilio ricorrendo a fonti archivistiche in un tempo successivo a Esdra-Neemia, in questi testi è importante il principio teologico della retribuzione (cf. 1Cr 28,9).

Può essere utile ricordare alcune tesi riguardanti l’intenzione dell’autore e il genere letterario di 1-2Cr: «difendere la nuova comunità teocratica in polemica con i Samaritani; scrivere una storia della dinastia davidica in vista delle sue realizzazioni nel culto; difendere le istituzioni postesiliche; scrivere una storia di Giuda e delle sue istituzioni; offrire un insegnamento religioso tramite la storia; interpretare per la comunità della restaurazione la storia di Israele come un’eterna alleanza; riscrivere la storia alla luce del principio della retribuzione immediata; difendere l’identità giudaica e l’ortodossia in un periodo di forte pressione da parte di culti stranieri; scrivere la più ampia sintesi possibile delle differenti tradizioni religiose di Israele; chiudere la terza parte della Bibbia ebraica e unire il tutto con le prime due» (Id.).

Il peccato di Israele

2Cr 29,1–36,23 descrive la storia da Ezechia alla fine del regno di Giuda. Dopo Ezechia (29,1–32,33), si narra di Manasse e Amon (33,1-25), di Giosia (34,1–35,27) e, infine, degli ultimi quattro re (36,1-14: Ioacàz, Ioiakìm, Ioiachìn e Sedecìa). 2Cr 36,15-21 si sofferma sul peccato di Israele e 2Cr 36,22-23 riporta l’editto di Ciro.

Molti re iniziano bene il loro regno ma, alla fine, si macchiano di “infedeltà/lim‘ôl-ma‘al” e “contaminano/wayeamme’û” il tempio di YHWH “consacrato/hiqdîš” in Gerusalemme (33,14), coinvolgendo nel loro peccato i capi dei sacerdoti e tutto il popolo. L’esilio è il risultato dell’infedeltà di Israele (1Cr 5,25-26; 9,1; 2Cr 33,19).

Da parte sua, YHWH aveva sempre “inviato con premura e sovente/haškēm wešālûa” i suoi messaggeri e i suoi profeti, perché “aveva compassione/āmal” del suo popolo e della “sua dimora/me‘ônô” (cf. v. 15). La risposta di tutti non fu solo l’ingratitudine della mancanza di ascolto e il disinteresse, ma si spinse fino all’“irrisione/mal‘ibîm”, al “disprezzo/bôzîm” e alla “derisione/mitta‘teîm” (v. 16) degli inviati di YHWH.

Distruzione ed esilio

Seguendo un’interpretazione ferrea della legge della retribuzione – secondo la quale, in osservanza ad un rigido monoteismo, il bene e il male venivano attribuiti direttamente e totalmente all’azione sovrana di YHWH  in risposta al comportamento positivo o negativo degli uomini –, si descrive la completa distruzione della città e del tempio da parte del nemico, la deportazione totale delle autorità e della popolazione scampata all’uccisione immediata, la depredazione degli arredi del tempio e la devastazione di tutto il territorio. Ben cinque volte in tre versetti si usa l’aggettivo «tutto» (vv. 17.18.19). A diversità della narrazione di 2Re, sembra che la terra rimanga senza abitanti. Di qui nacque anche la tesi esegetica della “terra vuota/empty land” di Giuda nel tempo esilico che imperò nei decenni scorsi.

La durata dell’esilio in settanta anni si trova in Geremia (29,10) ma il Cronista collega questo riferimento con una citazione di Lv 26,34: «finché la terra sarà soddisfatta dei suoi sabati» (cf. anche Lv 26,35.43). «I settanta anni di riposo sabbatico preparano la terra per quelli che ritorneranno» (C. Balzaretti).

La cifra di 70 va intesa probabilmente in modo simbolico, ma c’è chi la collega a date precise: 605 a.C. (prima deportazione) -539 a.C. (editto di Ciro) oppure 586 a.C. (distruzione del primo tempio) -516 a.C. (dedicazione del secondo tempio). La menzione di Geremia (vv. 12.21) forma la cornice alla storia dell’ultimo re e funge da aggancio alla successiva menzione dell’editto di Ciro.

Tutti i regni a Ciro

 YHWH è colui che distrugge in conseguenza dell’infedeltà, ma è anche colui che suscita un “salvatore” inaspettato e sconcertante: lo straniero Ciro, re di Persia e conquistatore incontrastato di Babilonia (539 a.C.).

Geremia aveva profetizzato la missione di Ciro in senso negativo: «Ecco io desterò/mē‘îr lo spirito di un distruttore… contro Babilonia» (Ger 51,1). Il Cronista interpreta in senso positivo l’azione di YHWH: YHWH Dio del cielo – secondo l’espressione messa in bocca a Ciro – ha suscitato lo spirito di («mise in movimento», C. Balzaretti) Ciro non per distruggere Babilonia, ma per fare ritornare i deportati e per ricostruire il tempio distrutto.

L’editto di Ciro (vv. 22-23) esprime la coscienza pretenziosa del re circa il fatto che Dio gli abbia conferito «tutti i regni della terra». Contestualmente, egli è consapevole che YHWH gli abbia “conferito  l’incarico/pāqad” di “costruirgli un tempio/libnôt-lô bayit” a Gerusalemme.

Salga!

Grazie al potere effettivo di Ciro e alla sua politica religiosa illuminata e accondiscendente verso le popolazioni sottomesse, giunge consolante e liberatorio alle orecchie degli esuli il proclama regale: «Chi tra voi appartiene al suo popolo? YHWH suo Dio sia con lui e “salga/weyā‘al”!». Non si menziona la meta della “salita”. Può essere un invito ad andare a Gerusalemme o a compiere il pellegrinaggio (cf. il verbo ‘ālāh in 1Cr 15,1-24, cf. anche Gv 2,12; 5,1; 11,55). È addirittura possibile interpretare l’ultimo iussivo sospeso nell’aria – che conclude il canone ebraico delle Scritture! – come uno iussivo fattitivo/hiphil  dello stesso verbo, col significato di “far salire/offrire” un olocausto, celebrare il culto.

L’indeterminatezza del testo fa sì che possa essere recepito come un messaggio rivolto a tutti i giudei, esuli o no, che in questo modo possono appropriarsi del messaggio e appartenere al popolo che può ancora “partire” e “offrire”.

Lo straniero salvatore

La salvezza per l’Israele deportato arriva inaspettatamente (ma, nella realtà storica, sospirata realisticamente) da un re straniero, pagano, arrivista, bellicoso e apparentemente borioso. Le vie di Dio sono diverse da quelle degli uomini e la salvezza può nascere paradossalmente da un potente lontano, potenzialmente “nemico”, religiosamente estraneo alla propria tradizione. Se prima, da ingrati, si sono chiuse le orecchie ai profeti di Dio e si è aperta la bocca alla loro irrisione e disprezzo, ora si deve “ascoltare” con cuore riconoscente l’editto di liberazione pronunciato da un “messaggero” paradossale di YHWH.

Gesù?

La storia esige discernimento e ascolto, illuminato dalla parola di Dio. È bello pensare anche che lo iussivo esaltante con cui si conclude il canone ebraico delle Scritture abbia il suo termine ultimo in Gesù, gloria del suo popolo, Israele, come ha proclamato benedicente il vecchio Simeone nel tempio ricostruito (cf. Lc 2,32). Verso di lui si può “partire” e in lui si può “offrire” l’olocausto decisivo e paradossale.

Innalzato

Nel dialogo con Gesù, il maestro in Israele Nicodemo aveva chiesto come fosse possibile rinascere di nuovo (Gv 3,9). Dopo i tre momenti del dialogo (vv. 1-3.4-8.9-12), viene delineata la traiettoria giovannea del Figlio dell’uomo (vv.13-15).

Il “Figlio dell’uomo” è un titolo che compare solo sulle labbra di Gesù alla terza persona singolare, è il nome proprio di Gesù, Gesù di Nazaret, l’Inviato del Padre e suo rivelatore (cf. 1,18), colui che porta la salvezza. Preesistente, il Figlio dell’uomo si è abbassato (catabasi) nell’incarnazione e si innalzerà (anabasi) in un movimento pasquale, qui riportato in ordine inverso, centrato sul suo innalzamento (cf. 8,28; 12,34) glorioso (12,23; 13,31) in croce. È un titolo orientato per lo più a indicare il momento della croce che sarà affrontato da Gesù.

Dopo il momento della catabasi nell’incarnazione, necessario perché Gesù sia il Rivelatore del Padre (v. 13, omesso barbaramente nella lettura liturgica!!), egli parla della sua anabasi (vv. 14-15), che, dal contesto, si capisce avere un senso pasquale.

Croce, fede, vita

Gesù allude all’innalzamento dell’immagine del serpente nel deserto (Nm 21,4-9) compiuto da Mosè, perché chiunque avesse guardato ad esso (con fede, Sap 16,5-8) fosse salvato (da Dio, chiarisce sempre il libro della Sapienza). Così avverrà che la salvezza giunga attraverso qualche cosa che ha a che fare con lo strumento della punizione per il peccato di mormorazione. Anche Gesù salva gli uomini per la sua partecipazione alla natura umana propria dei suoi fratelli.

L’evento della croce non è solo frutto della violenza umana o del caso, ma rientra nel piano salvifico del Padre: «Occorre che sia innalzato». «L’autentico miracolo che consente la rinascita è sicuramente l’itinerario tracciato dalla catabasi e dall’anabasi del Figlio dell’uomo. Ma qui l’accento cade indubbiamente sulla croce, punto focale di tale traiettoria. La salvezza è legata alla croce» (J. Zumstein).

Con l’intrusione del v. 15, l’evangelista spiega che la croce ha un senso soteriologico e il suo risultato è la “vita eterna”, linguaggio equivalente a quello della “nuova nascita” dei versetti precedenti. Colui che crede nel Figlio dell’uomo avrà la vita eterna in lui. La fede, e  non la vista, porta la salvezza già qui e ora nella vita terrena, dovuta all’appartenenza a Cristo.

I vv. 16-18 descrivono il dono del Figlio unigenito da parte del Padre e le sue conseguenze escatologiche. Il v. 16 offre il fondamento (“infatti/gar”) di quanto affermato nei vv. 14-15. L’amore del Padre, concretizzatosi puntualmente nella storia nell’invio dell’Unigenito quale suo Rivelatore, ha una valenza positiva, salvifica. Non c’è nel Padre alcuna volontà di condanna del «mondo» – in Gv sono gli uomini, il creato e le forze ostili a Dio – o di un abbandono escatologico di alcuno degli uomini, ma che tutto «il mondo» sia salvato fin d’ora dal Figlio grazie alla fede posta in lui. Il destino opposto degli uomini si gioca proprio sul ruolo della fede: chi non crede si è già autocondannato fin d’ora a una destino di non-salvezza, di vita monca e indirizzata a una conclusione di non senso.

Luce e vita eterna

I vv. 18-19 sono in discontinuità con i precedenti perché il titolo di “Figlio unigenito/di Dio” è sostituito dall’antitesi “luce-tenebre” e perché la terminologia delle “opere” prende il posto di quello della fede. «Il vocabolario etico sembra prevalere sugli annunci soteriologici» (J. Zumstein).

La continuità, invece, è data dal fatto del tema centrale del giudizio, che si realizza con la venuta del Figlio e che sfocia nella salvezza di alcuni e nella perdizione degli altri. In continuità con quanto detto prima, Gesù afferma che sono gli esseri umani stessi a decidere, col loro comportamento, il loro destino finale.

Chi compie il male si autoesclude alla «luce» costituita dalla rivelazione offerta dal Figlio, la «odia». Non vuol essere smascherato nelle sue vie di malvagità.

Chi «viene alla luce», cioè chi crede in Gesù Figlio unigenito di Dio, rivela che le sue opere sono buone perché compiute nell’interiorizzazione profonda della verità («chi fa la verità») costituita dalla persona di Gesù, rivelatore del Padre. Con Gesù giunge “il discrimine/krisis (con senso attivo, espresso dal finale –is)”, non il “giudizio/krima (con senso oggettivo, effetto del discrimine, espresso dal finale –ma)”.

Davanti alla sua persona di Rivelatore ci si deve decidere personalmente fin d’ora, con un esito escatologico sperimentabile già in questa nostra storia.

Paradossi di Dio

La salvezza degli esiliati di Israele in Babilonia giunge in modo inatteso e paradossale grazie a  un re straniero e pagano suscitato da YHWH.

La salvezza definitiva di una vita piena di amore e di senso sperimentabile fin d’ora giunge a ogni uomo dall’amore (che è lo Spirito) di Dio e del suo Inviato Rivelatore “regalato” al mondo.

Chi crede nell’amore manifestato pienamente nel paradosso della croce gloriosa, strumento “debole” dell’amore onnipotentemente debole di Dio, possiede già adesso la «vita eterna» (non “futura”) impastata con i giorni pieni di senso vissuti sotto questo sole.

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2 Commenti

  1. Roberto Mela 12 marzo 2018
  2. salvatore 5 marzo 2018

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