Tutti i santi: Festa della nostra famiglia

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In passato i santi e beati hanno goduto di una enorme popolarità: le chiese erano piene delle loro statue e a loro si ricorreva forse più che a Dio. C’era il santo dei camionisti, quello degli studenti, quello che faceva ritrovare gli oggetti smarriti, quello per le malattie degli occhi, quello per il mal di gola… Erano considerati una specie di intermediari che avevano la funzione di “ammorbidire” l’impatto con un Dio considerato troppo grande e lontano, un po’ inavvicinabile e piuttosto estraneo ai nostri problemi.

Oggi la tendenza di ricorrere al santo per chiedergli che presenti a Dio una raccomandazione si va affievolendo. Ci si rivolge sempre di più al Signore, direttamente, con la fiducia dei figli. I santi – anche Maria – vengono giustamente considerati sorelle e fratelli che, con la loro vita, indicano un cammino per seguire Cristo e invitano a pregare in ogni momento, insieme con loro, l’unico Padre.

Il termine santo indica la presenza nelle persone di una forza divina e benefica che permette di distinguersi, di distanziarsi da ciò che è imperfetto, debole, effimero.

Fra gli uomini apparsi in questo mondo, solo Cristo ha posseduto in pienezza questa forza di bene e solo lui può essere proclamato santo, come cantiamo nel Gloria: “Tu solo sei santo”.

Anche noi però possiamo elevarci verso di lui e divenire partecipi della sua santità.

Egli è venuto nel mondo per accompagnarci verso la santità di Dio, verso quella meta irraggiungibile che ci ha indicato: “Siate perfetti come il Padre vostro che sta nei cieli” (Mt 5,48).

I primi suoi discepoli sono stati identificati con vari nomi. Sono stati chiamati “galilei”, “nazareni” e, ad Antiochia, “cristiani”. Si trattava di designazioni spregiative: “galilei” era sinonimo di “rivoltosi”; “nazareni” si riferiva al villaggio disprezzato da cui proveniva il loro Maestro; “cristiani” significa “unti”, cioè seguaci di un sedicente “unto del Signore” finito sul patibolo.

Non erano questi i titoli che impiegavano fra di loro. Essi si qualificavano come “i fratelli”, “i credenti”, “i discepoli del Signore”, “i perfetti”, “gli uomini della via” e… “i santi”.

Paolo indirizzava le sue lettere “a tutti i santi che vivono nella città di Filippi…” (Fil 1,1); “ai santi che sono in Efeso…” (Ef 1,1); “ai santi e fedeli fratelli in Cristo che abitano in Colossi…” (Col 1,2); “a tutti i santi dell’intera Acaia” (2 Cor 1,1); “a tutti voi prediletti di Dio che siete in Roma e che siete chiamati santi…” (Rm 1,7). Non scriveva ai santi del cielo, ma a persone concrete che abitavano a Filippi, Efeso, Corinto, Colossi, Roma. Erano loro i santi.

Santo è ogni discepolo: sia che si trovi già in cielo con Cristo o che viva ancora pellegrino su questa terra.

Nei templi ortodossi i santi che sono in cielo sono dipinti lungo le pareti, ad altezza d’uomo, in piedi, come i risorti di cui parla il veggente dell’Apocalisse (Ap 7,9). È il modo con cui si vuole rammentare a tutti i partecipanti alla celebrazione che i santi del cielo, benché possano essere contemplati solo con lo sguardo della fede, continuano a vivere accanto ai santi della terra. Sono parte della comunità convocata per rendere grazie al Signore.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Santa è la tua famiglia, Signore, nei cieli e sulla terra.

Prima lettura (Ap 7,2-4.9-14)

2 Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: 3“Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi”.
4 Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d’Israele.
9 Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. 10 E gridavano a gran voce:
“La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”.
11 Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo:
12 “Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen”.
13 Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”.
14 Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”.
E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello.

Quanti dolori, quante lacrime, quante amarezze nella vita dell’uomo! Perché tanti soprusi, violenze e ingiustizie nel mondo?

Quattro capitoli dell’Apocalisse sono dedicati a questo angosciante problema (Ap 5-8). È la sezione dei sette sigilli.

In mano al Signore assiso in trono – racconta il veggente – si trova il libro in cui è registrata la storia dell’umanità, con tutti i drammi che da sempre la affliggono. Vi è contenuta anche la risposta agli inquietanti enigmi del male e del dolore; ma purtroppo il libro è “sigillato con sette sigilli” che nessuno è in grado di spezzare.

Rimarranno dunque sempre velati i misteriosi disegni di Dio?

Al veggente dell’Apocalisse che piange inconsolabile, un vegliardo si accosta e gli dice: “Smetti di piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide. Egli aprirà il libro e i suoi sette sigilli”.

Ecco infatti l’Agnello immolato spezzare, uno ad uno, i sigilli e svelare gli enigmi.

Il nostro brano narra ciò che accade dopo la rottura del sesto sigillo.

Quattro spiriti celesti, posti ai quattro angoli del mondo, stanno per liberare i venti che devasteranno la terra e il mare, quando un angelo, con in mano il sigillo del Dio vivente, sale dall’oriente e ordina di fermarsi. Non tutti devono perire. Coloro sui quali egli avrà impresso il marchio dei servi del Signore saranno risparmiati. (Ap 7,1-4).

Gli eletti, i salvati sono centoquarantaquattromila.

Si tratta di un numero simbolico. Risulta da 12x12x1000 e non indica – come qualcuno erroneamente ritiene – i santi del paradiso, ma tutto il popolo di Dio che vive su questa terra, i cristiani che, per il sigillo del Battesimo, sono annoverati nella schiera degli eletti.

Essi non sono dei privilegiati; non sono loro risparmiate le prove e le tribolazioni che affliggono gli altri uomini. Sono però sottratti al potere dell’abisso, appartengono al Signore e si trovano in una condizione nuova, quella di chi è partecipe della santità di Dio.

Avendo compreso i disegni del Signore sul mondo, contemplano da una prospettiva diversa ciò che accade sulla terra; osservano dall’alto, dal cielo tutti gli eventi e li leggono con gli occhi di Dio.

Sono turbati, sì, come tutti, dalle dure prove attraverso le quali devono passare, ma non sono sconvolti. La malattia, il dolore, i tradimenti per loro non sono sconfitte e assurdità, ma momenti di maturazione e di crescita e la morte non è una beffa, ma una nascita che segna l’inizio della seconda parte della vita, la migliore.

È l’Agnello immolato che, con la sua vita stroncata dall’odio, ma donata per amore, ha rivelato loro che Dio fa rientrare nel suo progetto di salvezza anche gli eventi più assurdi.

Dopo questa prima visione in cui è presentata la comunità dei santi che, su questa terra, è segno della città celeste, ecco apparire una moltitudine immensa che nessuno può contare, gente di ogni razza, lingua, popolo e nazione. Stanno in piedi di fronte al trono dell’Agnello, indossano vesti bianche e hanno palme nelle mani (v. 9).

Il vestito bianco è il simbolo della gioia e della vita nuova che in loro si rivela in pienezza, senza più macchia di peccato; le palme sono il segno della vittoria che hanno conseguito con la loro fedeltà a Cristo. Chi sono?

Questa è la comunità dei santi del cielo, costituita da coloro che hanno concluso il pellegrinaggio sulla terra e sono entrati nella condizione dei beati.

Hanno sopportato tribolazioni e persecuzioni e, come l’Agnello, hanno donato la vita per amore. Dagli uomini sono stati ritenuti degli sconfitti, ma Dio li ha proclamati vincitori e ha consegnato loro la palma (v. 14).

I versetti che seguono e che non sono riportati nella nostra lettura descrivono la sorte che li attende: non avranno più fame, né sete, non li colpirà il sole né arsura di sorta, perché l’Agnello… sarà il loro pastore… e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi (vv. 16-17).

Cristo – l’Agnello immolato – li riconoscerà come agnelli del suo gregge perché si sono fidati di lui, lo hanno seguito nel dono della vita.

Questa pagina è stata scritta per infondere coraggio nei cristiani delle comunità dell’Asia Minore che, alla fine del I secolo, erano tentati di rinnegare il loro Maestro a causa delle persecuzioni.

La prospettiva di condividere con lui la beatitudine del cielo doveva incitarli a mantenere salda la loro fede e a continuare a seguire, con pazienza e perseveranza, l’Agnello immolato.

Seconda lettura (1 Gv 3,1-3)

1 Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui.
2 Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
3 Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

La vita di Dio che il cristiano riceve nel battesimo è una realtà spirituale, misteriosa.

Per descriverla, Gesù, parlando con Nicodemo, impiega un paragone. È come il vento – dice – non lo si vede, non si sa donde venga né dove vada; eppure sappiamo che esiste, lo si sente, ne notiamo gli effetti.

La vita divina nell’uomo non può essere verificata con i sensi, tuttavia i segni della sua presenza sono inequivocabili. Chi l’ha accolta diviene un uomo nuovo, guidato da uno spirito che non è più quello di questo mondo.

Il brano della lettera di Giovanni inizia con un’esclamazione di gioia: Quale grande amore ci ha donato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (v. 1).

Nella mentalità semitica, i figli non solo davano continuità alla vita biologica del padre, ma si riteneva che lo rendessero realmente presente. Per questo ci si attendeva che in loro fosse riconoscibile il genitore: per le sembianze esteriori e i tratti del viso, certo, ma soprattutto per l’integrità morale, per la fedeltà a Dio, per gli aspetti più significativi del suo carattere.

Il cristiano autentico è, nel mondo, la presenza del divino e, come ogni figlio, riproduce le sembianze del Padre che sta nei cieli.

La conseguenza – spiega Giovanni – è che chi non conosce Dio, non può neppure riconoscere i figli che da lui sono stati generati (v. l). Questi fanno scelte in sintonia con i pensieri e i sentimenti del Padre, gli assomigliano, sono diversi dagli altri, sono “santi”. Non deve sorprendere quindi che non siano capiti da coloro che ripiegano i loro sguardi unicamente sulle realtà della terra.

Questa verità è richiamata anche da Paolo ai cristiani di Corinto. I discepoli del Signore – dichiara – possiedono una sapienza, un modo di valutare questo mondo che è incompatibile con i criteri di giudizio degli uomini. Si tratta di “una sapienza divina, misteriosa che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere… L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle” (1 Cor 2,6-14).

Dopo aver richiamato ai cristiani la dignità della loro figliolanza divina – Già fin d’ora noi siamo figli di Dio – l’autore della lettera li invita a contemplare il destino radioso che li attende: Ciò che saremo non è ancora stato rivelato (v. 2).

La condizione attuale non è definitiva. Un velo, costituito dalla nostra realtà mortale legata alla terra, impedisce di renderci conto di ciò che realmente siamo. Un giorno questo velo sarà tolto e allora contempleremo Dio così come egli è e capiremo ciò che già oggi siamo.

Nel grembo materno, il figlio riceve alimento e vita dalla madre, eppure, pur dipendendo completamente da lei, non è in grado di vedere il suo volto. Solo dopo la nascita può guardare e abbracciare teneramente colei che l’ha generato.

In questo mondo l’uomo vive la gestazione nell’attesa del momento del parto. Si trova  nel grembo di Dio che è padre e madre. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” – ricorda Paolo agli ateniesi (At 17,28), ma non possiamo vedere il suo volto. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (v. 2).

Vangelo (Mt 5,1-12)

1 Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2 Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
3 “Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
5 Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

L’uomo ha sempre coltivato il desiderio di incontrare Dio, di interrogarlo, di conoscere i suoi pensieri, di scoprire i suoi disegni.

Come trovarlo? Dove fissare un appuntamento con lui?

Nei tempi antichi si riteneva che il luogo ideale fossero le vette dei monti. Tutti i popoli avevano la loro montagna sacra – luogo d’incontro fra cielo e terra, dimora degli dèi e meta dell’ascesa umana – i greci l’Olimpo, gli abitanti dell’alta Mesopotamia l’Ararat, a Ugarit lo Tzaphòn.

Anche Israele condivideva questa convinzione. Abramo, Mosè ed Elia hanno fatto le loro esperienze spirituali più forti sui monti, sul Moria, sull’Oreb, sul Carmelo.

Matteo colloca il primo discorso di Gesù sul monte.

La devozione cristiana ha identificato questo luogo con la collina che domina Cafarnao. Le suore che la custodiscono l’hanno trasformata in un’oasi di pace, di raccoglimento e di preghiera. Passeggiando sotto gli alberi maestosi, accolti dal fruscio delle foglie mosse dalla brezza che scende dalle vette innevate del Libano, contemplando dall’alto il lago che tante volte è stato solcato dalla barca di Gesù e dei discepoli, ci si sente quasi naturalmente indotti ad elevare lo sguardo al cielo e il pensiero a Dio.

Per quanto possa essere suggestiva questa esperienza, il monte cui fa riferimento Matteo non va inteso in senso geografico, ma nel suo significato teologico.

Più che un luogo reale, “il monte” nella Bibbia indica qualunque luogo o momento in cui ci si dispone ad incontrare il Signore e ad accogliere sua parola.

Possiamo visualizzare la scena. Gesù si stacca dalla pianura, simbolo della società dove – per dirla con il Qoelet – “ogni fatica e tutta l’abilità messe in atto non sono altro che invidia e competizione dell’uno con l’altro” (Qo 4,4). Sale sul monte dove i criteri di giudizio e i modelli di vita proposti sono radicalmente diversi: sono quelli di Dio.

La scala di valori stabilita in pianura è, a grandi linee, la seguente: al primo posto la salute, poi la famiglia, il successo professionale, il conto in banca, gli amici. Anche Dio e i santi – certo – sono collocati in graduatoria, ma piuttosto in basso, come utili supporti dei valori precedenti che sono quelli che stanno realmente a cuore.

Sarà un uomo riuscito colui che imposta la propria vita secondo questi ideali? Cosa ne pensa Dio?

Per non correre il rischio di puntare su obbiettivi deludenti e sprecare la propria esistenza è necessario confrontarsi con il suo giudizio.

Quale scala di valori è proposta sul monte?

Oggi la liturgia ci fa riflettere sulle proposte di beatitudine formulate da Gesù. Sono quelle che i santi del cielo hanno messo in pratica e che i santi della terra, stimolati dal loro esempio, sono incoraggiati a seguire.

Beati i poveri in spirito

Difficile dire in quanti modi è stata interpretata questa beatitudine.

Qualcuno l’ha riferita ai miserabili, ai mendicanti, agli sfruttati, quasi fossero loro le persone di cui Dio si compiace e che quindi andrebbero lasciate nella loro condizione, anzi, bisognerebbe far sì che tutti diventassero come loro.

Si tratta, evidentemente, di un’interpretazione assurda, deviante. L’umanità sognata da Dio non è quella in cui i suoi figli sono indigenti, ma quella in cui “nessuno è povero” (At 4,34).

Altri ritengono che i “poveri in spirito” siano coloro che, pur mantenendo il possesso dei loro beni, non vi legano il cuore e sono generosi nell’elargire offerte a chi è meno fortunato.

Ma l’elemosina – pur raccomandata in alcuni (rari) testi biblici – non introduce nel mondo la “nuova giustizia”, non risolve alla radice il problema dell’equa spartizione dei beni perché ritiene legittimo che sulla terra esistano ricchi e poveri.

Il principio “a ciascuno il suo” che fonda la nostra giustizia sembra saggio e sensato, invece nasce da una premessa falsa, deriva dal presupposto che qualcosa appartenga all’uomo, mentre tutto è di Dio: “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” (Sl 24,1). L’uomo è solo un amministratore di beni non suoi e di questa amministrazione sarà chiamato un giorno rendere conto.

È dal rapporto falso con i beni di questo mondo, dall’istinto maligno di impossessarsene, accumularli, impiegarli per sé che derivano tutti i mali: le guerre, le violenze, i dissidi, le gelosie (1 Tm 6,10) e il mondo disumano che geme nel dolore e implora di essere rinnovato e redento (Rm 8,19-25).

Tutti gli aggettivi possessivi che usiamo esprimono una concezione erronea della realtà: se tutto è di Dio, non ha senso parlare di mio, di tuo e neppure di nostro perché tutto è del Creatore.

L’immagine biblica del mondo è quella della sala del banchetto cui il Signore invita ogni suo figlio dal momento in cui lo chiama alla vita.

L’uomo è un commensale che gioisce con i fratelli dei doni che gratuitamente il Padre mette a disposizione di tutti; chi li gestisce come sua proprietà commette un furto. La stessa vita non appartiene all’uomo, è di Dio, è un dono che deve essere offerto per amore.

Nei confronti dei beni Gesù non ha mai assunto l’atteggiamento di disprezzo che ha caratterizzato i filosofi cinici. Per lui anche la “ricchezza disonesta” diviene buona quando è distribuita ai poveri (Lc 16,19). Tuttavia, benché non l’abbia mai condannata, l’ha considerata un pericolo, un ostacolo – insormontabile per molti – ad entrare nel regno dei cieli (Mt 19,23). Più una persona è favorita, più beni ha a disposizione, più è tentata di legarvi il cuore, trattenerli per sé e impiegarli egoisticamente.

A chi lo vuole seguire – a chi vuole essere santo – Gesù chiede il distacco totale: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).

 È nel contesto di questa esigenza irrinunciabile alla condivisione di tutto ciò che ci è messo a disposizione da Dio che va letta la beatitudine.

Gesù non esalta la povertà in quanto tale. Aggiungendo la specificazione in spirito, chiarisce che non tutti i poveri sono beati. Devono considerarsi tali solo coloro che, per libera scelta, si spogliano di tutto, gestiscono i beni secondo il disegno di Dio.

Poveri in spirito sono coloro che decidono di non possedere nulla per sé e mettono a disposizione degli altri tutto ciò che hanno ricevuto.

Si badi bene: povero secondo il vangelo non è colui che non possiede nulla, ma colui che non trattiene nulla per sé.

Chi ha avuto di più, chi è stato favorito è ricco se diviene altezzoso, umilia i meno dotati, impiega le proprie capacità per primeggiare. Se invece si spende per gli altri, si mette a servizio di chi ha bisogno di lui è povero in spirito.

Anche chi è miserabile può non essere “povero in spirito”. Non lo è se maledice se stesso e gli altri, se tenta di migliorare la propria condizione con la violenza e con l’inganno, se pensa di liberarsi da solo disinteressandosi degli altri, se coltiva il sogno di conquistare un giorno la posizione prestigiosa dei ricchi.

La povertà volontaria, la rinuncia all’uso egoistico di tutti i beni che si possiedono non è qualcosa di facoltativo, non è un consiglio riservato ad alcuni che vogliono essere eroici o più perfetti degli altri. È ciò che contraddistingue il santo, cioè il cristiano.

La promessa che accompagna la beatitudine non rimanda a un futuro lontano, non assicura l’entrata in paradiso dopo la morte, ma annuncia una gioia immediata: di essi è il regno dei cieli. Dal momento in cui si fa la scelta di essere e di rimanere poveri, si entra nel “regno dei cieli”, si appartiene alla famiglia dei santi.

Questa beatitudine non è un messaggio di rassegnazione, ma di speranza: nessuno più sarà bisognoso quando tutti diverranno “poveri in spirito”, quando metteranno i doni che hanno ricevuto da Dio a servizio dei fratelli, come fa Dio, il Santo che, pur possedendo tutto, è infinitamente povero: non trattiene nulla, dona tutto, anche suo Figlio.

Beati coloro che soffrono

Per secoli nella chiesa è stato predicato un’ascesi che esaltato il dolore come mezzo per unirsi più strettamente ai patimenti di Cristo. Ha suscitato schiere di santi e risvegliato preziose energie spirituali, ma ha anche diffuso l’erronea convinzione che la sofferenza sia gradita a Dio.

Non è così. Il dolore disumanizza e il Signore non può compiacersi di un’offerta che sfigura il volto dei suoi figli. Gesù – citando il profeta Osea – ha ricordato che Dio desidera l’amore, non il sacrificio (Mt 9,13).

Che intende dire allora quando proclama beati gli “afflitti”?

Il termine che impiega è ben noto a chi conosce la Bibbia.

Gli “afflitti” di cui si parla nel libro del profeta Isaia sono coloro che non hanno una casa in cui abitare, non hanno campi da coltivare perché l’eredità dei loro padri è stata usurpata da estranei, si devono mettere a servizio di proprietari terrieri senza scrupoli, subiscono ingiustizie, soprusi, malversazioni, umiliazioni (Is 61,7).

A queste persone che hanno il cuore affranto, che siedono nella cenere e che vestono l’abito da lutto (Is 61,3) il profeta rivolge un messaggio di speranza. Dio – assicura – sta per intervenire, capovolgerà la situazione ed eliminare le cause del lutto: “Allieterà gli afflitti di Sion, darà loro una corona invece della cenere, l’olio di letizia invece dell’abito di lutto, il canto di lode invece di un cuore mesto” (Is 61,3).

Nella sinagoga di Nazareth Gesù ha applicato a sé questo oracolo. Ha proclamato di essere venuto per dare compimento a questa promessa di Dio (Lc 4,21).

Gli “afflitti” che il Cielo considera beati sono coloro che sono attenti e sensibili all’immenso grido di dolore che sale dal mondo. “Piangono con coloro che piangono” (Rm 12,15), ma non si rassegnano di fronte al male e alle sofferenze e si attendono da Dio e dalla sua parola la salvezza.

Saranno consolati: nel regno di Dio – di cui Gesù, il Santo, ha posto le fondamenta e che i santi collaborano a costruire – tutte le situazioni che sono causa di dolore e di lacrime saranno eliminate.

Beati i miti

L’aggettivo “mite” richiama l’idea della persona rassegnata che non reagisce alle provocazioni, che accetta passivamente e senza lamentarsi le ingiustizie.

È quest’uomo che rifugge da ogni conflitto (ma che forse rivela anche una personalità debole) che viene proclamato beato?

Il termine “mite” usato da Gesù è ripreso dall’Antico Testamento e, più precisamente, dal Salmo 37 dove sono chiamati “miti” coloro che sono stati privati dei loro diritti, della loro libertà, dei loro beni. Sono poveri perché i potenti hanno sottratto loro il campo, la casa e prefino i figli e le figlie. Sono costretti a subire ingiustizie senza nemmeno poter protestare.

Non si rassegnano, ma si rifiutano di ricorrere alla violenza per ristabilire la giustizia. Non si lasciano guidare dall’ira, non alimentano il rancore e il desiderio di vendetta. Confidano in Dio e attendono la venuta del suo regno.

La loro non è però un’attesa passiva come quella di chi aspetta l’autobus; è operosa, si traduce in impegno concreto.

Modello dell’autentica mitezza è Gesù (Mt 11,29; 21,5) che non è stato certo un debole, un timido, un pusillanime. Ha vissuto conflitti drammatici, ma li ha affrontati con le disposizioni di cuore che caratterizzano i “miti”. Ha ripudiato la violenza, ha amato chi lo avversava; paziente e tollerante si è fatto servo di tutti.

Santi sono coloro che coltivano i sogni di Dio sul mondo e, con Gesù – il Santo – si impegnano a realizzarli, dando prova, nei confronti di chi si oppone loro, della stessa “mitezza” del Maestro.

La promessa: erediteranno la terra. Riceveranno da Dio una terra nuova, costruiranno con lui un mondo nuovo, realmente umano.

Un sogno?

Sì, ma di Dio e i santi non si lasciano persuadere dal maligno che tenta di convincere che le promesse del Signore non si avvereranno mai. Non si rassegnano di fronte alla realtà spesso desolante in cui sono chiamati a operare e mantengono ferma quella speranza che Paolo qualifica con il termine greco hupomoné, la caratteristica delle pietre dure che resistono a qualunque pressione (1 Ts 1,3).

Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia

La fame e la sete sono i bisogni biologici più impellenti. È con la stessa passione – raccomanda Gesù – che i suoi discepoli devono bramare “la giustizia”.

Di che giustizia si tratta?

Quella degli uomini stabilisce che tutti siano trattati secondo ciò che meritano: i buoni vanno premiati, i colpevoli puniti, gli innocenti rilasciati. “Giustiziare” è addirittura sinonimo di mandare al patibolo.

È forse questa la giustizia di cui si deve aver fame e sete?

L’aggettivo “giusto” può essere applicato a Dio, ma con molta cautela, perché si corre il rischio di trasformare il Signore in un esecutore di sentenze e nel garante della moralità con promesse di premi e minacce di castighi.

La Bibbia parla spesso della giustizia di Dio, ma sempre e solo come sinonimo di benevolenza, mai nel senso della nostra giustizia distributiva.

Dio è giusto, non perché retribuisce secondo i meriti, ma perché, con il suo amore, rende giusti coloro che sono malvagi. È giusto perché “vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4).

Per noi giustizia è fatta significa che il colpevole è stato punito. Per Dio giustizia è fatta quando è riuscito a rendere giusto chi era empio, quando ha ricuperato un peccatore dall’abisso della colpa.

Nessuno come Gesù ha bramato tanto che nel mondo si instaurasse questa giustizia.

Ai discepoli che lo invitavano a mangiare ha risposto: “Mio cibo è portare a compimento l’opera di colui che mi ha mandato” (Gv 4,34). Solo la giustizia di Dio poteva saziare la sua fame.

Annunciava la parola che rendeva giusti ed erano tante le persone bisognose di udirla che non gli rimaneva più il tempo neanche per mangiare (Mc 6,31).

Santi sono coloro che condividono con Gesù la sua stessa fame e sete per la salvezza dei fratelli.

La promessa: saranno saziati. Sperimenteranno – già su questa terra – la gioia di Dio e degli angeli del cielo che fanno più festa per un peccatore che è reso giusto che per novantanove che non hanno bisogno di conversione (Lc 15,7).

Beati coloro che compiono opere di misericordia

Questa beatitudine sembra inserirsi nella contrapposizione fra magnanimità e desiderio di punire i colpevoli. Pare un invito a far prevalere sempre la compassione e il perdono.

Questo è certamente uno degli aspetti della “misericordia” e si accorda bene con la raccomandazione di Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6,36-37). Ma non esaurisce la ricchezza di questo termine biblico.

Nella Bibbia la “misericordia”, più che un sentimento di pietà, è un’azione in favore di chi ha bisogno di aiuto. L’esempio più chiaro è quello del samaritano che – dice il testo greco – ha compiuto la misericordia nei confronti dell’uomo aggredito dai banditi (Lc 10,37).

I rabbini del tempo di Gesù insegnavano che Dio è misericordioso perché compie opere di misericordia e specificavano: “Dio vestì gli ignudi – quando ricoprì con foglie Adamo ed Eva; Gn 3,21 – così voi dovete vestire gli ignudi. Egli visitò i malati – difatti andò a trovare Abramo quando soffriva per la circoncisione e visitò la sterile Sara; Gn 18,1 – così voi dovete visitare i malati. Egli confortò coloro che erano in lutto – quando consolò Isacco dopo la morte del padre; Gn 25,11 – così voi dovete confortare coloro che sono in lutto. Egli seppellì i morti – fu lui che seppellì Mosè; Dt 34,6 – così voi dovete seppellire i morti”.

Misericordiosi sono i santi che, di fronte ai bisogni dell’uomo, provano l’emozione del cuore di Dio e intervengono compiendo opere di misericordia, come ha fatto Dio.

La promessa: troveranno misericordia. Nel mondo nuovo, nel regno di Dio, anch’essi, quando avranno bisogno di aiuto, incontreranno sempre fratelli disposti a tendere loro la mano, anzi, a consegnare la loro vita per soccorrerli.

Beati i puri di cuore

La purità era una delle caratteristiche più marcate della religiosità giudaica. Qualunque contatto con i culti pagani, con ciò che in qualche modo richiamava la morte, con ciò che era immondo doveva essere evitato.

Da questa esigenza di purità nascevano i divieti, le minuziose disposizioni dei rabbini che obbligavano a tenersi lontani da ciò che era percepito come contrario alla santità di Dio. Siccome però le trasgressioni erano inevitabili, era necessario ricorrere ossessivamente a riti purificatori, abluzioni, sacrifici (Mc 7,3-4).

Non sono queste pratiche che interessano a Gesù. È la purità di cuore quella che egli esige. Non c’è nulla di esterno all’uomo che lo contamini. È solo ciò che esce dal cuore che può rendere immondi (Mt 15,17-20).

I puri di cuore sono coloro che hanno il cuore indiviso, coloro che non amano contemporaneamente Dio e gli idoli.

Non ha il cuore puro colui che serve due padroni, colui che ha una condotta che non si accorda con la fede che professa, colui che ama Dio, ma mantiene nel cuore il rancore verso il fratello, colui che non commette l’azione cattiva, ma è adultero nel proprio cuore (Mt 5,28).

La promessa: vedranno Dio. Solo a loro è dato di fare l’esperienza beata dell’abbandono fiducioso fra le braccia di Dio.

Beati coloro che si impegnano per la pace

Fra le opere di misericordia raccomandate dai rabbini del tempo di Gesù, la più meritoria era mettere pace, ricostruire l’armonia fra le persone. Ogni azione tesa a riportare la pace – si diceva – attira le benedizioni di Dio.

Beato è certamente colui che, senza ricorrere alla violenza, impegna tutte le sue energie a porre fine alle guerre e ai conflitti; beato è chi si frappone fra i contendenti e tenta di convincerli al dialogo, alla concordia, alla pace.

Ma nella Bibbia la parola “pace” (shalom) non significa solo assenza di guerre. Indica il benessere totale, implica l’armonia con Dio, con gli altri e con se stessi, la prosperità, la giustizia, la salute, la gioia.

“Operatori di pace” sono tutti coloro che si impegnano affinché questa vita colma di ogni bene sia possibile per ogni uomo.

A questi santi viene riservata la più bella delle promesse: Dio li considera suoi figli.

Beati i perseguitati per la giustizia

Ci sono sciagure che colpiscono in modo imprevisto: fatalità, malattie e disgrazie possono capitare a chiunque. Altre sofferenze sono invece la conseguenza di comportamenti dissennati o immorali e queste ce le andiamo a cercare.

C’è un terzo tipo di tribolazioni: quelle che non vorremmo, ma che dobbiamo mettere in conto – perché sono un prezzo inevitabile da pagare – se scegliamo di seguire Cristo.

Gesù non ha illuso i suoi discepoli; non ha promesso onori e successi, non ha assicurato l’approvazione e il consenso degli uomini, ha ripetuto con insistenza e con chiarezza che l’adesione a lui comporta persecuzioni: “Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25). E ancora: “Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome” (Lc 21,12); “Quando vi perseguiteranno in una città fuggite in un’altra” (Mt 10,23); “La sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti ed apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo” (Lc 11,49-50).

La persecuzione è la divisa che contraddistingue il discepolo. Paolo è molto esplicito: “Tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12).

Come mai? Ci aspetteremmo che il cristiano – messaggero di pace e di speranza – debba essere accolto a braccia aperte, con gioia e gratitudine.

Invece l’annuncio del vangelo crea conflitti. La ragione è che mondo antico è incompatibile con il regno di Dio e non si arrende in modo pacifico, reagisce aggredendo coloro che lo vogliono far scomparire.

Cristo ha pagato con la vita la fedeltà alla sua missione e i suoi discepoli non devono attendersi un trattamento diverso: “Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20).

Della persecuzione dei giusti si parla spesso anche nell’Antico Testamento. Nei Salmi il giusto chiede a Dio: “Liberami dalla stretta dei miei persecutori” (Sl 7,2); “Quando farai giustizia dei miei persecutori? A torto mi perseguitano: vieni in mio aiuto” (Sl 119,84.86). Geremia è osteggiato, calunniato, rinchiuso in una cisterna.

Nell’Antico Testamento però la persecuzione è considerata un male e l’uomo che la subisce non può essere felice finché Dio non interviene per porvi fine.

Nel Nuovo Testamento la prospettiva cambia. Colui che soffre per la sua fedeltà al Signore è proclamato beato nel momento e per il fatto stesso di essere perseguitato.

La persecuzione non è il segno del fallimento, ma del successo. È un motivo di gioia perché costituisce la prova che si sta portando avanti la scelta giusta, quella secondo la “sapienza di Dio”.

 È inevitabile che coloro che propongono una società fondata sui principi insegnati “sul monte” siano perseguitati. Essi introducono nel mondo gli anticorpi del servizio che attaccano i virus del potere. A questi virus, anche se mimetizzati o nascosti sotto sacri paludamenti, non danno scampo.

Chi sente la propria posizione e il proprio prestigio minacciati dalla venuta del regno di Dio reagisce, con violenza se è necessario.

I santi non hanno mai avuto vita facile: il loro destino è stato segnato dal momento in cui hanno accettato di comportarsi da agnelli.

Sottoposti a persecuzione, non hanno ceduto alla tentazione di comportarsi da lupi e non si sono allontanati dal comportamento suggerito dal Maestro: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5,44) e da Paolo: “Benedite coloro che vi perseguitano” (Rm 12,14).

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