Mercoledì delle ceneri

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“Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Con queste parole, prese dal Deuteronomio, Gesù respinge la proposta del maligno che gli suggerisce di impegnare tutte le sue energie e capacità per produrre pane.

L’uomo ha sì bisogno di cibo, ma, proprio quando è sazio e i suoi bisogni materiali sono soddisfatti, prende coscienza che in lui sono presenti inquietudini più profonde.

Ritenere che sia possibile placare il bisogno d’infinito e di eterno ripiegandosi sulle realtà di questo mondo si rivela una drammatica illusione: la bellezza sfiorisce, “la giovinezza e i capelli neri sono un soffio” (Qo 11,10); i beni promettono il paradiso durevole sulla terra, ma poi giunge il momento in cui vengono requisiti. Lo sappiamo che va a finire così, eppure ci viene naturale continuare ad affidare alle realtà effimere la realizzazione della nostra vita.

Quando prendiamo coscienza della caducità di questo mondo e ci interroghiamo sul senso del nostro esistere, quando entriamo in dialogo con il Signore, è allora che facciamo il salto di qualità e diveniamo realmente uomini.

Giustamente o no, per i musulmani chi non solleva lo sguardo al cielo, chi non instaura un rapporto intimo con Dio non è uomo.

La ricerca di cibo e di un riparo, la pulsione a dare continuità alla nostra specie, la ricerca di ciò che dà piacere, sono “appetiti” che abbiamo in comune con gli animali.

Solo quando sperimentiamo l’intimo bisogno di un altro cibo, si manifesta in noi lo specifico dell’umano.

Cosciente di questo, il profeta Amos annunciava: “Verranno giorni – dice il Signore – in cui io manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11).

La Quaresima è il tempo privilegiato per rientrare in noi stessi, per alimentare e far crescere il divino che è in noi.

È il tempo dell’ascolto della Parola di Dio. Ascolto non superficiale, distratto, quasi timoroso che il messaggio penetri troppo profondamente nella mente e nel cuore, provochi turbamenti e esiga correzioni di rotta radicali nella nostra vita.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
La tua parola, Signore, è alimento per la vita che mi hai donato.

Prima lettura (Gl 2,12-18)

Così dice il Signore:
12 “Ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti”.
13 Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore vostro Dio,
perchè egli è misericordioso e benigno,
tardo all’ira e ricco di benevolenza
e si impietosisce riguardo alla sventura.
14 Chi sa che non cambi e si plachi
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libazione per il Signore vostro Dio.
15 Suonate la tromba in Sion,
proclamate un digiuno,
convocate un’adunanza solenne.
16 Radunate il popolo, indite un’assemblea,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
17 Tra il vestibolo e l’altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
“Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al vituperio
e alla derisione delle genti”.
Perchè si dovrebbe dire fra i popoli:
“Dov’è il loro Dio?”.
18 Il Signore si mostri geloso per la sua terra
e si muova a compassione del suo popolo.

Una delle calamità più temute dai popoli antichi era l’invasione delle locuste. Sospinte dal vento bruciante del deserto, arrivavano a nugoli e, ovunque si posassero, cancellavano ogni forma di vegetazione.

All’inizio del suo libro, il profeta Gioele descrive in modo drammatico le conseguenze del flagello che ha colpito la sua terra: “Ha fatto delle mie viti una desolazione e tronconi delle piante di fico; li ha tutti scortecciati e abbandonati; i loro rami appaiono bianchi… Devastata è la campagna… Affliggetevi, contadini, perché il raccolto dei campi è perduto” (Gl 1,7-11).

È in questo contesto che va collocato il brano biblico che ci introduce nel tempo quaresimale.

Come mai – si chiedono gli israeliti – siamo stati afflitti da una simile sventura? È un castigo? Una ritorsione da parte di Dio, risentito perché ci siamo dimenticati di lui?

Le disgrazie – e tale è la calamità delle cavallette – sono eventi dolorosi, accadono, non sono mai inviati dal Signore.

Provocano sconcerto e angoscia; tuttavia, se questi momenti tristi sono vissuti alla luce della parola di Dio, possono trasformarsi in momenti di grazia.

Il profeta aiuta il suo popolo a leggere la sciagura che lo ha colpito come un invito alla conversione.

La terra – dice – è stata invasa dalle cavallette perché vi siete ripiegati sui beni di questo mondo. Il benessere, la prosperità, l’abbondanza, la ricchezza hanno teso un’insidia fatale alla vostra fede.

Prima di introdurre il popolo nella terra promessa, Mosè lo aveva messo in guardia contro questa pericolosa tentazione: “Quando ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Gioele invita gli israeliti a riconoscere che i beni materiali hanno fatto loro perdere la testa. Era giunti al punto di non pensare ad altro che a star bene, arricchire, ricercare il lusso, darsi alle gozzoviglie.

La calamità delle locuste ha mostrato loro quanto fosse effimera la ricchezza in cui confidavano e come potesse venir loro tolta da un momento all’altro.

Il grano, il mosto e l’olio sono preziosi, ma guai a farli assurgere ad unico scopo dell’esistenza.

L’esperienza fatta da Israele è una lezione anche per noi, spesso sedotti dalle false promesse di piena felicità che vengono dai beni di questo mondo.

Quando ci ripieghiamo sulle realtà materiali, considerandole l’assoluto, finiamo sempre per ritrovarci soli, delusi e in una condizione di morte. Nostri compagni sono il pianto, il lamento, l’amarezza del peccato.

Che fare?

L’accorato invito che il Signore, per bocca del suo profeta, ha rivolto agli israeliti è valido anche per noi: Ritornate a me con tutto il cuore! (v. 12).

La Quaresima è il tempo del ritorno alla casa del Padre.

Si ritorna a casa solo quando si è certi di essere accolti da qualcuno che ci ama.

Se rimaniamo caparbiamente legati all’immagine di Dio che ci è familiare perché rientra nei nostri schemi, quella dell’Onnipotente che mantiene le distanze, stabilisce ordini e divieti e pretende rispetto, quella del Dio pronto a castigare, non torneremo volentieri a lui.

La prima conversione quaresimale, la più urgente e indispensabile, è dunque la correzione dell’immagine di Dio cui siamo affezionati, ma che è stata creata dalla nostra mente, non deriva dalla parola Dio.

Il Dio della Bibbia non è colui che ripaga con castighi (Ti sei fatto del male… E io ti finisco!), ma che ricupera, risana le ferite che l’uomo, peccando, si è fatto.

Ecco come oggi ce lo presenta il profeta Gioele: Egli è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura (v. 13).

Non basta aver capito che Dio ci ama, che ci attende, che ci colmerà di beni, che non ci rimprovererà e non ci castigherà per i nostri errori. Bisogna avere il coraggio di decidersi a intraprendere il cammino.

Lungo la via che porta al Signore, va messo in conto che si incontreranno difficoltà, che ci saranno sacrifici, tagli dolorosi, scelte radicali da fare. Per questo la Quaresima è anche tempo di austerità, di allenamento alla rinuncia, alla privazione, allo spogliamento da tutto ciò che appesantisce i nostri passi.

L’avvicinamento a Dio sarà accompagnato – spiega infatti Gioele – da lacerazione del cuore, da digiuni, pianti e lamenti (v. 12).

Tuttavia, nel cammino della conversione, non siamo soli. Al nostro fianco ci sono tanti fratelli che percorrono la stessa strada, che ci incoraggiano con la loro parola e con il loro esempio, che si uniscono a noi in “assemblea solenne” (vv. 15-16) e, con i “ministri del Signore”, chiedono con noi a Dio: “Perdona, Signore, al tuo popolo” (v. 17).

La lettura non riporta la risposta del Signore alle preghiere del suo popolo, ma la profezia di Gioele continua: “Non temere, o terra, ma rallegrati e gioisci. Le aie si riempiranno di grano e i tini traboccheranno di mosto e di olio. Vi compenserò delle annate che hanno divorate la locusta e il bruco, il grillo e le cavallette. Mangerete in abbondanza, a sazietà e loderete il nome del Signore vostro Dio che in mezzo a voi ha fatto meraviglie” (Gl 2,21.24-26).

Il peccato ha distrutto la nostra vita, ci ha lasciato secchi e scheletriti come gli alberi della campagna divorati dalle locuste. Ma non sarà il peccato ad avere l’ultima parola, sarà l’amore misericordioso di Dio. Egli trasformerà il nostro deserto in un giardino.

La Quaresima è tempo di speranza e di gioiosa attesa: malgrado i nostri rifiuti, le nostre debolezze, le nostre indecisioni, Dio guiderà i nostri passi fino all’incontro con lui.

Seconda lettura (2 Cor 5,20-6,2)

5,20 Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.
6,1 E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. 2 Egli dice infatti: “Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso”.
Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!

Nella prima lettura, l’invito alla conversione – che è il tema centrale della Quaresima – è formulato con queste parole: “Ritornate al Signore con tutto il cuore” (Gl 2,12).

Per Gioele la conversione è un cammino da percorrere a ritroso.

Chi si è messo su sentieri non buoni è invitato a tornare indietro. Chi ha percorso le strade che portano ai templi degli idoli – che per noi sono il denaro, il successo, i piaceri ad ogni costo – deve abbandonarle e “fare ritorno” a Dio.

Nella seconda lettura Paolo riprende lo stesso tema, ma con un’altra immagine, parla di riconciliazione.

Anche la sua esortazione è accorata: Lasciatevi riconciliare con Dio!.

Egli vede il peccato come un disaccordo, uno stato di inimicizia, una difformità di vedute e di intenti fra Dio e l’uomo.

Questa ostilità deve essere superata, è necessario ristabilire l’armonia.

L’immagine della riconciliazione è stata suggerita a Paolo dall’esperienza dolorosa da lui vissuta con i cristiani di Corinto ai quali sta scrivendo.

Qualche mese prima i corinzi lo avevano gravemente offeso, lo avevano addirittura cacciato dalla loro comunità.

Non si era trattato di una banale incomprensione, di un disaccordo dovuto a futili motivi. Era lo stesso messaggio evangelico – annunciato da Cristo per bocca di Paolo – che era stato posto in causa e rifiutato.

Ecco la ragione per cui l’Apostolo richiama ai corinzi: “Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro” (v. 20).

Non è possibile riconciliarsi con Dio senza mantenere l’accordo con i suoi apostoli, con coloro che sono i suoi portaparola.

Abbiamo qui un’indicazione preziosa per il nostro itinerario quaresimale. La riconciliazione con Dio non si realizza mediante riti purificatori e pratiche ascetiche, ma attraverso l’adesione al messaggio che viene trasmesso dagli ambasciatori di Dio – gli annunciatori della sua parola (Rm 10,14.17).

Nell’ultima parte della lettura (6,1-2), parafrasando un testo del profeta Isaia (Is 49,8), Paolo richiama l’urgenza della riconciliazione con Dio: “Eccolo adesso il tempo del suo favore. Eccolo adesso il tempo della salvezza!” (6,2).

La Quaresima è un’opportunità che ci viene offerta per rettificare oggi, senza dilazioni, il nostro rapporto con il Signore.

Vangelo (Mt 6,1-6.16-18)

1 Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
2 Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3 Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4 perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
5 Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6 Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
16 E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
17 Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, 18 perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Il bisogno di sentirci stimati e valorizzati ce l’ha messo in cuore il buon Dio ed è un prezioso stimolo a occupare attivamente il nostro posto all’interno della comunità.

L’esclusione, il mancato riconoscimento, l’indifferenza sono percepiti come condanna all’emarginazione. Se gli altri non ci considerano, ci sentiamo nessuno, è come se non esistessimo.

Dalla legittima gioia che ci è comunicata dall’approvazione degli uomini, si può però scivolare nell’idolatria della propria immagine, nella ricerca affannosa della visibilità ad ogni costo, al punto da divenire schiavi dello sguardo degli altri e di vivere in funzione dell’apparire, del mettersi in mostra.

È contro il pericolo di agire in funzione della vanagloria che ci mettono in guardia le prime parole che Gesù ci rivolge all’inizio di questa Quaresima (v. 1).

Se non dobbiamo cercare l’ammirazione degli uomini, quale dev’essere allora l’obbiettivo del nostro agire?

La ricompensa. Nel brano di oggi Gesù accenna per sette volte alla ricompensa riservata a chi si comporta secondo i suoi insegnamenti.

L’idea della ricompensa era uno dei cardini della religiosità farisaica: l’uomo pio – insegnavano i rabbini – con l’osservanza dei comandamenti e dei precetti, accumula meriti davanti a Dio e verrà premiato con benedizioni e benessere; l’empio invece “si indebita” e  sconterà le sue colpe, in questa o nell’altra vita.

Era questa una convinzione teologica fondata su testi dell’Antico Testamento e condivisa da tutti. Rabbi Akiba – uno dei rabbini più famosi – all’inizio del II secolo d.C. la spiegava così ai suoi discepoli: “Quando io vedo che il vino del mio padrone non inacidisce, che il suo lino non è intaccato, il suo olio non marcisce, il suo miele non diventa rancido, io mi rattristo perché egli sta ricevendo tutta la ricompensa delle sue opere buone in questo mondo. Ma quando lo vedo nel dolore, mi rallegro perché sta risparmiando beni che gli verranno consegnati nel mondo futuro”.

È in questo senso che Gesù parla di ricompensa?

Nel vangelo si accenna spesso al “premio” riservato ai giusti e anche alla “punizione” dei malvagi: “Il figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16,27) e si invita ad “accumulare tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano” (Mt 6,20).

A prima vista questa forma di ricompensa ci sta bene: è perfettamente in sintonia con il nostro modo di intendere la “giustizia”, ma è conforme al vangelo?

Gesù ha insegnato a donare la vita in modo gratuito e disinteressato. Ha senso allora agire in vista di un premio? Fare del bene per accumulare meriti non è forse un calcolo egoistico? La religione dei meriti non riduce Dio a contabile?

La ricompensa cui Gesù si riferisce non è un posto migliore e più elevato in paradiso, ma l’accresciuta capacità di amare, l’unione più intima, la somiglianza più nitida con il volto del Padre.

Il “premio” è la gioia di amare in modo gratuito, come fa Dio, è l’appartenenza, già fin d’ora, al suo “regno”.

Si può essere figli di Dio come neonati (1 Pt 2,1) o come chi ha già percorso molta strada nel cammino verso l’irraggiungibile meta che è la perfezione del Padre che sta nei cieli (Mt 5,48).

Per progredire in questa maturazione, all’inizio della Quaresima Gesù ci propone tre pratiche ascetiche: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Costituivano i pilastri della spiritualità giudaica ed egli le ripresenta in una prospettiva nuova, la sua.

La prima: l’elemosina.

In ogni villaggio d’Israele c’erano, al tempo di Gesù, incaricati per raccogliere e distribuire gli aiuti per i poveri, gli orfani, le vedove e i viandanti.

Questa istituzione caritativa aveva innegabili meriti, ma, per molti, si trasformava spesso in un’occasione per fare dell’esibizionismo.

Durante la celebrazione liturgica del sabato, c’era l’abitudine di elogiare pubblicamente chi avesse fatto un’offerta generosa. Lo si invitava ad alzarsi in piedi in mezzo all’assemblea, era additato a tutti come esempio, veniva accompagnato al posto d’onore e lo si faceva accomodare accanto ai rabbini.

Gesù ha assistito spesso – e certo con profondo disagio – a questi spettacoli e difatti ha qualificato come “ipocriti” (attori) coloro che si prestavano a metterli in scena.

Non si è indignato; ha provato solo tanta pena perché, per un momento di vanagloria, queste persone – anche molto buone – sciupavano la preziosa opportunità di fare del bene senza farsi notare, come fa Dio che si nasconde a tal punto da far addirittura dubitare della sua esistenza.

Più che di “elemosina”, oggi noi parliamo di solidarietà, di condivisione, di attenzione ai bisogni degli altri.

Il termine “elemosina” suona un po’ arcaico, ma va conservato perché il suo significato etimologico è molto bello, deriva da una radice verbale greca che vuol dire commuoversi, avere pietà, intervenire in favore di chi è nel bisogno perché ci si sente emotivamente coinvolti nel suo problema.

Se poi vogliamo approfondire ulteriormente il senso dell’elemosina, teniamo presente che, nella lingua ebraica, non esiste un termine per definirla. La si chiama semplicemente tzedakáhgiustizia.

Sì, per un ebreo – e quindi anche per Gesù – fare l’elemosina non è lasciar cadere dall’alto qualche spicciolo, ma ristabilire la giustizia, riconoscere che i beni di questo mondo non appartengono all’uomo, ma a Dio. Chi ne ha presi di più deve riconsegnarli a coloro cui il Padre li ha destinati.

È una menzogna parlare di mio, di tuo, di suo e anche di nostro perché “del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” (Sl 24,1). Gli uomini sono solo dei commensali invitati al suo banchetto.

È per questo che Gesù raccomanda ai discepoli di fare la giustizia in segreto: “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (vv. 3-4).

L’autocompiacimento è fuori luogo e il beneficato non deve provare alcun disagio o sentirsi debitore nei confronti di chi gli fa del bene perché gli è solo riconsegnato ciò che appartiene al Padre del cielo.

Avevano ben compreso questa verità i Padri della Chiesa. Per tutti ne citiamo uno, S. Ambrogio che al ricco diceva: “Ricordati che tu non elargisci del tuo al povero, ma gli restituisci soltanto ciò che gli è dovuto”.

La seconda pratica quaresimale: la preghiera.

Oggi è in crisi, non per la cattiva volontà dei fedeli, ma perché non è facile capirne il valore e il modo come va fatta.

Come pregare in Quaresima? Ripetendo con maggior frequenza le orazioni che ci sono state insegnate?

Gesù ha raccomandato di “non sprecare le parole come fanno i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7).

Ci chiediamo anche: Perché far presente a Dio ciò che egli già conosce? “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,8).

Perché sollecitare il suo intervento se egli già desidera il bene dell’uomo? Può la nostra preghiera costringerlo a modificare il suo progetto?

Al tempo di Gesù – come anche oggi – c’erano due forme di preghiera: una pubblica e una privata.

Quella pubblica era fatta nel tempio, nelle sinagoghe e sulle piazze, due volte al giorno. Alle nove del mattino e alle tre del pomeriggio, mentre nel tempio veniva offerto il sacrificio, ogni pio giudeo, ovunque si trovasse, si rivolgeva verso Gerusalemme e si univa spiritualmente al rito che là veniva celebrato.

Gesù non condanna questa pratica cui anch’egli si è mantenuto fedele, ma mette in guardia contro il pericolo di “perdere la ricompensa”, cioè, di rovinarla, di renderla inefficace, con l’ostentazione.

Poi si sofferma sull’altra forma di preghiera, quella privata, quella fatta nella propria stanza, a porte chiuse, nell’intimità con il Padre “che vede nel segreto”.

 Questa preghiera non è una ripetizione di formule, e neppure un elenco di richieste. È un dialogo con Dio, non per convincerlo a fare la nostra volontà e assecondare i nostri sogni, ma per essere introdotti nei suoi pensieri, interiorizzare i suoi disegni e ricevere da lui la forza per svolgere il compito che ci è stato assegnato nella costruzione del suo Regno.

Preghiera è anzitutto ascolto, apertura di cuore per accogliere i progetti di Dio e per non deludere le sue attese. Richiede tempi lunghi e ha bisogno anche di ambienti che favoriscano la concentrazione e il raccoglimento.

Gesù sapeva pregare e sapeva anche scegliere i luoghi adatti, come ci ricordano gli evangelisti: “Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava” (Mc 1,35); “Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare” (Mc 6,46); “Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare” (Lc 5,16); “Gesù passò tutta la notte sulla montagna a pregare” (Lc 6,12)…

Questa preghiera ottiene sempre la “sua ricompensa”: mantiene i pensieri e le azioni dell’uomo in sintonia con quelli di Dio.

La terza pratica: il digiuno.

Esiste in tutte le religioni come espressione di lutto e di dolore ed è spesso accompagnato da gesti come la rinuncia alla cura del corpo, il dormire per terra, il cospargersi di polvere e cenere, il vestirsi di sacco.

Al tempo di Gesù si riteneva che fosse altamente meritorio: serviva a riparare i peccati, impietosiva il Signore, allontanava i suoi castighi, scongiurava le calamità. In Israele aveva assunto un’importanza tale che nell’impero romano era circolava il detto: “Digiunare come un giudeo”. I più pii arrivavano ad astenersi completamente dal cibo, dall’alba al tramonto, due giorni per settimana, il lunedì e il giovedì (Lc 18,12) e ogni maestro dava disposizioni precise ai suoi discepoli su questo punto.

Stando così le cose, sorprende lo scarso rilievo che, nel Nuovo Testamento, viene dato al digiuno. Nelle sue lettere Paolo non vi accenna mai e Gesù ne parla solo in due occasioni: una per giustificare i suoi discepoli che non lo praticano (Mt 9,14), l’altra – quella che troviamo nel vangelo di oggi – per indicare le disposizioni che caratterizzano il vero digiuno.

La comunità cristiana è cosciente di avere lo Sposo con sé “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), quindi non digiuna “come gli ipocriti che si sfigurano la faccia” (v. 16). Il digiuno del discepolo ha un significato radicalmente diverso: non è espressione di lutto e di dolore, ma di gioia per la presenza nel mondo del regno di Dio.

Il cristiano digiuna “profumandosi la testa e lavandosi il capo”. Non ostenta alcuno sforzo, non vuole che si noti il suo sacrificio. È lieto perché, con la sua rinuncia, può veder gioire un povero al quale dà sollievo.

Questo digiuno si scosta da quello dei farisei e si colloca nella linea dai profeti che hanno severamente condannato il falso digiuno.

Basta – hanno detto – col chiamare digiuno e giorno gradito al Signore il “piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto”, mentre si angariano gli operai, si fomentano liti e alterchi, si colpisce con pugni iniqui (Is 58,4-5).

Questo è il digiuno gradito a Dio: “sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo. Dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri senza tetto, vestire uno che vedi nudo” (Is 58,6-7). “Praticare la giustizia e la fedeltà, esercitare la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodare la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero, non tramare il male contro il proprio fratello” (Zc 7,5-10).

Il vero digiuno sfocia sempre in gesti di amore al fratello. Il cibo risparmiato non va rimesso nella dispensa e conservato per il giorno dopo, deve essere distribuito immediatamente a chi ha fame.

Il Pastore d’Erma – un libro molto letto dai cristiani del II secolo – spiega così il legame tra digiuno e carità: “Ecco come tu dovrai praticare il digiuno: durante il giorno di digiuno tu mangerai solo pane e acqua; poi calcolerai quanto avresti speso per il tuo cibo durante quel giorno e tu offrirai questo denaro a una vedova, a un orfano o a un povero; così tu ti priverai di qualche cosa affinché il tuo sacrificio serva a qualcuno per saziarsi. Egli pregherà per te il Signore. Se tu digiunerai in questo modo, il tuo sacrificio sarà gradito a Dio”.

Leone Magno – papa dal 440 al 461 – in un’omelia ai cristiani di Roma raccomandava: “Noi vi prescriviamo il digiuno, ricordandovi non solo la necessità dell’astinenza, ma anche le opere di misericordia. In questo modo, ciò che voi avrete risparmiato sulle spese ordinarie si trasforma in alimento per i poveri”.

Questo digiuno ottiene sempre la sua “ricompensa”: stacca il cuore dai beni di questo mondo, fa dimenticare il proprio interesse, crea amore e condivisione, colloca nel Regno di Dio.

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