V di Pasqua: Vitigno DOC

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Nella seconda scena degli Atti degli Apostoli (8,4–12,25) si descrive il cammino della Parola da Gerusalemme ad Antiochia, con un’apertura di prospettiva. Dopo aver narrato l’opera evangelizzatrice di Filippo in Samaria e il battesimo impartito all’eunuco d’Etiopia (8,4-40), Luca, che procede nel suo racconto storiografico per scene eclatanti, simboliche e drammatiche, narra della conversione-chiamata di Saulo a Damasco (9,1-31), con i suoi primi passi in città e a Gerusalemme.

La prima delle tre narrazioni dell’evento di Damasco (At 9,1-19; 22,3-16; 26,9-18) illustra la conversione/chiamata di Saulo con il taglio che descrive la sua persona che da persecutore diventa perseguitato. Nella prima scena (9,1-9) il persecutore viene atterrato; nella seconda (9,10-19a) c’è l’incontro che guarisce tra Anania e Saulo; nella terza (9,19b-25) vengono illustrati l’evangelizzazione e il complotto a Damasco; nella quarta (9,26-30) l’ingresso di Saulo nella comunità e le minacce a Gerusalemme; l’epilogo (9,31) si incentra sulla crescita della Chiesa.

Il persecutore perseguitato

Dopo la sua conversione/chiamata Paolo trascorre svariati giorni con i discepoli del luogo. In tal modo ha la possibilità di arricchire la sua conoscenza della figura e della predicazione di Gesù, che testimonierà immediatamente (eutheōs v. 20; lo zelo impaziente è il suo stile…) essere il Figlio di Dio.

In lui tutto si capovolge, si resetta, si ricentra, si approfondisce. Da persecutore diventa perseguitato, il negatore di Gesù diventa il proclamatore del Messia; le sinagoghe di Damasco nelle quali doveva arrestare i discepoli di Gesù/della Via diventano il primo luogo della sua predicazione; il preannunciato carnefice ora «è con loro» (vv. 9,25); colui che marciava deciso verso Damasco ora deve scappare rocambolescamente calato di notte in una cesta dalle mura della città.

L’evento biografico della fuga rocambolesca è narrato anche in 2Cor 11,32-33, che lo inquadra cronologicamente nel regno di Artea IV e lo situa quindi come accaduto prima del 39 d.C. Un punto importante per la cronologia paolina.

Saulo è decostruito come nemico e costruito come testimone perseguitato. Lo Spirito Santo ricevuto (9,17) non ha tanto per Luca lo scopo di donargli la fede, quanto quello di abilitarlo alla testimonianza.

Tra la fuga da Damasco e la salita a Gerusalemme si può benissimo inserire la predicazione in Arabia (Gal 1,17), provincia romana non totalmente desertica, ma punteggiata di fiorenti città. Saulo non pare recarsi là per ricostruirsi un animo scombussolato o a “fare gli esercizi spirituali”. Con tutta probabilità predicò con coraggio anche nelle città del deserto.

Luca è molto attento a collegare la figura di Paolo ai Dodici di Gerusalemme, che per lui sono gli unici “apostoli”. Il collegamento di continuità con la comunità di Gerusalemme è mediato dall’azione di Barnaba, una mediazione decisiva per Luca.

Nella sua ricostruzione autobiografica, Paolo è invece interessato a sottolineare nelle sue lettere autoriali la provenienza apocalittica – dal cielo – dell’evangelo da lui annunciato (e non umana, dagli uomini, cf. Gal 1,1ss), la sua costituzione quale “apostolo” per il fatto di aver «visto il Signore» come gli altri.

Con sottolineature diverse tra il racconto di Luca in Atti e quello riportato nelle lettere autoriali di Paolo, un nucleo storico è ricavabile, rapportato e “aggiustato” al disegno storiografico-teologico-retorico che è diverso tra Luca e Paolo.

Ha visto il Signore

Paolo avrà sempre difficoltà a dimostrare la sua costituzione di “apostolo” del Signore, non ottemperando ai criteri ricordati da Luca per queste figure in occasione della sostituzione di Giuda Iscariota con Mattia.

Pietro ricorda: «Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». In ogni caso, la venuta di Paolo nella comunità di Gerusalemme è descritta con gli stessi elementi della sua entrata nella comunità di Damasco: sorpresa/predicazione di Saulo/pericolo/salvataggio.

Giunto a Gerusalemme, Saulo cerca di “incollarsi/kollaomai” al gruppo dei discepoli, ma essi hanno timore di lui, non credendo e non fidandosi della sua chiamata/conversione da feroce persecutore a testimone perseguitato. La comunità dei discepoli fa fatica a credere, a stare al passo con le sorprese di Cristo risorto…

Colui che doveva condurre in catene a Gerusalemme i discepoli della Via viene ora condotto da Anania al cospetto degli apostoli. Barnaba, “figlio della consolazione”, generoso levita cipriota (At 4,36-37), si fa carico con benevolenza e coraggio spirituale della figura contrastata del nuovo discepolo e lo accredita presso la Chiesa apostolica, la Chiesa madre di Gerusalemme.

L’opera del Cristo risorto ha sempre bisogno di mediazioni di uomini “spirituali” aperti, coraggiosi e pronti al confronto franco anche con le autorità religiose della propria comunità. Barnaba “spiega” l’evento di Damasco come una visione del Signore da parte di Saulo (“ha visto il Signore [risorto]/eiden ton kyrion) e come una parola prolungata e rivelatoria del Risorto (elalēsenautōi) rivolta al feroce persecutore «caduto a terra» (cf. At 9,4).

Barnaba ricorda immediatamente e solo come caratteristica propria del nuovo discepolo di Gesù risorto la sua “predicazione coraggiosa, libera, sicura e franca fatta situandosi nel luogo accogliente della persona/nome del Signore/ eparrēsiazeto en tōi onomatitou kyriou” a Damasco.

Parola coraggiosa

Grazie alla mediazione ecclesiale di Barnaba, Saulo si associa alla predicazione degli apostoli, «condividendo la loro attività, senza confondersi con loro, ma associandosi alla loro predicazione» (Marguerat). Predica con coraggio e serenità interiore anche a Gerusalemme.

L’audacia e la libertà di parola sono “il segno distintivo” di coloro che portano il vangelo negli Atti: essa caratterizza gli apostoli (2,29; 4,13.29.31), Barnaba (13,46; 14,3), Apollo (18,26) e Paolo (13,46; 14,3, 19,8; 26,26; 28,31).

Viene qui raccordato il nodo fra i predicatori del mondo giudaico e colui che sarà protagonista dell’apertura missionaria tenace e coraggiosa al mondo greco. Saulo parla e discute (probabilmente anche con toni accesi) con i giudei grecofoni di Gerusalemme (Hellenistas), come aveva fatto in precedenza anche Stefano (At 6,9-10).

In stand by

“I fratelli” di Saulo, discepoli del Risorto della comunità di Gerusalemme, si accorgono delle trame omicide dei giudei e fanno fuggire Saulo facendolo scendere a Cesarea Marittima e imbarcandolo su una nave diretta al suo paese natale, Tarso, in Cilicia, nella provincia romana di Asia.

A volte, per un bene maggiore, occorre ritirarsi in buon ordine in attesa di tempi migliori. Un discernimento difficile da fare, ma previsto anche da Gesù (cf. Mt 10,23: «Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo»).

Saulo viene messo in stand by, al riparo protetto della sua città e dei suoi parenti. La cosa si prolungherà probabilmente per una decina d’anni.

È un merito immenso che la Chiesa tutta deve a Barnaba – ancora una volta! – di essere andato a Tarso e aver “ripescato” Paolo (At 11,25) all’attività missionaria e di averlo riportato al centro pulsante dell’annuncio evangelico al mondo delle genti (il “carisma” proprio di Paolo!): la comunità aperta e coraggiosa di Antiochia di Siria, dove Saulo e Barnaba predicarono insieme per un anno intero (At 11,26). Ad Antiochia di Siria per la prima volta i discepoli della Via/di Gesù furono chiamati (dagli esterni al gruppo, e forse con una connotazione negativa di “agitatori”, «Cristiani/Christianous» (ivi).

Pace e crescita

Conclusa in modo inaspettato e “sconvolgente” l’opera persecutoria di Saulo (8,1-4b) grazie all’incontro di Gesù risorto che “ribalta” Saulo da persecutore a testimone perseguitato – messo in regime protetto in attesa di tempi migliori per lui –, Luca annota che la Chiesa nel suo insieme godeva di un regione di pace, tranquillità, godimento dei beni messianici promessi da Gesù risorto.

Essa veniva dinamicamente e progressivamente edificata dalla predicazione dei discepoli di Gesù (i Dodici, Stefano, Pietro, Giovanni, Filippo, Saulo), ma soprattutto dall’impulso testimoniale e kerygmatico infuso dallo Spirito nei testimoni.

Giudea, Galilea e Samaria sono nella pace, sono edificate nel godimento dello shalom del loro Kyrios e camminano nell’ossequio religioso verso il loro Signore risorto ed esaltato alla destra del Padre e fonte dell’effusione dello Spirito da presso di lui (cf. At 2,33).

Alla ripartizione geografica presente nel comando missionario di Gesù risorto mancano “i confini della terra” (cf. At 1,8). Anch’essi devono godere della parola missionaria e del conforto dello Spirito Santo in mezzo alle lotte e alle persecuzioni da parte dei giudei e delle genti. Il campione di Cristo, vaso eletto per l’annuncio, “il tredicesimo testimone”, si prepara a scendere in campo per compiere il mandato del suo Signore, che egli ha “visto” a Damasco e che gli ha detto parole di vita.

Vitigno DOC

All’inizio del secondo discorso di addio (Gv 15,1ss), Gesù si serve dell’allegoria della vite per illustrare l’intima unione che unisce lui ai suoi discepoli. La vigna (amatissima e ben curata) non è più simbolo del popolo di Israele (cf. Is 5,1-7) che delude a morte il vignaiolo con la sua sterilità e la sua produzione ingannevole e inutile.

La vite verace, DOC, è ora riassunta dalla persona di Gesù, il frutto più bello di Israele, la gloria del suo popolo (cf. Lc 2,32b). Il suo vitigno è genuino, verace, selezionatissimo. Il Padre “contadino” l’ha scelto di persona come la realtà a lui più cara per piantarla saldamente nella terra di Israele. Come la Sapienza, ha «posto le sue radici in mezzo a un popolo glorioso» (Sir 24,12), perché stendesse i suoi tralci fino al mare.

Come per la sua vite, Israele, anche per il suo vitigno, Gesù, il Padre ha «sradicato una vite dall’Egitto [cf. Mt 2,15; Os 11,1], hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli» (Sal 80,9-10).

Potatura

Le coltivazioni moderne non ricercano tanto la quantità del prodotto, quanto la sua qualità. La produzione va regolamentata, la sovrapproduzione fa scadere la qualità. La potatura va fatta accuratamente, così pure la sfogliatura e il dirado o prima vendemmia a perdere.

La potatura è in parte un “togliere/airei” (v. 2a) tralci secchi e in eccesso e in parte una “riduzione della vegetazione/purificazione/kathairei” (v. 2b) in ordine ad una crescita regolata, fruttifera, di alta qualità.

Alcune operazioni agricole fanno male al cuore del contadino stesso, ma sono compiute in vista di una gradazione maggiore del prodotto finale, che esalti le proprietà del vitigno e ne permetta la penetrazione in mercati ancora non esplorati e l’acquisizione di quote mercato sempre maggiori.

Per una maggior qualità, è necessaria la potatura anche di rami che già portano buon frutto. È una legge ferrea dell’agronomia, ma anche una legge propria della crescita spirituale, non sempre accettata per la sua dolorosità. La parola di rivelazione (lelalēka) di Gesù ha “purificato/katharoi” i Dodici, incidendo a fondo nella loro mentalità ancora appartenente in parte a questo “mondo”, rivelando loro il mondo del Padre, a cui Gesù appartiene. Il mondo di “lassù/anō”, un mondo non di “questa terra”.

Rimanere

Il primo comando di Gesù ai suoi non è quello di portare frutto immediatamente, con un’azione impulsiva o programmata che sia. Il primo passo da compiere è quello di non fare alcun passo, ma di “rimanere/meinate”. L’imperativo aoristo non indica alcuna temporalità (espressa solo dal modo indicativo) ma solo la qualità/aspettotipica del verbo. Includendo forse la qualità della puntualità (mito che stenta a sparire), l’aoristo esprime la qualità/aspetto dell’azione in sé. “Fate l’azione di rimanere in me/meinate”, comanda Gesù, e non fate alcun’altra azione. Compite quell’azione lì, ben precisa, e non altre.

Nessuna autoreferenzialità del tralcio (“da sé/aph’heautou”), anche se ben organizzato e con ampi e precisi programmi pastorali/dottrinali ecc., potrà portare frutto nei cuori delle persone appartenenti alla comunità ecclesiale e in quelle che dovrebbero udire la parola del vangelo per la prima volta.

Così avviene per i discepoli presenti e futuri, “se non rimangono in lui, in Gesù /ean mē en emoi menēte”. La proposizione condizionale impiega il modo congiuntivo presente, che non esprime la temporalità, ma solo la qualità/aspetto tipica del tempo verbale presente, che è quella della continuità, ripetitività. Il discepolo deve “rimanere sempre, di continuo, in permanenza” innestato in Gesù, se vuole portare frutto di vita evangelica, di figliolanza divina, di vita eterna, di vita nuova. Di fatto, l’immanenza reciproca tra Gesù e il discepolo porta con sé anche l’immanenza del Padre e dello Spirito.

A differenza della realtà della vite normale, composta di fusto e di tralci e in cui tralci sono prolungamento del tronco, sua “espressione” fruttifera grazie alla loro inserzione nel fusto, nel caso reale, cioè nel referente extradiegetico – fuori del racconto – non solo i tralci “rimangono”, sono attaccati al fusto, ma la vite – Gesù – a sua volta “rimane” nei tralci. Anzi, Gesù personalizza il suo discorso e si riferisce al singolo discepolo, chiamato a una vita spirituale e teologica di responsabilizzazione personale. “Chi/chiunque rimane in continuità in me/ho menōn en emoi” – participio presente con la qualità/aspetto di continuità/ripetitività – e “io (rimango in continuità) in lui/kagō en autōi”, solo costui potrà portare frutto.

Il frutto: preghiera e discepolato

Gesù ribadisce con forza tranciante le sue affermazioni precedenti – espresse con tono positivo –, prospettando l’infruttuosità totale dovuta alla situazione negativa opposta al “rimanere in lui”. L’esito totalmente mancato è dovuto in questo caso alla “assenza/prescinderedalla sua persona/chōris emou”.

L’assenza di Gesù comporta aridità e infecondità tale da risultare dannosa per la vigna stessa e in quel caso non rimane altro che una potatura decisa, la raccolta dei tralci secchi e la loro combustione (oggi la trinciatura per la produzione di ulteriore concime o altri sottoprodotti).

L’immanenza di Gesù nel discepolo si rivela essere l’assimilazione costante e continua delle sue parole di rivelazione (rēmata<legō = dire; il greco semitizzante può intendere una parola densa di operatività, una “parola/fatto” = ebr. dābār).

Se Gesù e le sue parole possiedono la qualità del “rimanere” (v. 7 meinēi, congiuntivo aoristo) nel discepolo e nel corpo ecclesiale, esse produrranno una consonanza filiale con i desideri del Padre, partecipata da Gesù ai suoi, e quindi le richieste nella preghiera saranno secondo i desideri del Padre, per l’avvento del Regno, per l’unità dei figli di Dio, per la loro santificazione ecc.

Il molto frutto dovuto alla “potatura/purificazione/kathairei (dolorosa) attuata dal Padre di Gesù, il Divin Agricoltore (v. 2), si manifesta nel fatto/risultato/scopo che i discepoli di Gesù acquisiscono la qualità di discepoli (e nessuna altra qualità, congiuntivo aoristo).

A sua volta, tutto questo coincide con la “glorificazione del Padre di Gesù” (leggendo le frasi collegate fra loro come aventi un significato epesegetico: una frase spiega il contenuto della precedente). L’intima essenza interna di Dio Padre, il suo “peso/gloria/kābôd (ebr.)/gr. doxa”, “si manifesta all’esterno/viene glorificata” nel fatto che gli esseri umani diventano discepoli di Gesù nel corpo ecclesiale, diffondendo ulteriormente vita filiale, unità e amore.

Senza Gesù e il suo Spirito, nulla di “divino”, definitivo, “eterno” potrà vedere la luce nel “mondo” chiaroscuro degli uomini. L’immanenza reciproca di Gesù e dei suoi discepoli è la sola forza feconda di frutti che rimangono, perché “veri”.

Gesù non toglie nulla, dà tutto (Benedetto XVI).

Senza Gesù non possiamo fare nulla di “vero”, “duraturo”, “divinamente” umano.

Con Gesù possiamo fare tutto.

Essere figli nel Figlio.

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