I Quaresima: Il deserto e le tentazioni

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«Oggi, o carissimi, entriamo nel tempo sacro della quaresima, il tempo della milizia cristiana. Questa osservanza non riguarda noi singolarmente presi, ma è unica per tutti, tutti quelli cioè che vivono insieme nell’unità della medesima fede». Così san Bernardo di Clairvaux inizia il primo dei sei sermoni che ha dedicato alla quaresima.

L’attacco suona come uno squillo di tromba che invita alla battaglia! Temo che tale linguaggio militaresco non incontri la simpatia di tutti. È pur vero che la fede va proposta con garbo e gentilezza, ma si stia attenti a non ridurre la proposta cristiana a una serie di regole per “star bene” nel senso tutto umano del termine, dove il digiuno si confonde con le diete salutiste e il controllo di sé fa piuttosto pensare agli esercizi da palestra. Nulla contro tutto ciò, perché prendersi cura del corpo è pure un dovere religioso, ma l’altra parte di noi, quella che chiamiamo spirito, esige pure di essere curata e probabilmente messa in primo piano per non sovvertire un ordine che è la base stessa del nostro “benessere” integrale.

In questa luce va letto l’avvertimento di Bernardo che, del resto, echeggia in modo trasparente le parole di Paolo, che parla di armi e di lotta (cf. Ef 6,13-17), così come di allenamenti richiesti a quell’atleta, che è il cristiano, per vincere, in quello stadio che è il mondo, la gara della vita (1Cor 9,24-27; 2Tm 2,5).

E qui è il caso di ricordare che la quaresima non è un tempo di rinnovato slancio spirituale riservato a truppe scelte, come precisa san Bernardo che si rivolge ai suoi monaci, ma ancora di più è l’esercitarsi in uno stile di vita che riguarda tutti e tutto l’anno, perché – come scrive ancora il grande abate – in questo tempo «ci viene proposta una conversione spirituale che non si realizza in un giorno» (Serm. II,2), per cui «la nostra quaresima non è fatta solo di quaranta giorni, ma deve continuare per tutti i giorni di questa misera vita, durante la quale, con l’aiuto della grazia, è necessario compiere il Decalogo della Legge» (Serm. III,3).

La prospettiva è identica a quanto già stabilito da san Benedetto, che scrive nella Regola: «Indubbiamente la vita del monaco deve in ogni tempo conformarsi al regime della quaresima» (RB 49,1). Tempo di rinunce? Certamente, ma di quelle che tengono vivi i desideri santi in un ritrovato equilibrio tra corpo e spirito, perché tale tempo liturgico – come afferma ancora Benedetto – è fatto perché chiunque, «con la gioia del desiderio suscitato dallo Spirito attenda la santa Pasqua» (RB 49,7).

È il caso di ricordare che tutto l’anno liturgico mira ad aiutarci a rivivere in noi lo stile e la prassi di Gesù, invitandoci, con una scelta pedagogicamente efficace, a praticare ora l’uno ora l’altro dei multiformi aspetti della sua vita: l’educazione del desiderio in Avvento, quella dell’agonismo in quaresima.

Il problema è esposto chiaramente proprio all’inizio di questa stagione liturgica in tre tappe: si parte dall’origine del guasto che ha segnato l’umanità (Gen 2,7-9;3,1-7), si racconta poi come Dio ha trovato il modo di riparare tale ferita (Rm 5,12-19), e si finisce con uno sguardo sulle tentazioni di Gesù, che ci danno direttive precise di come, e su cosa, vada ingaggiata la lotta per collaborare con Dio a guarire guasti e ferite (Mt 4,1-11).

Forse ci vorrà un po’ di tempo per commentare tutte e tre le tappe, ma è il caso di ricordare ai fedeli nell’assemblea, che una delle pratiche suggerite per vivere bene la quaresima è di ridurre chiacchiere e distrazioni varie per dare un po’ più di tempo all’ascolto della Parola di Dio.

Il peccato delle origini

Per cominciare, la prima Lettura offre un’occasione eccellente per proporre alcune osservazioni su come vada letta la Bibbia. Il problema è di primissimo piano: da dove arriva il male che c’è nel mondo? E come ciò si accorda con la fede in un Dio buono?

L’autore biblico non fa discorsi teorici, ma presenta il tema attraverso un racconto in cui ciascuno possa facilmente riconoscersi.

Anzitutto, ci viene detto che l’uomo è fatto di «terra» (questo è il senso del nome Adamo), ma che in lui Dio «soffia un alito di vita», e che lo colloca in un meraviglioso giardino. Nel giardino stanno due alberi: quello della «vita», offerto all’uomo come fonte della sua alimentazione; e quello della «conoscenza del bene e del male», riservato a Dio, per cui l’uomo non deve «né mangiarne né toccarlo», pena la morte. Come si vede, è una visione netta, in bianco e nero.

Nel dialogo che inaugura il cammino dell’uomo, Dio rivendica per sé il potere di giudizio, e l’uomo deve sapere fin dal principio, e continuare a imparare che, per conoscere dove sta il bene e dove il male, deve “dipendere” da Dio, così come dipende da lui per il dono della vita. Da questo senso di dipendenza nasce la “religione” (la parola viene da religare), che così stabilisce il rapporto tra Creatore e creatura.

Qui interviene l’anti-Dio, che sarà poi chiamato Satana (l’avversario) e diavolo (il divisore), che stravolge tutto. La sua proposta trasforma l’idea di Dio, che era basata sul dialogo e sul dono, in quella di una divinità gelosa e invidiosa del bene dell’uomo. La mossa è astuta (a questo rimanda l’immagine del serpente), e i due ci cascano.

Ciò che segue spiega l’origine del male nelle creature umane. Ci si presenta un oggetto, un obiettivo, magari una persona, che è «buono da mangiare, gradevole agli occhi, e desiderabile per acquistare saggezza», e la donna mangia un «frutto» (mettiamo in cantina la “mela” e le barzellette relative!) dell’albero proibito, fa suo l’oggetto del desiderio risvegliato in lei, e ne dà anche al marito.

La conseguenza è disastrosa: si trovano ambedue ad essere non come Dio, ma «nudi», e nascondono la loro vergogna coprendosi con «foglie di fico». La dottrina cristiana, a partire, pare, da sant’Agostino, chiama questo fatto “peccato originale”, ma non in senso temporale, come un fatto che sia accaduto all’inizio della creazione, ma nel senso che tale vicenda illustra l’origine di ogni peccato e di ogni male.

Si rifletta! Lo sbaglio sta nelle illusioni che ci facciamo su ciò che sia davvero il vero bene e la fonte di ogni nostra soddisfazione. Non è tutta colpa nostra. San Bernardo, per esempio, ha detto che Dio non ha salvato gli angeli ribelli perché lo sbaglio è venuto dal di dentro di loro, mentre ha salvato l’uomo perché vittima di un’astuzia che lo ha accecato “da fuori”, anche se vi ha collaborato la sua complicità, e lo ha salvato grazie a un altro “uomo”, come è detto nella lettura che segue.

Nascere nella notte

Il brano di Paolo sembra contraddire quanto ho appena detto, e rimandare alla sola persona di Adamo (curioso che non si parli di Eva…) la responsabilità di tutto ciò che ne è derivato.

Il problema di come si è “trasmesso” il peccato da Adamo al resto dell’umanità è complesso. Limitiamoci a constatare il fatto. Una risposta rapida la offre un geniale aforisma di Maurice Bellet: «Se volete capire cos’è il peccato originale, potete rileggere la Genesi o la Lettera ai Romani. Se la cosa non vi è abbastanza chiara, aprite il giornale» (Minuscule traité acide de spiritualité, p. 92).

Conviene stare a ciò che dà forza all’argomentazione di Paolo: la contrapposizione tra Adamo – che significa “fatto di terra”, da intendere come sintesi dell’intera umanità – e Cristo, immagine di un nuovo Adamo, rifatto nell’innocenza originaria. Uno contro uno, uno che porta nel mondo la morte, e un altro che vi riporta il dono della vita, un dono gratuito, paradossalmente ottenuto mediante un’«obbedienza fino alla morte» (Fil 2,8), che ripara la “disobbedienza” del primo uomo.

Tra questi due poli si svolge la “lotta” che è la materia stessa della spiritualità, da vivere soprattutto, ma non solo, in quaresima, partendo dalla convinzione che veniamo al mondo già handicappati nel discernere il nostro vero bene, e deboli nella capacità di realizzarlo, perché – come è stato detto – noi «nasciamo nella notte».

La libidine del potere

Cosa comporti e quanto costi tale “obbedienza” lo scopriamo nel brano di vangelo che, come ogni anno, ci illustra le tentazioni di Gesù nel deserto.

L’ambientazione è già significativa: a differenza di Adamo, che era stato collocato in un “giardino”, Gesù è condotto dallo Spirito nel “deserto”, quello al quale il mondo era stato ridotto dalla colpa d’origine. Ma il deserto evoca anche, e soprattutto, l’esodo degli ebrei quando uscirono dall’Egitto, con un passaggio significativamente intitolato “dalla schiavitù al servizio” come recita il titolo di un bel commento. Questo anche perché le risposte di Gesù alle tre tentazioni del diavolo si rifanno al Deuteronomio che commenta il senso dell’esodo: la prima a Dt 8,3, la seconda a Dt 6,16, la terza a Dt 6,13. Siamo ancora all’uno contro uno, dove “Adamo” incarna l’intero popolo di Israele nel suo percorso verso la liberazione.

Gesù è tentato a vincere, con un prodigio, la fame e il pericolo, per concludere con l’invito ad adorare Satana per avere potere su tutto il mondo. Come ha scritto con molta acutezza Maurice Bellet, in un passo già citato nella III di Avvento, tutte le tre tentazioni riguardano il “potere”, perché in fondo la libido dominandi è la più pericolosa delle tre classiche concupiscenze (cf. 1Gv 2,16).

I progenitori furono tentati di diventare come Dio, padroni di pieni poteri! Così non avrebbero dovuto più rendere conto a nessuno di che uso avrebbero fatto della loro libertà. Disobbedirono e, alla fine, si ritrovarono nudi e destinati alla morte. Noi siamo, invece, chiamati all’«obbedienza della fede» (Rm 1,5), il che ci chiede anzitutto di rinunciare alla libidine del potere per una scelta di servizio.

La sintesi di tutto la trovo nel grandioso inizio della Regola Benedettina: «Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro, perché tu possa far ritorno con la fatica dell’obbedienza a colui dal quale ti eri allontanato con l’inerzia della disobbedienza. A te si rivolge ora la mia parola, chiunque tu sia che rinunci alla tua propria volontà, prendendo le armi potenti e gloriose dell’obbedienza per militare al servizio di Cristo Signore, il vero re» (Prol. 3). È una buona regola, per tutti.

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