I Quaresima: Tentazione di una felicità illusoria

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Nel linguaggio corrente, essere tentati significa sentirsi attratti dal proibito; per questo desta meraviglia il fatto che i grandi personaggi della Bibbia, i patriarchi, Giobbe siano stati tentati. Si prova un certo imbarazzo di fronte ai racconti delle tentazioni di Gesù e si rimane sconcertati dalle affermazioni dell’autore della Lettera agli ebrei che, parlando di Cristo, dichiara: “Poiché ha sofferto egli stesso, essendo tentato, può soccorrere quelli che sono tentati” (Eb 2,18). “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia simpatizzare con noi nelle nostre infermità, essendo stato egli stesso tentato in tutto come noi, senza però peccare” (Eb 4,15).

La Bibbia invita a considerare la tentazione in una prospettiva originale: come un momento di verifica della solidità delle scelte dell’uomo, come un’occasione di crescita. Nella tentazione è insito anche il rischio di commettere errori, ma questo pericolo è inevitabile se si vuole maturare, divenire “esperti, “periti”. Questi termini infatti altro non significano che “tentati”, “sottoposti a una prova, a un esame”.

La scelta è fra accogliere o rifiutare il progetto del Padre.

Due uomini sono messi a confronto: uno – Adamo – decide di seguire i propri giudizi ingannevoli; l’altro – Cristo – fa costante riferimento alla parola di Dio. Il primo stende la mano verso un frutto di morte, il secondo diviene l’autore della vita.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”

Prima Lettura (Gn 2,7-9; 3,1-7)

7 Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
8 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9 Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
3,1 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. 2 Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. 4 Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

A prima vista questo racconto sembra molto semplice, tale da poter esser capito anche dai bambini. Partendo da questo presupposto, sono state dedotte conclusioni sul “peccato originale” che a molti oggi appaiono problematiche, fragili e infondate.

Non è serio pensare che un serpente abbia parlato, che sia esistito in qualche parte del mondo il giardino dell’Eden, che Dio abbia passeggiato in questo giardino e che abbia dato proibizioni tanto ridicole, come quella di non mangiare un frutto.

 È difficile accettare che si debbano portare le conseguenze di un errore commesso dalla prima coppia umana. Perché e da chi è stato stabilito che questa colpa venga trasmessa in eredità? Chi può ancora credere che tutte le sofferenze dipendano dal peccato di Adamo ed Eva?

Si tratta di obiezioni serie che obbligano a rivedere una certa interpretazione del “peccato originale”. Ci si chiede se essa sia fondata sul racconto biblico oppure derivi dall’incomprensione del genere letterario impiegato dall’autore sacro.

Adamo ed Eva sono due individui storici e noi i loro poveri discendenti o siamo noi Adamo e Eva? In altre parole, il racconto del “peccato originale” è la cronaca di un fatto singolo o è la storia di ogni uomo e di ogni donna che oggi sono tentati e sedotti da proposte di felicità illusorie?

Nelle difficoltà cui abbiamo accennato, s’imbatte chi non tiene presente che il brano non è il reportage di un fatto accaduto all’inizio della nostra storia, ma un mito che vuole spiegare ciò che noi siamo oggi. Non è una cronaca, ma una riflessione sapienziale sulla condizione presente dell’uomo, è un tentativo di rispondere ai nostri enigmi, ai nostri tormenti interiori.

È passato il tempo in cui il mito era considerato un momento infantile del pensiero umano, una tappa di passaggio prima della maturità che sarebbe stata raggiunta con il pensiero razionale, col ragionamento astratto, col positivismo scientifico che tutto vuole definire e quantificare. Oggi è pacifico che il mito sia un genere letterario insostituibile: serve a trasmettere quelle verità che nessuna analisi razionale è in grado di esprimere.

Il ragionamento è freddo, statico, il mito invece può essere costantemente attualizzato, provoca intuizioni sempre più profonde, suscita forme di pensiero sempre nuove.

Ridurre i capitoli 2-3 della Genesi al racconto semplicistico della mela significa non prendere sul serio il mito, equivale a ignorare che, in questi capitoli, viene insegnato qualcosa di molto serio sull’uomo e sul suo rapporto con Dio. Va evitato il rischio di voler attribuire, a tutti i costi, un contenuto storico al mito, asserendo che nulla è impossibile a Dio (persino far parlare i serpenti)… Il problema non è sapere ciò che è accaduto, ma cogliere nel mito quelle verità che riempiono di significato la nostra esistenza. Cerchiamo allora di ascoltare il mito, di comprenderne le immagini, di lasciarci interpellare e coinvolgere dal racconto.

Il brano inizia presentando l’uomo in un giardino dove Dio ha fatto germogliare ogni sorta di alberi graditi alla vista e frutti buoni da mangiare. Al centro del giardino sono poste due piante intoccabili: quella della vita e quella della conoscenza del bene e del male. Appartengono a Dio, non all’uomo. Indicano due limiti che non possono essere valicati senza provocare disastri.

Il primo albero è semplicemente il simbolo di Dio, dispensatore di ogni vita. L’immortalità è un frutto verso cui l’uomo non può stendere la mano: questo gesto equivarrebbe al rifiuto della condizione umana.

L’individuo “deve” passare attraverso questo mondo, segnato da innumerevoli forme di morte, ed è estremamente pericoloso per lui rimuovere questo pensiero, illudersi, ritenersi immortale e costruire la propria vita come se questa fosse la sua città permanente (Eb 13,14). Il salmista prega il Signore: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90,12).

Tuttavia questa condizione non è l’ultima, la definitiva; un giorno l’uomo avrà accesso all’immortalità perché gli verrà offerta da Dio: “Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio” (Ap 2,7). È l’invito ad accogliere la morte e il dolore del presente guardando verso il mondo dove “la morte non ci sarà più, né lutto, né grido di dolore, né fatica, perché le cose di prima se ne sono andate” (Ap 21,4).

Il secondo albero di cui non si possono toccare i frutti è quello della conoscenza del bene e del male. Se diamo una scorsa all’AT, scopriamo che la “scienza del bene e del male” significa “essere padroni delle proprie decisioni e delle proprie azioni”, indica la volontà di essere completamente autonomi nel decidere ciò che è bene e ciò che è male. Pretesa temeraria quella di voler stabilire da soli – sfidando Dio o ignorando le sue parole di padre – quali siano le scelte morali corrette! Quest’albero appartiene a Dio e quando l’uomo dimentica di essere una creatura e si fa, come Dio, conoscitore del bene e del male, si autodistrugge: asseconda i peggiori istinti, si lascia guidare dall’orgoglio, dall’ira, dall’invidia, dalla lussuria; facilmente “chiama bene il male e male il bene, cambia le tenebre in luce e la luce in tenebre, muta l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5,20).

Entra ora in scena il serpente che invita a impossessarsi del frutto proibito.

Per molti secoli in Israele non ci si ricordò più di questo “personaggio”. La Bibbia lo ignora completamente. Soltanto nell’ultimo secolo prima di Cristo, l’autore del libro della Sapienza lo identificò con il diavolo (Sap 2,23-24). Viene da chiedersi chi è questo diavolo che seduce e inganna.

La risposta viene data dal testo sacro; il serpente è la creatura più astuta fra tutti gli animali creati dal Signore, è il punto più alto delle opere da lui fatte: non può che essere l’uomo.

Sì, il serpente non è altro che l’uomo stesso che, giunto al massimo del suo orgoglio, prende coscienza delle proprie capacità, si costruisce la sua morale, pretende di decidere in modo pienamente autonomo. Il serpente rappresenta la volontà di sollevarsi contro Dio, di arrivare a considerarsi Dio. È l’immagine dell’uomo convinto di poter raggiungere la felicità seguendo le proprie astuzie. In breve: è quella parte dell’uomo che lo porta a fare a meno di Dio. Si noti la caratteristica del serpente: è il più astuto, non il più saggio.

Come spiegare questa ribellione?

Tutto comincia da un’immagine falsa di Dio che penetra nella mente, come un serpente che, subdolo e sornione, si insinua nelle fessure di una roccia: non fa rumore, non lo si nota, ma è portatore di morte. Induce a immaginare Dio come un rivale dell’uomo, come colui che gli impedisce di raggiungere la felicità.

Il discorso del serpente non è altro che il pensiero da cui ha origine ogni peccato: Dio non vuole il bene dell’uomo, è geloso del proprio potere ed è detestabile perché non fa che proibire; finché egli esiste, l’uomo rimarrà sempre piccolo e immaturo. Solo quando Dio sarà eliminato, l’uomo potrà diventare adulto, affermare se stesso, crescere, progredire.

Il passo successivo è il peccato. La sfiducia nei confronti di Dio porta a fare scelte contrarie alle sue indicazioni. Il peccato non nasce da una ricerca del male, ma del bene e della felicità. Il guaio è che, diffidando di Dio, l’uomo punta sul bersaglio sbagliato, fallisce l’obiettivo e si autodistrugge. È un errore, una mancanza di sapienza, un’astuzia insensata.

La lettura si conclude rilevando la presa di coscienza dell’uomo e della donna di essere nudi.

Alla fine del capitolo secondo, l’autore sacro ha già ricordato il tema della nudità: “Tutti e due, l’uomo e sua moglie, erano nudi, ma non ne provavano vergogna” (Gn 2,25). Dopo il peccato, invece, non accettano più serenamente questa realtà, cercano di nasconderla, sentono il bisogno di intrecciare foglie di fico e di coprirsi (Gn 3,7).

Nel contesto di questo racconto, la nudità non ha nulla a che vedere – come qualcuno forse ancora ritiene – con la sessualità e con la perversione degli istinti. È semplicemente il simbolo della condizione umana: “Nudo uscii dal seno di mia madre” – è l’espressione impiegata da Giobbe per descrivere la propria realtà di uomo (Gb 1,21). A questa stessa immagine ricorre il Qoèlet: “Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così l’uomo se ne andrà di nuovo come era venuto” (Qo 5,14). Spogliato di tutto ciò che si può mettere addosso, l’uomo rimane ciò che è, con tutti i suoi limiti, le sue debolezze, le sue fragilità.

L’incapacità di risolvere tutti i problemi, i momenti di abbattimento e di depressione, le debolezze fisiche e psicologiche, l’handicap, l’ignoranza, la malattia… non sono motivo di vergogna, non sono sconfitte: sono la nudità dell’uomo, sono la sua condizione naturale.

L’uomo sano non si vergogna di questa nudità, la riconosce, la accetta serenamente, la ama e la gestisce secondo il progetto di Dio. È il serpente che si cela in ognuno che spinge a rifiutarla, a considerarla una sciagura, che istiga ad avanzare la pretesa di essere perfetti e senza limiti, come Dio.

 Seconda Lettura (Rm 5,12-19)

12 Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. 13 Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, 14 la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
15 Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini. 16 E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione. 17 Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
18 Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dá vita. 19 Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

Il lungo e intricato ragionamento che Paolo fa in questo brano della Lettera ai romani pare contraddire la spiegazione che abbiamo dato del racconto della Genesi. Qui l’Apostolo sembra presupporre che Adamo sia un individuo ben identificato e responsabile di ogni male. In realtà, egli non fa che riprendere (senza canonizzarla) l’interpretazione dei rabbini del suo tempo. Si serve della contrapposizione fra Adamo e Cristo per spiegare l’opera di salvezza compiuta da Gesù.

Adamo volle essere signore del bene e del male ed ottenne come risultato la morte. Cristo, al contrario, riconobbe la propria dipendenza da Dio, fu sempre fedele e obbediente al Padre e divenne Signore della vita. Tutti coloro che lo seguono e ne imitano l’obbedienza saranno costituiti giusti.

Fra questi due modi di essere uomini ognuno è invitato a fare la sua scelta.

Vangelo (Mt 4,1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. 2 E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. 3 Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane”. 4 Ma egli rispose: “Sta scritto: ‘Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
5 Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio 6 e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: ‘Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”.
7 Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: ‘Non tentare il Signore Dio tuo”.
8 Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: 9 “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. 10 Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: ‘Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”.
11 Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano.

Durante un corso biblico tenuto in Africa, un catechista mi chiese: “Quando Gesù fu condotto sul pinnacolo del tempio per essere tentato, chi camminava davanti, lui o il diavolo?”. A questa domanda potrebbero seguirne altre: dove si trova il monte altissimo dalla cui cima si possono contemplare tutti i regni del mondo? Come ha fatto Gesù a resistere tanto tempo senza mangiare? Che sembianze ha assunto il diavolo? Chi ha raccontato a Matteo come si sono svolti i fatti? Come si può considerare Gesù un fratello “in tutto simile a noi” (Eb 2,17), anche nelle tentazioni, se poi viene sottoposto a prove così diverse dalle nostre?

L’elenco delle difficoltà potrebbe continuare, ma bastano queste per far comprendere che non siamo di fronte a un brano di cronaca, ma a un testo di teologia.

Marco, il primo evangelista, si limita ad ricordare che “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto dove rimase quaranta giorni, tentato da satana” (Mc 1,12-13). Servendosi del linguaggio e delle immagini bibliche, egli intendeva dire che tutta l’esistenza di Gesù, rappresentata dal numero quaranta, era stata un drammatico confronto fra lui e il tentatore.

Negli anni seguenti, la riflessione delle comunità cristiane era continuata. I discepoli ricordavano soprattutto la più drammatica delle sue tentazioni, quella sulla croce, quando aveva gridato al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Queste parole potevano suonare blasfeme a chi non capiva che, in quel momento, Gesù stava pregando: recitava il Salmo 22. Come aveva fatto durante tutta la sua vita, anche durante l’agonia egli si richiamava alle Scritture.

Come sintetizzare in una pagina di catechesi questa esperienza di tentazione, durata una vita e conclusasi, in crescendo, sulla croce?

Le comunità cristiane, che ben conoscevano l’AT, notarono presto il parallelismo fra Israele – il figlio che Dio aveva chiamato dall’Egitto e che nel deserto aveva risposto con infedeltà alle tenerezze del Padre (Os 11,1-4) – e Gesù, il figlio prediletto che, invece, era sempre stato obbediente. Servendosi di un genere letterario usato spesso dai rabbini – l’haggadah midrashica – esposero le loro riflessioni in tre quadretti che, guidato dallo Spirito, Matteo riprese e conservò nel suo vangelo.

Le risposte di Gesù al tentatore fanno riferimento a tre eventi dell’Esodo: le mormorazioni del popolo per la mancanza di cibo e il dono della manna (Es 16), le proteste per la mancanza d’acqua (Es 17), l’idolatria rappresentata dal vitello d’oro (Es 32). Gesù rivive dunque tutta la storia del suo popolo: viene sottoposto alle stesse tentazioni e le supera.

Esaminiamo ciascuna di queste tre “parabole” che rappresentano, in modo schematico, i modi errati di rapportarsi con tre realtà: con le cose, con Dio, con le persone.

La prima: “Di’ che questi sassi diventino pane” (vv. l-4).

Senza pane non si vive. “Mangiare” è uno dei verbi più usati nella Bibbia: ricorre novecentodieci volte nell’AT e questo dimostra quanto sia importante per Dio che ogni uomo abbia di che cibarsi.

Nel deserto il Signore disse a Mosè: “Ecco io sto per far piovere il pane dal cielo per voi. Il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione per un giorno, perché io lo metta alla prova”. Mosè disse agli israeliti: “Raccoglietene quanto ciascuno ne può mangiare e nessuno ne faccia avanzare fino al mattino”. Ma essi non obbedirono e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì (Es 16,4.19-20).

È un caso tipico di tentazione pedagogica: Dio ha collocato Israele di fronte alla manna per educarlo all’uso dei beni terreni e alla fiducia nella sua provvidenza. Insegnando al suo popolo a controllare l’avidità, voleva liberarlo dalla frenesia del possesso e dalla brama di accumulare cibo. Non ci riuscì: la seduzione dei beni di questo mondo è quasi irrefrenabile, è difficile accontentarsi del “pane quotidiano”, per permettere a tutti di avere il necessario per vivere.

Tentato di servirsi delle proprie capacità per produrre “pane” per se stesso, Gesù reagì richiamandosi alla Scrittura: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3).

Solo chi considera la propria vita alla luce della parola di Dio, solo chi, come Geremia, la “divora con avidità” e fa di essa “la gioia e la letizia del suo cuore” (Ger 15,16) è capace di dare il giusto valore alle realtà di questo mondo. Non vanno disprezzate, distrutte, rifiutate, ma nemmeno considerate idoli. Sono creature, caduche e transitorie, non realtà assolute.

In questa prima scena viene identificato e denunciato il modo sbagliato con cui l’uomo si rapporta con le realtà materiali. L’impiego egoistico delle ricchezze, accumulare per sé, vivere del lavoro degli altri, sperperare nel lusso e nel superfluo, mentre ad altri manca il necessario sono comportamenti dettati dal maligno.

Per i cristiani la Quaresima è tempo di revisione di vita e di conversione. La fede nel Risorto non può ridursi a una sollecitazione all’elemosina, a lasciare cadere qualche briciola più consistente dalle nostre tavole imbandite. È piuttosto una provocazione a rivedere radicalmente il modo di gestire i beni di questo mondo. Possiamo chiederci, ad esempio, se abbiamo chiara in mente la linea di demarcazione fra il previdente e l’avido; se sono compatibili con la scelta evangelica e con la prospettiva cristiana certe spese, certi viaggi di piacere, certi conti in banca, certi investimenti, certe somme favolose lasciate in eredità ai figli. È in questo mondo che dobbiamo vivere, è “disonesta” la ricchezza che abbiamo tra le mani (Lc 16,9), ma questa va gestita tenendo presente le raccomandazioni del Maestro: “Non affannatevi per quello che mangerete o berrete… Perché vi affannate per il vestito?… Di queste cose si preoccupano i pagani… Non affannatevi dunque per il domani” (Mt 7,25-34).

La seconda tentazione: “Gettati giù dal pinnacolo del tempio” (vv. 5-7). La proposta diabolica è basata addirittura sulla Bibbia: “Sta scritto…” – dice il tentatore.

La più subdola delle astuzie del male è quella di presentarsi con un volto accattivante, di assumere un’aria devota, di servirsi della stessa parola di Dio – magari storpiata o interpretata in modo insensato – per condurre fuori strada.

L’obiettivo massimo del maligno non è quello di provocare qualche cedimento morale, qualche fragilità, qualche debolezza, ma minare alla base il rapporto con Dio. Questo obiettivo viene raggiunto quando, nella mente dell’uomo, si insinua il dubbio che il Signore non mantenga le sue promesse, che manchi di parola, che assicuri la sua protezione, ma, nei momenti cruciali, abbandoni chi gli ha dato fiducia.

Da questo dubbio nasce il bisogno di “esigere delle prove”. Nel deserto il popolo d’Israele, stremato dalla sete, ha ceduto a questa tentazione e ha esclamato: “Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). Ha provocato il suo Dio dicendo: se sta dalla nostra parte, se realmente ci accompagna con il suo amore, si manifesti concedendoci un segno, compia un miracolo! Lo ha sfidato per vedere se realmente lo amava.

A ogni uomo capita di aver a che fare con simili dubbi, ogni uomo deve affrontare questa tentazione. Non ne fu risparmiato neppure il profeta Geremia che un giorno ebbe la sensazione di essere stato tradito dal Signore; al colmo dell’angoscia, gli gridò: “Tu sei divenuto per me un torrente infido, dalle acque incostanti” (Ger 15,18).

Anche Gesù fu sottoposto a questa prova, ma non cedette. A differenza di Israele, anche nei momenti più drammatici della sua vita, egli si rifiutò di chiedere al Padre una prova del suo amore, non dubitò mai della sua fedeltà, nemmeno sulla croce quando, di fronte all’assurdità di quanto gli stava accadendo, poteva essere indotto a pensare che anche il Signore lo avesse abbandonato.

Noi cediamo a questa tentazione ogni volta che esigiamo da Dio dei segni del suo amore, ogni volta che gli chiediamo di essere liberati, mediante grazie e miracoli, dalle difficoltà, dalle contrarietà, dalle sciagure che colpiscono gli altri uomini.

In ogni situazione, felice o dolorosa, dobbiamo sì pregarlo, non perché conceda privilegi o modifichi i suoi piani e li adegui ai nostri, ma perché ci dia luce e forza per uscire più maturi da ogni prova.

Non dobbiamo attenderci che Dio tratti noi in modo diverso dal suo amato Figlio unigenito.

La terza tentazione: “Ti darò tutto se, prostrandoti, mi adorerai” (vv. 8-11). È la tentazione del potere, del dominio sugli altri.

La scelta è fra dominare e servire, fra competere e divenire solidali, fra sopraffare e considerarsi servi. Questa scelta si manifesta in ogni atteggiamento e in ogni condizione di vita: chi si è fatto una erudizione o ha raggiunto una posizione di prestigio può aiutare a crescere chi ha avuto meno fortuna di lui, ma può anche servirsene per umiliare chi è meno dotato. Chi detiene il potere, chi è ricco, può servire i più poveri e i meno favoriti, ma può farla da padrone nei loro confronti.

La bramosia del potere è così irrefrenabile che anche chi è povero è tentato di sopraffare chi è più debole di lui.

L’autorità è un carisma, è un dono di Dio alla comunità, affinché ognuno possa essere collocato al suo posto e sentirsi realizzato. Il potere invece è diabolico, anche se viene esercitato in nome di Dio.

Ovunque si eserciti il dominio sull’uomo, ovunque si lotti per prevalere sugli altri, ovunque qualcuno sia costretto a inginocchiarsi o a inchinarsi di fronte a un suo simile, lì è all’opera la logica del maligno.

A Gesù non mancavano le doti per emergere, per scalare tutti i gradini del potere religioso e politico: era intelligente, lucido, coraggioso, incantava le folle. Avrebbe certamente avuto successo… ma a una condizione, che “adorasse satana”, cioè, che si adeguasse ai princìpi di questo mondo: entrare in competizione, ricorrere all’uso della forza e della sopraffazione, allearsi con i potenti e impiegare i loro metodi. Ha fatto la scelta opposta: si è fatto servo.

Il popolo d’Israele nel deserto si è stancato del suo Dio e ha adorato un vitello d’oro: l’idolo materiale, opera delle mani dell’uomo. Gesù non si è mai inchinato davanti a nessun idolo: non si è lasciato sedurre dal potere politico, dal denaro, dall’uso delle armi, dall’amicizia con i grandi di questo mondo, dalle proposte di successo e di gloria. Ha ascoltato sempre e solo la parola del Padre.

La voce che eccita in noi la sete del potere, che invita a promuovere il culto della personalità è insistente e subdola.

Quest’ultima parte del brano evangelico è un invito a rivedere la nostra vita e a renderci conto che i privilegi, i titoli onorifici, i baciamano non sono offerti da Dio, ma dal tentatore. Ai suoi figli, il Padre di Gesù presenta solo… servizi da rendere umilmente ai fratelli.

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