Trinità: Effervescenza

di:
Vitalità

Israele ha custodito a denti stretti un monoteismo rigido, con cui confrontarsi e contrapporsi al politeismo dei paesi circonvicini, in specie con la cultura ellenistica in cui si trovava immerso nei secoli intorno al volgere dell’Era Comune. Eppure, anche all’interno dei libri della Bibbia ebraica sono presenti degli scritti che mostrano una vitalità in Dio, una effervescenza di vita che si comunica all’uomo, al creato e alla storia, e si contrappone a una presunta glacialità solitaria di Dio rispetto a questi ambiti di vita.

Proverbi

Nella temperie culturale dell’epoca ellenistica (333 – 63 a.C.) un saggio raccoglie la sapienza tradizionale di Israele (preesilica e postesilica) per riproporla, aggiornata, alle nuove leve che nel mondo ebraico dovevano portare avanti la testimonianza della loro fede e della loro cultura nell’ambito di un mondo che pensava la propria come l’unica e superiore in ogni caso, a quella dei “barbari”.

Nel libro dei Proverbi si rinvengono sette raccolte/collezioni di detti/mešālîm: 10,1–22,16: i “proverbi di Salomone”; 22,17–24,22 le “parole dei saggi”; 24,23-34: nuove “parole dei saggi”; 25–29: seconda raccolta salomonica; 30,1-14: le “parole di Agur e di Massa”; 30,15-33: proverbi numerici; 31,1-9: le “parole di Lemuel, re di Massa”.

L’autore che ha composto la redazione finale del libro vi ha premesso una collezione introduttiva (1,1–9,18) che contiene dieci istruzioni offerte dal maestro al discepolo e tre discorsi della sapienza personificata (1,20-33; 8,1-36: 9,1-6). Ha infine completato il libro con una Conclusione (31,10-31) che contiene un poema alfabetico sulla “donna forte”.

La sapienza che parla nel c. 8 è una figura antitetica a quella della meretrice del c. 7. Essa non si apposta negli angoli ma si pianta in mezzo alle strade; non cerca la segretezza, ma predica in pubblico; non pronuncia parole lusinghiere e ingannevoli, ma parla apertamente e senza raggiri; non offre piaceri proibiti, ma acume e prosperità; non induce alla morte ma alla vita. All’amore cattivo (7,18) si oppone l’amore buono (8,17.21).

La sapienza

Nell’inno alla sapienza di Pr 8,12-21 si rinviene una lista di qualità sapienziali e di beni offerti dalla sapienza: nel campo sapienziale si ritrovano saggezza, riflessione, consiglio, abilità, prudenza, valore; nel campo della prosperità si trovano invece ricchezza, gloria, solida fortuna, giustizia/elemosina. In Pr 8,22-31 non si raccomanda più la saggezza per i vantaggi che può offrire nella vita politica e civile – «un discorso nobile ma raso terra» (L. Alonso-Schökel, che seguiamo da vicino in queste note) –, ma ci si riferisce alla sua sfera celeste e alle sue origini, come ad una «musica celeste». I due inni, con prospettive e mentalità diverse, sono stati uniti dall’autore definitivo in un unico testo per raccomandare il culto della sapienza.

Il poema di Pr 8,22-31 dà vita a «un personaggio poetico che nasce, impara, agisce, giudica. Personaggio poetico, dotato di consistenza autonoma all’interno del poema. Non ne consegue che il poeta si riferisca a un essere personale, esistente fuori del poema stesso… La sapienza di questi versetti non è Dio né una divinità della sua corte (uno dei benê ‘elōhim). È una creatura: non però una della tante. Essa è “più” del mondo creato, anche se vi appartiene. Procede da Dio e insieme precede il mondo, occupando una posizione intermedia, posteriore a Dio e anteriore all’universo, è inferiore a Dio e superiore al mondo» (L. Alonso Schökel, corsivo mio). Si potrebbe pensare ad essa come una tabnît di Dio, un’immagine esterna e visibile (cf. Es 25,40 una specie di plastico del tempio). Ciò che però caratterizza la sapienza/hokmāh di Pr 8 è il suo carattere personale. Essa è presentata come partecipe attiva nella fase di realizzazione del creato.

Ci sono testi che parlano della sapienza/hokmāh e del suo sinonimo tebûnāh come di una qualità dell’artigiano o artefice, nella realizzazione della sua opera: Ger 10,12 = 50,15; Sal 104,24; Pr 3,19 «Il Signore ha fondato la terra con sapienza (o “destrezza”, behokmāh), ha consolidato i cieli con intelligenza (o “perizia”, bitbûnāh)»; cf. Sal 136,5; Gb 26,12.

Nel poema di Pr 8,22-31 questa qualità è presentata come un personaggio poetico.

Prima e insieme

I vv. 22-26(27) insistono sulla priorità, sull’anteriorità della sapienza al mondo creato, mentre i vv. 27-31 sottolineano la simultaneità, cioè la presenza della sapienza “quando” il mondo veniva creato.

YHWH ha creato la sapienza. L’ha creata come primizia delle sue fatiche. Si può comprendere derek come “via/cammino/fatica” per intraprenderlo e come modo per realizzarlo. Essa è una creatura, non è un dio, né un’entità divina: essa però precede e sovrasta l’insieme del creato, che giunge all’esistenza in un tempo nel quale la sapienza è già presente accanto a YHWH, «accanto a lui» (TM ebr: ’eṣlô; LXX gr. par’autōi) come un artigiano (TM ebr.: ’āmôn; LXX gr. armozousa = “unentesi”; Nova Vulgata: ut artifex; CEI 2008: “artefice”) (v. 30).

“Gioco” liturgico

Il termine ebraico ’āmôn può indicare il bambino allevato da una nutrice, o il pupillo educato da un tutore, o genericamente il preferito. Questo significato non è coerente con la serie precedente. Il secondo significato è quello di “artigiano, orefice, architetto” (cf. Ger 52,15 dubbio; Ct 7,12 con la variante “orefice”). Scegliendo questo significato si attribuisce alla sapienza una funzione demiurgica. «La traduzione “apprendista” sembra invece mediare tra le due: da un lato, il termine dice attività e, dall’altro, dipendenza. Sap 7,12 chiama la sophia technites, già adulta e futura sposa di Salomone. Può darsi che l’autore abbia sfruttato l’ambivalenza: “vicino a lui” dice di più di “lì io” (v. 27). La vicinanza sembra suggerire un senso di intimità; mentre viene alla mente l’eis ton kolpon tou Patros di Gv 1,18» (L. Alonso Schökel). Le traduzioni antiche traducono harmozousa (LXX), componens (Vg).

La scena e l’attività artigianale e artistica hanno un carattere ludico, espresso dai due verbi š‘š e śḥq impiegati in parallelo. «Davanti al lavoro, fatto “con il sudore delle fronte” si dispiega un’attività che è gioco e piacere, e i cui prodotti portano il contrassegno della libertà creatrice e risplendono di bellezza» (L. Alonso Schökel). Il verbo śḥq può significare ridere di gioia, (Sal 126,2), danzare (2Sam 6,5; Ger 31,4), la danza sacra «davanti a YHWH» (2Sam 6,21); divertirsi (Ger 15,17); giocherellare (o divertirsi) (Sal 104,26); può significare i giochi dell’amore (Gen 26,8). Sir 3,4 limita il tempo del riso con quello del pianto. «Il gioco “davanti a Dio” è liturgia» (L. Alonso Schökel).

Gioia intima fra Dio, la terra e gli uomini

La sapienza è stata creata come “primizia/rē’šît” delle fatiche e delle opere di Dio, stabilita e formata prima delle varie fasi della creazione. Presente fin dalle origini della terra, prima delle acque e delle sorgenti, generata prima ancora dei monti, quando ancora Dio non aveva fatto la terra e i campi. Essa è presente quando YHWH operava in alto fissando i cieli e la volta dell’oceano, e quando agiva in basso reprimendo le fonti abissali, imprimendo limiti al mare e gettando le fondamenta della terra. La sapienza era là da prima e contemporaneamente. Era là accanto a YHWH in gioia liturgica che unisce YHWH e gli uomini. Essa è tramite di gioia, di bellezza, di solidità e di armonia. Tramite di intimità (“presso di lui”) gioiosa fra YHWH e gli uomini.

Non è del tutto chiaro se la particella be– che segue il verbo “giocare” nel v. 30 indichi il luogo o l’oggetto con cui la sapienza gioca. Due le interpretazioni possibili: a) la sapienza maneggia la terra come un gioco, giocando con essa; b) terminato il suo lavoro, la sapienza fa della terra il suo campo di divertimento e degli uomini i suoi compagni di gioco. In ogni caso il suo gioco preferito si trova sulla terra e con gli uomini.

Finito il suo itinerario, qui comincia l’attività della sapienza. In Sir 24 è descritto un itinerario simile ma non uguale: dopo una grande scorreria in cielo e in terra, la sapienza prende la sua dimora stabile in Israele. È un viaggio, e non più una creazione; c’è un popolo eletto, non più l’umanità; si tratta di una dimora, non più di un gioco.

La sapienza era partita da Dio e dall’intimità con lui (vv. 22.30). Si può pensare a una duplice derivazione di pensiero.

1) Gli uomini che trattano e giocano con lei diventeranno sensati, giudiziosi, saggi. La sapientia rende l’uomo sapiens (cf. Pr 10,23: «Lo stolto si diverte [śḥq] a ordire inganni, l’uomo prudente con la sapienza» (tr. L. Alonso Schökel);

2) In senso cristologico, «dato che il Messia è “sapienza di Dio” (1Cor 1,24) e procede da Dio (1,30)».

C’è vita in Dio. Effervescenza di vita e pluralità di presenze intime prima e durante la creazione del mondo.

Il mondo è stato creato in Cristo e in vista di lui (cf. Col 1,19).

C’è gioco in Dio e sulla terra, fra gli uomini.

C’è gioia in Dio.

Gesù la donerà piena agli uomini (cf. Gv 15,11; 16,22; 17,13: «Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia»).

Una gioia gloriosa, effervescente, trinitaria: «E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,22-23).

Lui guiderà

La quinta parola di Gesù sullo Spirito (cf. Gv 14,16-17.26; 15,26; 16,8-11.12-15) guarda decisamente al futuro. Non tanto quello dello scontro col mondo o della testimonianza giudiziale con la quale lo Spirito accuserà e convincerà gli uomini chiusi a Dio che non sono corretti nella loro comprensione delle parole di Cristo e fuori strada nel loro rifiuto del piano di Dio come egli lo ha attutato, quanto del futuro della comunità dopo la pasqua.

Il tempo dell’insegnamento per Gesù si è concluso. Si sta per compiere la sua partenza dal mondo per tornare al Padre. Ci sarebbero molte cose da dire ancora, ma per il momento, fino a che Gesù non avrà affrontato la sua morte ed essere entrato così nella sua gloria, i discepoli non potrebbero portare il peso di prova che esse contengono.

Prenderà del mio

Gesù ha concluso la sua rivelazione. Ha detto tutto e sta dando tutto. Non si tratta di quantità di parole, ma di qualità di comprensione. Fino a che Gesù non avrà compiuto il mistero pasquale di morte e risurrezione gli enigmi non saranno risolti, le prove rese superabili, la verità colta nella pienezza. Solo con la sua partenza dolorosa e gloriosa insieme Gesù avrà completato la rivelazione del Padre (cf. Gv 1,18), avrà rivelato tutta la verità, cioè la rivelazione. Allora lo Spirito che accoglie, interpreta, sminuzza e attualizza la rivelazione di Gesù nel cuore dei credenti potrà compiere la sua opera.

Con la sua azione interiore, la sua “unzione” (cf. 1Gv 2,20.27: «L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi»), lo Spirito porterà i discepoli a comprendere, gustare e vivere la pienezza della verità, la totalità della rivelazione totalità. Essa comprende il mistero pasquale come suo momento culminante e, finché non sia compiuto, lo Spirito non potrà venire e attuare la sua opera con la quale rende presente, viva, attuale la parola “completa” di Gesù.

Lungo lo scorrere dei secoli, lo Spirito farà in modo che i discepoli si approprino e approfondiscano la rivelazione compiuta da Gesù, mettendoli alla sua scuola. Lo Spirito la renderà sempre nuova, fresca, capace di “mordere” la realtà e di incidere con forza sul vissuto dei credenti.

Annuncerà le cose che vengono

Lo Spirito è sempre in ascolto profondo della parola che intercorre comune tra il Padre e il Figlio. Egli è la loro relazione interpersonale fatta Persona, il bacio profumato che li lega. Egli attinge dal tesoro comune di vita, di amore e di parola che scorre nel dialogo Padre-Figlio. Se ne appropria per renderlo effluvio sorgivo di bene e di verità per i discepoli e per l’umanità intera. Ciò che sgorga dal Padre viene accolto con amore, assimilato e ricambiato con soffio di amore dal Figlio, e viene sigillato dallo Spirito del Padre e del Figlio con il fissante dell’amore.

Lo Spirito è attento ad ascoltare il dialogo ininterrotto del Padre e del Figlio. Il Figlio è colui che doveva venire, è venuto (cf. Gv 1,15.27; 3,31; 6,14; 11,27; 12,13) e viene (Gv 14,2-3; 18,28). “Le cose venture/erchomena” che lo Spirito annuncerà ai discepoli saranno strettamente collegate alla realtà di Cristo veniente. Egli infatti sta sempre sulla soglia della storia di ogni tempo. Lo Spirito rivelerà l’appropriatezza della rivelazione di Gesù per i vari tempi, la sua pertinenza a interpretarli e a farli vivere ai discepoli nell’amore che circola nella Chiesa a favore di tutti gli uomini.

La rivelazione quantitativa di Gesù è compiuta. La rivelazione qualitativa in rapporto allo scorrere della storia sarà resa presente dallo Spirito agli orecchi del cuore dei credenti. Lo Spirito appropria con dolcezza e accuratezza di modalità ermeneutica la parola di Gesù, facendone risplendere e riconoscere la sua figura e la sua realtà nel variare dei tempi. Renderà cioè visibile l’identità e la presenza di Gesù (lo “glorificherà”), come in precedenza Gesù aveva fatto nei confronti del Padre suo (cf. Gv 1,14.18; 17,4-6).

Tra il Padre e il Figlio esiste un’unità sostanziale (v. 15; cf. 5,19-20). Per questo motivo, nel momento in cui lo Spirito attingerà dalle “cose” del Figlio (la sua rivelazione, la sua parola), di fatto attingerà dalle “cose” del Padre. Lo Spirito rivela in tal modo la parola stessa di Dio.

C’è vita in Dio

Il Verbo che aveva posto la sua tenda fra gli uomini (cf. Gv 1,14) aveva rivelato il Padre in un tempo concreto, preciso, limitato, come lo era lo spazio in cui aveva agito (cf. (Gv 1,18). Ora lo Spirito compie per le generazioni di ogni tempo il gesto della rivelazione che era stato il compito principale del Verbo incarnato secondo il Vangelo di Giovanni. In esso Gesù è presentato continuamente come l’Inviato dal Padre per rivelare il suo volto. Questa verità è la stella che punteggia tutto il Vangelo di Giovanni (cf. Gv 4,34; 5,23.24.30.36.37; 6,38.39.44; 7,16.28.29.33; 8,16.18.26.29; 9,4; 12,44.45.49; 13,20; 14,24: «Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»; 14,26; 15,21; 16,5; 20,21).

Lo Spirito annuncia le “cose venture” di Cristo, le “cose” di colui che è venuto, viene e verrà. Annuncerà certamente anche il senso profondo delle cose che dovranno succedere ai discepoli, illuminandole nella loro globalità alla luce di quello che Gesù stesso ha rivelato.

Lo Spirito “cucirà” strettamente il tempo di Gesù a tutti i tempi che i discepoli si troveranno a vivere.

Lo Spirito annuncia la presenza della parola e della persona di Gesù, che trascina con sé la parola e la persona amata del Padre che lo ha inviato.

Tri-unità di parola, di presenza, di amore.

Sorgente inesausta, accoglienza filiale, appropriazione efficace e vitale.

C’è vita, gioia, amore in Dio.

Effervescenza di parola, vivacità di amore.

Flusso perpetuo di rivelazione agli uomini di quanto il Dio trinitario li ami e ricerchi solo la loro gioia.

La pienezza della gioia (cf. Gv 17,13).

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