V Per annum: Una luce “saporosa”

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Nella terza parte del libro di Isaia (cc. 55-66) ci si ritrova in pieno ambiente del ritorno del popolo di Israele dall’esilio babilonese nel 538 a.C. (non tutti in verità tornarono, essendosi ben sistemati a Babilonia come, d’altra parte, aveva suggerito il profeta Geremia nella sua lettera (cf. Ger 29).

Un digiuno “divino” di luce

In una terra devastata, priva del suo punto di riferimento religioso centrale (il tempio distrutto), le case degli esiliati occupate dai poveracci rimasti nel paese, è difficile riprendere la vita e la speranza nelle promesse del Signore. Sì, si è tornati, ma la realtà è ben misera e lontana dalla realizzazione delle aspettative. La società è disarticolata e in preda a rivalità e rissosità politico-economiche (realtà che ben si conoscono tutt’oggi con gli sciacallaggi politici nel momento stesso dell’emergenza di un problema).

Eppure, ci sono nell’Israele del post-esilio persone attaccate ancora alla lettera della Torah del Signore-YHWH, che aveva previsto nella sua istruzione anche l’istituto del digiuno. Esso era praticato soprattutto nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) e in alcuni giorni che ricordavano catastrofi nazionali. Il 9 del mese di Av (luglio-agosto) ricorderà la tragedia della distruzione del primo tempio (quello salomonico) e anche del secondo (nel 70 d.C. ad opera dei romani).

La pietà personale alimentata dalle correnti religiose vive nel tessuto del giudaismo (specialmente l’influente corrente farisaica) raccomandava altri digiuni. Il digiuno praticato dai cristiani dei primi secoli al mercoledì e al venerdì (in ricordo della cattura e dell’uccisione di Gesù) sembra contrapporsi al digiuno praticato dai giudei il lunedì e il giovedì (i giorni più distanti dallo shabbat).

La pagina di Is 58,7-10 è veramente splendida, da leggere nel suo contesto più completo. Dio è un contestatore feroce e mordace del comportamento religioso dei suoi fedeli. Essi sono ben attenti a distinguere la vita “religiosa” con le sue “pratiche” dalla concreta vita sociale, economica, politica. Il digiuno materiale da loro osservato si svolge in un contesto sociale di litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui (Is 58,4). Fare digiuno in questo clima è solo far salire al cielo «il vostro chiasso». Una religiosità esterna da “atei devoti” non piace a YHWH.

La vita di rapporto profondo che lega (re-ligione) il fedele col suo Dio non può convivere bellamente (e anche talvolta ammantata con forzate giustificazioni) con l’ingiustizia sociale. Pratiche di umiliazione esterna del corpo non valgono se non in quanto espressione di un contemporaneo impegno concreto per una convivenza civile giusta, “democratica”, attenta a chi fa più fatica, ai poveri.

YHWH sembra che prediliga piegare il collo come un giunco davanti all’uomo concreto, nel bisogno, al carcerato che ingiustamente soffre lunghi anni di detenzione preventiva, le persone soffocate dal giogo dell’oppressione mafiosa, dello strozzinaggio, della schiavitù delle slot-machine che dissanguano i bilanci economici e distruggono le relazioni familiari e sociali.

Digiuno vero, “divino” è togliere via noi da noi stessi, decentrare il nostro “io” e porlo in posizione estroflessa. Rinunciare al malefico narcisismo imperante per mettere al centro un “noi”, fatto di “io” e del mio “prossimo” che è mio fratello, fa parte di me, è me stesso. Digiuno non può essere un puro astenersi temporaneamente dal cibo, da un divertimento o da un acquisto superfluo e non necessario, ma da una “con-divisione” di quel che si è e che si ha con chi è nel bisogno: l’affamato, il profugo, il disoccupato, il terremotato, colui che è stato privato della sua dignità umana e ridotto a una cosa… Il digiuno “divino” è con-divisione e accoglienza che interpella la persona e il suo nucleo familiare, la scomoda, le fa aprire le porte di casa per accogliere e condividere.

Davvero la parola di Dio non smette di stupirci con la sua puntualità e la sua attualità. Un parlare fresco, pulito, semplice, spiazzante, non “religiosamente corretto”. Senza trascurare la vita, la cultura, i valori propri di un popolo, YHWH si premura invece di essere un medico davvero “divino”. L’accoglienza e la condivisione è un vero digiuno dal male e dalla disarticolazione rissosa della società che si trova senza valori fondanti e prospettive condivise di umanizzazione disponibile a tutti.

Praticando il digiuno “divino” la ferita di un popolo si rimarginerà presto. Bellissimo! La soluzione di tante problematiche profonde di un popolo, derivante talvolta da un surplus di benessere egoisticamente gestito, disgregante le strutture spirituali profonde di solidarietà e accoglienza, di apertura mentale e di “fiducia” istintiva nell’altro, può venire solo – dice il medico specialista YHWH – dall’apertura e non dalla chiusura, dall’interessamento globale e locale, e non dall’indifferenza globalizzata.

La tua ferita si rimarginerà presto. Si vede benissimo nella solidarietà prestata da tante persone a chi è stato colpito dal terremoto. Nell’emergenza risalgono in superficie i valori più profondi, costruttivi, altruistici, “cristiani” della popolazione italiana. Il dolore profondo di famiglie, bambini, anziani, malati che hanno perso tutto finisce per relativizzare realtà non così decisive per una vita bella, sapiente, saporosa, “salata” al punto giusto… In questo caso la giustizia – relazioni buone con gli altri derivanti dal rapporto buono primigenio col Signore – precede il cammino di un popolo e allora anche il Signore-YHWH ascolterà il grido della sua gente e si presenterà alla protezione civile dicendo prontamente: «Eccomi».

Occorre digiunare drasticamente dal vedere l’altro – a tanti livelli e in tanti ambiti – sempre come un nemico, un avversario da aggredire verbalmente, fisicamente, da demolire mediaticamente con tweet e post superficiali, falsi, ingiuriosi, calunniatori. Il puntare duramente il dito sui tasti dei vari media è ingurgitare in quantità industriale narcisismo e menzogna eretta a sistema comunicativo. Non v’è chi non veda l’aspra contraddizione tra tante posizioni socio-politico-economiche strombazzate a più non posso e la chiara parola di Dio (addirittura del Primo Testamento!) che tante persone affermano di voler seguire nella propria vita. Digiunare dalla menzogna e dall’aggressione delle altre persone, cercare il bene che unisce più che le differenze che dividono, cercare il bene comune dell’uomo e di una società civile degna di questo nome, è l’unico digiuno davvero gradito a Dio.

È la vita che trionfa, un digiuno che diventa calore e luce per tanti «afflitti di cuore». Un digiuno di luce che riapre la speranza e la gioia di non sentirsi soli e abbandonati nel mare affascinante ma pericoloso della vita. La luce viene dall’alto, da YHWH e viene immagazzinata da tanti pannelli solari, che rilasceranno la loro energia a tempo debito e nella necessità comunitaria. Un digiuno “luminoso” può venire solo dall’alto, dall’apertura a colui che è il Padre di tutti i suoi figli. Un digiuno “divino”, luminoso.

Due metafore

Nel brano evangelico Gesù usa due metafore semplici e significative per illustrare la bellezza e la novità della vita cristiana, la vita dei discepoli di Gesù. Dopo il grandioso portale del Discorso della Montagna costituito dalle Beatitudini, Gesù propone una loro amplificazione mediante due detti riguardanti i suoi discepoli (i destinatari immediati del Discorso della Montagna) ma aperti evidentemente in modo tendenziale ad ogni persona che decida di mettersi al suo seguito.

Gesù pronuncia due affermazioni, e non due auspici: «Voi siete il sale della terra», «voi siete la luce del mondo». Egli assimila totalmente a sé i suoi discepoli, facendoli partecipi pienamente delle sue proprietà originarie quale vera luce del mondo (Sal 27,1: «Il Signore è mia luce e mia salvezza»; cf. Gv 8,12: «Io sono la luce del mondo») e sale della terra (cf. Col 4,6: «Il vostro parlare sia sempre gentile [lett. “con amore”], sensato [ lett.: “condito con sale”…]»).

Il sale insaporiva le pietanze, preservava la carne dal marcire, favoriva l’accensione del fuoco, era usato nel concludere atti di alleanza o di maledizione perpetua su una città distrutta. Se mescolato a impurità e sporcizia, esso perde le sue proprietà (lett. “diventa sciocco”), che non possono in alcun modo essere recuperate. Il sale si raccoglie nella saliera ma in cucina non si sparge a bracciate, ma a spizzichi, con parsimonia, in modo equilibrato fra le parti e raggiunge il suo scopo quando si scioglie nel cibo che vuole insaporire. Un cammino è già tracciato per il singolo discepolo di Gesù, ma anche per la comunità cristiana intera.

Il pericolo di diventare “sciocchi”, insignificanti perché insipidi, pervade la comunità cristiana dal suo interno. È un problema di credibilità ecclesiale, per poter servire a tutti il vero sapore del vangelo con gesti e parole vere e coerenti, che impegnano personalmente, trasparenze di vita vissuta in prima persona. Si sala quel che si può, si arriva dove si può, non si cercano supplenze indebite se non temporaneamente, ma il “sapore” della vita evangelica è atteso e avvertito istintivamente dalla gente.

Il sale si dà “dolcemente”, ben dosato alle circostanze e sciolto. È un servizio e un dono, non un’imposizione. Il grumo di sale è immangiabile, l’ideologia religiosa o le cose imposte da fuori nella loro abbacinante compattezza e completezza non raggiungono lo scopo di insaporire la vita, ma quella di sovraccaricarla di ulteriori pesi non trasportabili e di irritare le persone che oggi chiedono anche una ragionevole spiegazione delle proposte fatte loro.

Il sale si sparge, “muore” a se stesso sciogliendosi, risorge nella vita “saporita” di senso.

L’altra metafora impiegata da Gesù fa riferimento all’unica lampada che illuminava il monolocale in cui abitavano le famiglie al tempo di Gesù. Essa era posta sul lucerniere, per svolgere al meglio il proprio servizio. In questo secondo detto Gesù aggiunge all’affermazione una richiesta ben chiara ma non di semplice esecuzione. La comunità cristiana, la comunità dei discepoli di Gesù è paragonata a una città che sul crinale del monte (come oggi tanti insediamenti in Israele…), non può nascondersi/venire nascosta. Tale è la vita bella, luminosa, di tante comunità cristiane, che talvolta arrivano a essere impreziosite dal martirio dei loro membri.

L’opera della comunità cristiana è partecipazione immeritata e gratuita dell’unica luce del mondo, Gesù. Le “opere buone” fanno luce perché sono esplicitazione concreta delle parole e delle richieste di Gesù. Esse tendono sempre alla vita, alla luce, al senso, alla verità, all’amore, e non certo alle tenebre e all’inganno.

L’affermazione di Gesù sulla sua comunità è gratificante e lusinghiera, ma la sua richiesta abbisogna di una sottile interpretazione spirituale e di santità di vita. Le cose buone e belle compiute dalla comunità cristiana nel mondo intero sono sotto gli occhi di tutti e quasi sempre sono lodate e spesso sostenute. Gesù richiede però una forte trasparenza spirituale, l’eliminazione progressivamente totale di ogni autoreferenzialità.

Splende nel volto di tanti cristiani quella luce divina che ti fa intravedere il mondo di Dio. Medici, suore, sacerdoti, mamme, adulti e bambini che fanno trasparire il fatto che ciò che fanno è compiuto in Dio, per Dio, per amore di Dio presente nel fratello, per grazia di Dio. Tanti occhi di monaci, di volontari alle mense dei poveri e al letto degli ammalati, di vigili del fuoco e di soccorritori alpini, di infermieri, (anche quelli di papa Francesco e di tanti vescovi), fanno trasparire la sorgente «divina» di tanto amore donato in quel certo modo.

Umiltà, ritrosia, rispetto, fedeltà, spirito di collaborazione, fanno pensare che in quella persona l’autoreferenzialità sia molto bassa, o sparita del tutto. Il mite profondo sorriso dei monaci martiri di Tibherine, lo sguardo profondo di Charles de Foucauld e di santa Teresa del Bambin Gesù, il volto rugoso ma sereno di santa Madre Teresa di Calcutta, la gioia “divina” di una mamma che rinuncia alle cure chemioterapiche per poter far nascere il proprio figlio… Madri che si occupano da anni in casa dei loro figli con disturbi mentali, la suora immobilizzata a letto per decenni che offre la vita per l’unità dei cristiani, l’uomo impegnato nel campo della vita pubblica con onestà, dedizione, disinteresse personale…

È una città che splende sul monte della Gerusalemme di oggi. Luce nel mondo, sul monte, luce che rimanda a Dio e dà gloria solo a lui. Una città di persone silenziose ma operose di “opere buone” fatte in Dio, a gloria di Dio, da figli di Dio. Una città di luce “saporosa” che non può rimanere nascosta, ma che esiste solo per essere gustata da tutti.

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