Trinità: L’arcano mistero

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Non abbiamo l’esclusiva della fede in Dio, ma l’affermazione che, nell’unico Dio, esiste una paternità, una filiazione e un dono d’amore è specifica del cristianesimo. Con un termine astratto, non biblico e certo inadeguato, chiamiamo questo mistero Trinità.

La rifiutano gli ebrei che, nella preghiera del mattino e della sera, ripetono: “Il Signore è uno solo” (Dt 6,4-5); non l’accettano i musulmani, per i quali solo “Allah è grande e Maometto è il suo profeta”.

Noi parliamo di mistero, non nel senso di realtà oscura, incomprensibile e, se intesa male, anche contraria alla ragione, ma di ricchezza di vita infinita dell’unico Dio; trascende ogni comprensione e progressivamente si svela all’uomo per introdurlo nella pienezza della sua gioia.

Sarà possibile all’uomo sondare questo imperscrutabile segreto? Un saggio, vissuto al tempo di Gesù, asseriva: “A stento ci raffiguriamo le realtà terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?” (Sap 9,16).

Per penetrare nel mistero di Dio i musulmani hanno il Corano dal quale ricavano i novantanove nomi di Allah; il centesimo rimane indicibile, perché l’uomo non può comprendere tutto di Dio. Gli ebrei scoprono il Signore attraverso gli avvenimenti della loro storia di salvezza, meditata, riscritta e riletta per secoli, prima di essere consegnata definitivamente al popolo, e molto tardi, nei libri santi. Per i cristiani il libro che introduce alla scoperta di Dio è Gesù Cristo. Egli “è il libro aperto a colpi di lancia”, è il Figlio che, dalla croce, rivela che Dio è Padre e dono d’Amore, Vita, Spirito.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Introducimi Signore, con la mente e col cuore, nella tua vita che è amore”.

Prima Lettura (Dt 4,32-34.39-40)

Mosè parlò al popolo dicendo: 32 “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità dei cieli all’altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? 33 Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? 34 O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore vostro Dio in Egitto, sotto i vostri occhi?
39 Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro.
40 Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti dò, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore tuo Dio ti dá per sempre”.

Anche se sono attribuite a Mosè, le esortazioni contenute in questo brano appartengono a un autore anonimo, vissuto a Babilonia nel VI secolo a.C. fra gli israeliti coscienti di essere responsabili della condizione di schiavitù in cui si trovano e convinti di aver ormai definitivamente compromesso con i peccati la loro storia. Sono avviliti, scoraggiati e hanno bisogno di udire parole di consolazione e di speranza.

Il profeta si rivolge a questi deportati e li invita a ripensare al passato. Chiede loro di ricordare le opere di salvezza compiute dal Signore in Egitto e di confrontarle con le gesta che gli altri popoli attribuiscono ai loro dèi. La conclusione è scontata: in tutto il mondo nessuno ha mai sentito dire che un Dio sia intervenuto con tanta forza per liberare il suo popolo, come ha fatto il Signore con Israele. Nessun Dio ha mai parlato come egli ha fatto con Abramo, con i patriarchi e nel roveto ardente con Mosè; non s’è mai udito che un Dio abbia compiuto prodigi straordinari come ha fatto il Signore per salvare il suo popolo (vv. 32-34).

Gli dèi degli altri popoli abitano in cielo e si disinteressano di ciò che accade sulla terra, dimorano in templi dove attendono di essere serviti e ricevere sacrifici dai loro devoti; il Dio d’Israele invece è coinvolto nella storia del suo popolo. Anche il salmista ne è convinto: “Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell’alto, ma si china a guardare in basso, nei cieli e sulla terra?” (Sl 113,6-6).

Se i deportati a Babilonia si fidano di questo Dio attento alle vicissitudini dell’uomo, non possono più lasciare cadere le braccia: come ha fatto in passato, egli certo interverrà per liberarli.

Questa rivelazione di Dio amico e protettore, richiamata dal profeta agli israeliti che si trovano in Mesopotamia, è rivolta oggi a ogni uomo affinché, in ogni circostanza della vita, si senta accompagnato dal Signore e si renda conto che egli gioisce dei suoi successi ed è partecipe delle sue delusioni. Chi crede in questo Dio non si perde d’animo anche se, nella propria vita, verifica errori: sa, infatti, che egli li comprende e indica come porvi rimedio.

Lungi dall’indurre a commettere peccati, la fede nel Dio d’Israele, che è solo amore e tenerezza e che va sempre a recuperare il suo popolo, è uno stimolo a coltivare la fiducia e ad accogliere i suoi precetti come parola di vita. Per questo la lettura si conclude con l’esortazione: “Osserva le sue leggi perché possa essere felice tu e i tuoi figli dopo di te” (v. 40).

Questo brano definisce un primo aspetto della natura del Dio d’Israele, nel quale crediamo anche noi cristiani. È un Dio che non conosce la solitudine, che cerca il dialogo, parla, si interessa dell’uomo e vuole stare con l’uomo; fa uscire il suo popolo dal paese d’Egitto “per abitare in mezzo a loro” (Es 29,46). La tenda del convegno, che accompagnava gli israeliti durante l’esodo, costituiva il segno sacramentale di questa presenza e anche quando essi divennero infedeli e furono deportati a Babilonia, per bocca del profeta Ezechiele, egli continuò a promettere: “Io abiterò in mezzo a loro, per sempre” (Ez 43,7). Il Signore si comportava come chi, perdutamente innamorato, non riesce a staccare il cuore e la mente dalla persona amata, neppure quando questa gli è infedele.

La manifestazione somma di questo bisogno che Dio prova di stare con l’uomo si ebbe quando egli “venne a piantare la sua tenda tra noi e noi potemmo contemplare la sua gloria” (Gv 1,14). Ancor oggi, “dove due o tre sono riuniti nel suo nome, egli è in mezzo a loro” (Mt 18,19-20).

Il profeta, che esortava gli esuli di Babilonia a credere che il Signore era vicino a loro, aveva avuto solo una scialba intuizione; non immaginava che Dio fosse così desideroso di stare con l’uomo da venire un giorno fra la sua gente, da “farsi carne” per poter essere visto con gli occhi, toccato con le mani, udito con gli orecchi e divenire ospite e commensale degli uomini. In un Dio così vicino, nell’Emmanuele, crediamo solo noi cristiani.

Seconda Lettura (Rm 8,14-17)

14 Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. 15 E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”.
16 Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. 17 E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Con parole commoventi, Paolo descrive la condizione del cristiano dopo il battesimo: non è più una semplice creatura, non è uno schiavo sottomesso a un padrone, ma un figlio, perché ha ricevuto dal Signore la sua stessa vita.

Dio non solo ha posto la sua tenda in mezzo a noi, ma è venuto per coinvolgerci nella sua vita, come spiega Pietro ai cristiani delle sue comunità: “La sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene. Ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste partecipi della natura divina” (2 Pt 1,4).

Questa partecipazione è opera dello Spirito. È il suo impulso interiore che dall’intimo del cuore fa traboccare un incontenibile grido di gioia rivolto a Dio e fa esclamare: “Abbà, Padre” (v. 15).

A questo punto l’Apostolo sente il bisogno di definire la differenza fra la filiazione dell’Unigenito, Cristo, e la nostra. Lo fa ricorrendo all’immagine della figliolanza adottiva, un’istituzione sconosciuta in Israele, ma diffusa nel mondo greco-romano, dove chi veniva adottato godeva degli stessi diritti dei figli naturali, compresa la partecipazione all’eredità familiare. In modo simile, anzi, molto più vero – chiarisce Paolo – l’uomo è introdotto da Dio nella sua “famiglia”: gli offre gratuitamente una figliolanza piena e la stessa “eredità”, la stessa beatitudine di cui gode l’Unigenito Figlio suo.

Di fronte a questo dono d’amore, risulta completamente assurdo e inconcepibile che qualcuno abbia ancora paura di Dio. “Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,18-19). È questo il mistero della Trinità, non un discorso cerebrale, ma un coinvolgimento nella vita e nella gioia del Signore. La religione di chi prega un Dio lontano e non lo sente dentro di sé è incompatibile con la professione di fede in Dio che è Padre, Figlio e Spirito.

Vangelo (Mt 28,16-20)

16 Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato.
17
Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano.
18
E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. 19 Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, 20 insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Nelle comunità primitive il battesimo era amministrato nel nome di Gesù. Pietro, nel giorno di Pentecoste, si rivolge al popolo e lo esorta al pentimento e a farsi battezzare “nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei peccati” (At 2,38). Solo in seguito fu introdotto l’uso di battezzare nel nome della Trinità e la formula che Matteo pone sulla bocca del Risorto, riflette la prassi liturgica della seconda metà del I secolo d.C..

La scena raccontata nel brano di oggi è ambientata su un monte della Galilea (v. 16). Il monte, nel linguaggio biblico, indica il luogo delle rivelazioni di Dio. Collocando sul monte la manifestazione del Risorto, Matteo intende dire che solo chi ha fatto un’autentica esperienza di Cristo e ha assimilato il suo messaggio è abilitato a svolgere la missione che egli affida ai discepoli.

Nella seconda parte del brano (vv. 18-20) è presentata questa missione: i discepoli ricevono l’incarico di ammaestrare tutte le nazioni, di battezzarle e di insegnare loro ad osservare quanto Gesù ha comandato.

Erano già stati inviati dal Maestro ad annunciare il regno dei cieli, ma con una limitazione: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5-6). Dopo la Pasqua la loro missione si amplia, diviene universale.

La luce del vangelo aveva cominciato a splendere in Galilea quando Gesù, lasciata Nazaret, si era stabilito a Cafarnao. Il popolo immerso nelle tenebre aveva visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte, una luce si era levata (Mt 4,16). Ora questa luce è destinata a brillare in tutto il mondo: come hanno annunciato i profeti, Israele diviene “luce delle genti” (Is 42,6).

Il momento è decisivo e Gesù si richiama, in modo solenne, alla sua autorità. Il Padre lo ha inviato a portare il messaggio della salvezza e gli ha conferito ogni potere in cielo e in terra. Cielo e terra indicano, nel linguaggio biblico, tutta la creazione (Gn 1,1). Nulla, dunque, sfugge al “dominio” che il Padre ha dato a Cristo.

Questo “potere” universale su tutto il creato non ha nulla in comune con i regni di questo mondo, consiste invece nella capacità di servire l’uomo, conducendolo alla salvezza e introducendolo nell’intimità d’amore con il Padre.

È a questo punto che va collocato il richiamo al mistero della vita divina che, in questa festa, celebriamo e che, balbettando con il nostro povero linguaggio, chiamiamo Trinità.

Non siamo chiamati a dare l’adesione a un concetto astratto, a professare una formula fredda, ma a cantare un inno riconoscente a Dio per il dono che ci ha fatto della sua vita. Il nostro destino era la morte, “ma il dono di Dio è la vita eterna” (Rm 6,23). Riaffiora allora sulle nostre labbra il grido di gioia: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Noi già fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3,1-3) e anche: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2,9-10).

Come si realizzerà questo disegno di salvezza?

Dio lo attuerà attraverso la comunità cristiana. Il Risorto non ha conservato per sé il “potere” conferitogli dal Padre, ma lo ha comunicato ai discepoli che sono il suo prolungamento nel mondo. A loro egli ha affidato l’incarico di portare la salvezza “a tutte le nazioni”.

Di questo compito e dell’universalità della salvezza era consapevole Paolo quando affermava: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino a conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Nessuno, per quanto peccatore, potrà rimanere escluso dalla vita divina, che è offerta gratuitamente a ogni uomo, “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32).

La vita divina raggiungerà l’uomo attraverso l’annuncio del messaggio evangelico e il battesimo (v. 19), due atti che trasformano gli uomini in discepoli e danno inizio a una vita completamente nuova, modellata sui valori proposti da Cristo (v. 20).

La “famiglia” di Dio, la Trinità, è l’immagine della perfetta armonia, della piena integrazione, della totale realizzazione che avviene nell’incontro e nel dialogo di amore. Questa unità di tutti nella pace della “casa” del Padre sarà completamente realizzata quando la “forza di salvezza” del Risorto avrà raggiunto, attraverso i discepoli, ogni uomo, ma deve iniziare oggi, in questo mondo, perché già oggi Dio ci ha reso partecipi del suo stesso Amore.

La vocazione cui è chiamata la comunità cristiana è impegnativa e certamente superiore alle capacità umane.

Nella Bibbia, ogni vocazione da parte di Dio è sempre accompagnata dalla paura dell’uomo e da una promessa del Signore che assicura: “Non temere, io sono con te”. A Giacobbe in viaggio verso una terra ignota Dio garantisce: “Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai, non ti abbandonerò” (Gn 28,15); a Israele deportato a Babilonia dichiara: “Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo. Non temere perché io sono con te” (Is 43,4-5); a Mosè che obietta: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire gli israeliti dall’Egitto?”, risponde: “Io sarò con te” (Es 3,11-12); a Paolo che a Corinto è tentato di scoraggiarsi, il Signore dice: “Non aver paura, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male” (At 18,9-10).

La promessa del Risorto ai discepoli che stanno per muovere i primi, timidi passi non poteva essere diversa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Si chiude così, com’era iniziato, il vangelo di Matteo: con il richiamo all’Emmanuele, al Dio con noi, nome con il quale il messia era stato annunciato dai profeti (Mt 1,22-23).

Il Dio in cui noi cristiani crediamo non è lontano, non sta in cielo, non vive come se i nostri problemi, le nostre gioie e le nostre angosce non lo toccassero. Egli è il “Dio con noi”, il Dio che sta al nostro fianco ogni giorno, fino a quando ci avrà accolto tutti nella sua casa, per sempre.

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