Lo sconfitto “re dei giudei”

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L’anno liturgico la Chiesa vuole che lo terminiamo con la solennità di Cristo re. Sappiamo che questa festa va interpretata correttamente, se non vogliamo cadere in banali equivoci che, oggi soprattutto, recherebbero del male alla comunità credente. La liturgia della Parola di questa domenica ci aiuta a superare eventuali equivoci e a focalizzare la nostra attenzione sulla vera natura della regalità di Cristo. Cristo è un re singolare e il suo regno è unico nel suo genere.

1. La prima lettura ci è offerta dal secondo libro di Samuele, una pagina nella quale spicca la grande figura del re Davide; a lui si rivolgono tutte le tribù d’Israele per chiedergli di diventare il loro re.

Occorre ricordare un fatto del tutto speciale: quando gli israeliti chiesero al profeta Samuele di avere un re alla stregua di tutti gli altri popoli, sia pure a malincuore, il profeta dovette concederlo, ma nello stesso tempo dichiarò i diritti del re proprio su coloro che lo hanno voluto (cf. 1Sam 8). Allora si intendeva dire che l’unico vero re d’Israele era il loro Dio, JHWH, e che pertanto quella “pretesa” era contraria alla vera religione e praticamente rifiutava di riconoscere JHWH come unico re del suo popolo.

Nel grande elogio che si formula a favore di Davide vi è un sincero riconoscimento dei meriti da lui acquisiti durante il suo precedente servizio, ma vi è anche un eccessivo attaccamento ad una istituzione umana che non mancherà di rivelare tutta la sua fragilità, tutta la sua caducità. Impariamo così che dobbiamo attaccarci non ai doni di Dio ma a colui che ce li dona.

L’unica nota positiva è annessa alla promessa divina: «Il Signore ti ha detto: Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele». Letta profeticamente, questa promessa allude al futuro Messia, che potrà essere chiamato «Figlio di Davide». Si afferma così la continuità tra la Nuova ed eterna alleanza e l’Antica.

2. Il salmo responsoriale è uno di quelli che il pio Israelita pregava mentre saliva al tempio di Gerusalemme: per questo sono detti “i salmi delle ascensioni”. In compagnia di altri fratelli nella fede, egli cantava la gioia di poter salire verso la città santa per sciogliere i suoi voti e per esprimere la sua fedeltà all’alleanza.

Il salmo è introdotto dal ritornello: «Andremo con gioia alla casa del Signore», un’affermazione che esorta alla gioia e alla gratitudine perché il Signore ci accoglie nel suo tempio come assemblea orante. L’incontro con il Signore porta pace al cuore e ci solleva dalle nostre tristezze.

Gerusalemme sta in cima ai pensieri dell’orante: «Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme!». «È là che salgono le tribù… per lodare il nome del Signore». Nella casa di Dio deve risuonare a gran voce la lode a Dio per la sua grandezza e per la benevolenza tante volte manifestata per il suo popolo. Gerusalemme rimane la città santa per eccellenza, la città alla quale il Signore Dio ha legato la storia dell’antico e del nuovo Israele.

3. La seconda lettura ci offre l’inno cristologico della lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani della città di Colossi. Si tratta quasi certamente di un inno che Paolo stesso ha ereditato dalla viva tradizione della Chiesa nascente; un inno che egli pone all’inizio di questa sua lettera con la quale intende sostenere la fede dei suoi destinatari.

Paolo introduce l’inno vero e proprio con una nota di ringraziamento: «Ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce». L’apostolo ci invita a nutrire lo stesso sentimento di fronte a tutti i doni che Dio ci ha fatto e che egli sta per elencare.

Anzitutto il dono della liberazione o redenzione: «È lui (il Padre) che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore». È chiaro il riferimento al sacrificio di Gesù sulla croce, preparato dal suo ministero pubblico e perfezionato nel grande evento della risurrezione.

Bisogna quindi apprezzare il dono del Redentore, che è «immagine del Dio invisibile (…). Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui (…) e tutte in lui sussistono». Del Redentore qui si afferma a chiare lettere la divinità: in quanto immagine di Dio, Cristo partecipa pienamente della sua natura divina.

Infine, il dono della Chiesa, della quale Cristo è il capo: «il capo del corpo…, principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti». Il fatto che il pensiero di Paolo, dopo aver parlato del disegno del Padre realizzato per mezzo del Figlio suo, approdi alla Chiesa, sta a indicare come egli avesse chiaro il senso del suo apostolato: un servizio che affonda le sue radici nel mistero trinitario ma che si realizza concretamente nella storia degli uomini.

4. La pagina evangelica ci è offerta dall’evangelista Luca, in quella scena drammatica nella quale una triplice categoria di persone lancia sfide inaudite a Gesù che pende dalla croce.

La scena ha un valore storico, ma essa riveste anche una dimensione pedagogica. Luca intende provocare anche la nostra reazione personale e comunitaria nei confronti di Gesù, proprio mentre egli sta consumando il suo sacrificio di espiazione per i nostri peccati.

Dapprima entrano in scena i capi del popolo; la sfida che essi lanciano contro Gesù tradisce l’animo di chi detiene il potere e dichiara il fallimento di Gesù come predicatore. Non si rivolgono a Gesù direttamente ma fanno un’affermazione generale: «Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Quel “se” non esprime un’ipotesi ma nasconde una certezza: Gesù è incapace di salvare se stesso. Anche la scritta, posta sopra il capo di Gesù, suona come un’espressione ironica.

In un secondo momento, sono i soldati che si mettono a schernire Gesù. Gli si accostano per porgergli dell’aceto e gli parlano direttamente: «Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso». Quelli che parlano sono degli assoldati. Nell’espletare il loro mestiere, essi si ritengono autorizzati a ripetere lo stesso pensiero dei capi: il loro scherno non fa altro che rincarare la dose.

Infine, ecco uno dei malfattori, appeso alla croce come Gesù. Egli parla con un evidente interesse personale: «Salva te stesso e noi!». La sua prospettiva, a differenza di quella dell’altro malfattore, è esclusivamente terrena e si qualifica da se stessa.

In netto contrasto con questi tre interventi Luca pone la reazione del così detto “buon ladrone”. Nelle sue parole avvertiamo l’animo di chi, da un lato, riconosce il suo errore e, dall’altro, dichiara la piena e totale innocenza di Gesù. Nelle sue ultime parole egli chiede a Gesù di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo regno. Ecco chiaramente espressa la prospettiva ultraterrena di questo povero condannato, che trova una pronta risposta da parte di Gesù.

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