V Quaresima: Va’ e non peccare più!

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Il Deutero-Isaia: un enigma risolto?

Negli ultimi dieci anni si è sempre più diffusa fra gli studiosi la convinzione ben motivata che il libro di Isaia non sia più da interpretare come l’insieme di tre blocchi (I, II, III Isaia: 1–39; 40–55; 56–66), ma sia da dividere in due blocchi che si rapporto strettamente a vicenda.

Il biblista italiano A. Mello è fra i primi promotori di questa linea interpretativa. Lo abbiamo già citato varie volte. Dopo il Primo Isaia (“Le cose antiche”: cc. 1-33), egli articola il Secondo Isaia (cc. 35–66) in questo modo: A) Is 34–36 Processo contro Edom; B) Is 36–39 Racconti storici relativi al profeta Isaia dell’VIII secolo; C) Is 40–48 Il Deutero-Isaia (A). La liberazione portata da Ciro rende possibile il ritorno degli esiliati a Gerusalemme; D) Is 49–55 Il Deutero-Isaia (B): spostamento dal profeta a Ciro stesso e poi alla misteriosa figura del Servo sofferente; E) Is 55–66 Il Trito-Isaia è una riflessione, dipendente dal Deutero-Isaia, circa la costruzione di Gerusalemme e l’accoglienza in essa degli stranieri.

L’esegesi deuteroisaiana si è trasformata: da un approccio morfologico che distingue gli oracoli profetici secondo il loro genere letterario (operazione in sé utile e sensata), incappando però in tal modo nella frammentazione del testo profetico, si è passati alla ricerca del recupero della continuità del discorso profetico, al di là della sua catalogazione in generi letterari di diversa provenienza. Si è così più attenti alla progressione interna e agli sviluppi della profezia deuteroisaiana. Is 40–48 e 49–55 «usano due linguaggi diversi per uditori diversi. Ciò non esclude a priori l’unità di autore, ma per lo meno suppone un cambiamento importante della prospettiva. Si può pensare che il profeta, esule a Babilonia, sia stato fra i rimpatriati a Gerusalemme. O, ancora più semplicemente, può darsi che le sue attese iniziali siano andate deluse e che non ci sia stato un raduno in massa degli esiliati, come sembra si possa dedurre proprio da Is 49,1-6, che è il brano che fa da cerniera fra le due sezioni, quello che determina il passaggio dall’una all’altra» (A. Mello).

In Is 40,1–48,22 si celebra l’unico Signore della storia. Dopo un prologo in cielo (40,1-11), si celebra la divina sapienza (40,12-31), si proclama con entusiasmo l’ascesa di Ciro (41,1-20), si illustra un processo (rîb) tra YHWH e il suo popolo meditando fra passato e futuro (41,21-29). A ciò segue le presentazione del servo (42,1-4); si parla poi della luce delle genti (42,5-9), a cui segue una prima dossologia (42,10-12) e un rimprovero circa la cecità di Israele (42,13-20).

Si spiegano quindi le ragioni dell’esilio (42,21-25), si delineano le prospettive del ritorno (43,1-7), con un oracolo di convocazione processuale si chiama il popolo a testimoniare (43,8-13), si descrive il nuovo esodo (43,14-21), si annuncia il perdono (43,22–44,23), si traccia la distinzione fra profezia e astrologia (44,24-28). Ricollegandosi direttamente a Ciro, si afferma il monoteismo esclusivo (45,1-8), denunciando una disputa impossibile fra l’argilla e il vasaio (45,9-13), si lamenta un Dio che si nasconde (45,14-19) e si annuncia la salvezza universale (45,20-25).

Con alcuni oracoli contro le nazioni si preannuncia la caduta di Babilonia (46,1–47,15) e si profetizzano cose nuove (48,1-11), trapassando dalla figura di Ciro a quella del Servo (48,12-16), comandando infine di uscire velocemente da Babilonia (48,17-22).

Il nuovo esodo: acqua di vita

In Is 43,14-21 viene annunciato un nuovo esodo. YHWH farà tornare a casa Israele, il suo servo, che è cieco, ma che egli guarirà trasformando le tenebre in luce (cf. Is 42,18-25).

Sarà un esodo superiore in qualità al primo esodo dalla schiavitù dell’Egitto. Infatti, Israele lo sta vivendo al presente, e non solo ricordandolo con la memoria credente. L’esodo è nuovo, perché l’acqua ha una diversa funzione. Non più una potenza mortifera per il faraone e il suo esercito, all’opera nel primo esodo che fu una “strada nel mare” double face. Per gli egiziani è stata un’onda travolgente che li ha annientati nella potenza bellica dei loro soldati e della loro attrezzatura di guerra di prim’ordine pensata invincibile e li ha resi uno “stoppino spento” perché bagnato a morte. Gli egiziani sono ormai “inservibili”, stoppini spenti, giacciono morti stecchiti a terra, senza potersi rialzare (e men che meno risorgere a potenza spaventosa): eliminati in due parole: “giacciono, non si rialzeranno/yiškebû bal-yāqûmû” (v. 17c).

Nel nuovo esodo la strada non è più nel mare, ma nella steppa asciutta, ben ferma sotto i piedi. YHWH “porrà/farà/aprirà una strada nel deserto/’āśîm bammibār derek”, “fiumi nella steppa/bîšimôn nehārôt” (cf. anche v. 20b). L’acqua non avrà più un sapore di morte, ma di vita: disseterà anche gli animali del deserto – bestie selvatiche, struzzi, sciacalli –, che “onoreranno/tekabbedēnî” YHWH per il suo prodigio creativo dell’acqua abbondante in una terra abitualmente arida e ostile. Un’acqua che irriga, disseta, fa fiorire la vita. L’acqua disseterà soprattutto “il mio popolo, il mio eletto/‘ammî beḥîrî”. Israele, il cieco servo di YHWH reso vedente, è il vero “eletto” permanente, da sempre e per sempre, e non tanto Ciro Quest’ultimo è l’“eletto” di un momento per un provvidenziale compito temporaneo (Is 45,1).

Con l’acqua del deserto il divin vasaio “si è modellato/yāṣartî” un popolo, che non deve aver la pretesa di avanzare lamenti verso chi ha modellato per sé (cf. Is 45,9-13). Il popolo liberato, dissetato, ben modellato come proprietà particolare, eletta, di YHWH, narrerà con la sua vita nuova, esodale, le lodi del Dio della libertà e della vita, che trasforma l’angustia del deserto arido nella pianura vasta del riposo nella propria terra riavuta in dono.

La “cosa nuova”

Fra le due descrizioni dell’antico e del nuovo esodo, erompe il comando di YHWH a non rimanere sempre con il capo voltato all’indietro. A livello superficiale, si potrebbe dire che YHWH comandi la violazione del comando principale imposto a Israele: «Ricorda/Non dimenticare» il Signore, l’alleanza, l’uscita dall’Egitto… (cf. anche solo Dt 4,9.23; 5,15; 6,12-14; 8,2.11; 9,7; 16,3; 24,18). Sembra direttamente opposto al comando di Dt 4,32; 32,7: «Ricorda i giorni del tempo antico».

“Dimenticare” è il peccato originale di Israele, “popolo del ricordo”, oltre che “popolo del commento”. Ricordare non vuole però dire fissarsi solo nel passato, idolatrandolo o pensando che possa essere l’unica e ultima manifestazione dell’opera salvifica di YHWH. Nostalgia sterile e venata di tristezza, scettica di fronte a possibili novità, anche insperate.

Non ricordate più “le cose dell’inizio/passate/rē’šōnôt”, non esaurite la vostra intelligenza/bināh nel voler comprendere e “fissare e trattenere nella comprensione e nella memoria” le “cose antiche/qadmōniyyôt”. In questo momento – dice YHWH –, ecco, sto facendo una cosa nuova/hinenî ‘ōśeh ḥădāšāh”.

Il quadro ermeneutico fondamentale della sapienza religiosa che regge la vita di Israele sarà sempre quello dell’esodo: la triade esodica uscita-cammino-entrata /yāṣā’-hālāk-yābô’ sarà il reticolo interpretativo entro cui la Scrittura iscriverà la maggior parte dei suo annunci di salvezza, articolandoli in modalità sempre cangianti. Sempre cangianti, appunto (cf. il bel libro di L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo).

L’esodo dall’Egitto, pur evento fontale e “battesimale” per Israele, impallidirà di fronte alla nuova opera che YHWH sta facendo. Ne è convinto anche il profeta Geremia, che ripete quasi alla lettera questa convinzione (cf. Ger 16,14-15; 23,7-8). Il raduno dei dispersi, il ritorno a Sion, l’entrata in Israele sarà un esodo straordinario, prodigioso, una vera e prioria redenzione finale. La struttura esodica è la medesima, ma la qualità del contenuto cambierà.

Il contenuto qualitativo del secondo esodo sarà più profondo del primo, preannunciando il terzo esodo, quello compiuto da Gesù. Quello che avverrà, col dono dell’alleanza “nuova” rinnovata, col dono dello Spirito nel cuore (cf. Ger 31,31ss ed Ez 1,19; 18,31; 36,26) sarà una realtà qualitativamente nuova, perché interiorizzerà nell’Israele postesilico la Torah fino a quel momento esterna ad esso.

YHWH opera novità meravigliose, “nuove”. Stanno germogliando ora nel rifiorire del popolo che torna a casa, nello sbocciare del Germoglio di Davide, nell’aprirsi a corolla del popolo dei redenti, il quale batte il passo della vita nuova che si apre la strada proprio nelle steppe della Mesopotamia.

La “cosa nuova” di Gesù

Il brano di Gv 7,53–8,11 ha vagabondato per secoli fra i testi della tradizione evangelica, finendo per trovare casa in questo strapuntino giovanneo dopo, forse, essere stato di casa nel Vangelo di Luca. Troppo forte dev’essere stata sentita la provocazione che proveniva da questo testo (ed era stato Gesù in persona a compiere il gesto che poi venne at-testato!). Troppo forte e ingestibile nella configurazione sacramentale che la Chiesa aveva cominciato a darsi per vivere il comando del Signore di perdonare agli uomini i propri peccati (dopo adeguata penitenza, ben s’intende, pretendeva la Chiesa, seguendo altre parole del suo Signore…).

Eppure, la memoria di quel gesto stava lì, at-testata, impietrita, tetragona a ogni possibile raschiatura dai testi sacri. Presente nel Vangelo di Giovanni testimoniato dal Codice Bezae Cantabrigensis (sigla: D) del V secolo, da lì splende nella sua imponente bellezza e problematicità, profezia di una “cosa nuova” da interpretare al meglio alla luce di tutta la Scrittura e dell’insieme delle verità teologiche tenute dalla Chiesa. Un brano biblico non può infatti affermare una verità contraria ad altre presenti nella stessa Scrittura.

Dopo essersi recato sul monte degli Ulivi, al mattino Gesù ritorna nell’ampia “zona templare/hyeron” dove si può colloquiare, discutere, imparare dai maestri di Israele, preparare le proprie offerte sacrificali, disporsi a partecipare alla preghiera pubblica. Giunto nella spianata templare, Gesù è subito circondato da “tutto il popolo (teologico di Israele)/pas ho laos”. Gesù si siede in posizione magisteriale e si mette a insegnare a lungo (edidasken) al popolo in ascolto.

La donna adultera

Alcuni esperti delle sacre Scritture e del diritto vigente in Israele – “scribi/grammateis”, esperti a disposizione sia dei farisei – la maggior parte di essi – che dei sadducei, portano a Gesù, insieme ad alcuni farisei, una donna sorpresa in (flagrante) “adulterio/moicheia”. Viene portata solo la donna, anello debole di una catenina che normalmente si realizza in due. L’uomo complice del delitto è assente dalla scena (probabilmente fuggito o lasciato fuggire) e per lui non si chiede un parere per un eventuale giudizio e condanna in contumacia. Travolto da una “tempesta passionale” o da altro, è riuscito comunque a farla franca, come spesso succede anche oggi.

Scrivi e farisei espongono pubblicamente l’imputata al ludibrio degli astanti, cioè di “tutto il popolo (teologico di Israele)”. Nessuna protezione della dignità dell’imputata, nessuna audizione protetta o altro artifizio giuridico permesso. Solo la presunta rea, strapazzata e stordita nell’animo, nel corpo e nel vestito.

In fondo, siamo solo di fronte a un “caso” giuridico. La persona è un’appendice secondaria.

Non si sa se la donna fosse sposata o lo fosse l’uomo con cui si era unita in quel fatidico frangente. In ogni caso è una “donna” – spregiativamente presentata dai “giudici” come “questa donna” – sorpresa “in flagrante adulterio/kateilēptai en autophōrōi moicheuomenē)”. Un caso ben chiaro nella sua fattispecie giuridica.

Gli accusatori presentano la donna a Gesù pronunciando la sentenza già elaborata in precedenza (sarà stata fatta un’indagine equilibrata e completa? C’è stata violenza nei confronti della donna o il reato è stato compiuto in modo consensuale?). Scribi e farisei anticipano già a Gesù il fondamento biblico-giuridico della loro sentenza. Appellandosi alla sua dignità di “maestro/didaskale” – acquisita “sul campo” e non dopo un corso di studi apposito concluso positivamente con l’esame finale –, ricordano a Gesù che «nella Legge a noi Mosè “ha comandato/eneteilato” le (donne) di “tale qualità/tas toiautas” di lapidare». «Tu, dunque, che cosa dici?», gli chiedono infine.

Un caso giuridico chiarissimo, in fin dei conti molto semplice. Si tratta solo di applicare la pena prevista dalla norma per un reato come questo. Gli accusatori ricordano subito che la loro giurisprudenza è ispirata direttamente dalla Torah/Istruzione(Legge). Essa è stata data a noi, dicono. Includono anche Gesù, o lo giudicano già estraneo alla cerchia dei devoti recettori e osservanti della Torah?

Città e campagna

Nella loro sentenza già pronunciata, gli scribi e i farisei si rifanno con tutta probabilità alla norma contenuta in Lv 20,10: «Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte». Praticamente identica è la formulazione di Dt 22,22, tranne l’esplicitazione della finalità per cui viene inflitta la pena capitale: «Quando un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che è giaciuto con la donna e la donna. Così estirperai il male da Israele».

La pericope che segue immediatamente (Dt 22,23-27) contiene la descrizione della fattispecie giuridica che contempla il caso di una fanciulla vergine fidanzata a un uomo che però commette adulterio con un altro uomo. Si sa che in Israele la sua condizione giuridica è equiparabile a quella della donna sposata, con tutti i diritti e i doveri connessi, tranne quello della coabitazione.

In Dt 22,23-24 si prevede il caso in cui i due compiono il reato “in città/bā‘îr”. Si prevede la lapidazione (ûseqaltem; LXX gr. lithazein) di entrambi alle porte della città. La donna perché non ha gridato – si presume che in città i vicini l’avrebbero certamente udita –, mostrando in tal modo il suo essere consenziente a commettere il reato. L’uomo invece verrà lapidato perché ha disonorato la donna del suo prossimo (che equivale a essere sua moglie), che cioè appartiene al suo prossimo come bene proprio inalienabile.

La finalità della pena capitale tramite lapidazione è quella di “separare/allontanare/abbattere/distruggere/spazzare/estirpare/ûbi‘artā” (LXX exareis) il male in mezzo a te (“popolo di Israele” (v. 24e). Nella filosofia e teologia del diritto che ispira questa norma giuridica la persona è identificata completamente col male commesso e l’unico modo per preservare la santità del popolo di Israele è eliminare fisicamente chi compie il reato che contamina il popolo e la terra.

Nell’Antico Testamento vige infatti la concezione secondo la quale si va da YHWH per separazione del bene dal male, e cioè per la rigida separazione dei buoni dai cattivi.

In Dt 22,25-27 si prevede invece il caso in cui il reato avviene “nei campi/baśśādeh”. In questo caso la donna non subirà alcuna punizione di sorta, dal momento che anche se avesse gridato per la violenza che stava subendo, nessuno l’avrebbe potuta udire e aiutare. L’uomo invece sarà messo a morte per il reato commesso, aggravato dalla violenza inferta alla vittima.

Gli scribi e i farisei di Gesù portano la donna sorpresa in adulterio sulla spianata del tempio. È molto probabile che il reato sia stato commesso dalla donna e dall’uomo mentre erano in città. In ogni caso, essi non hanno alcun dubbio nel rifarsi a Dt 22,24 e prevedere per la donna la pena capitale tramite lapidazione.

Torah o cosa altro?

I “maestri diplomati avversari” di Gesù chiedono il parere del “collega di chiara fama”, ma senza una formazione accademica. La domanda è subdola e perfida. Lo interrogano per “metterlo alla prova/peirazontes”. Se non si vuol calcare la mano, si deve intendere qui che gli chiedono un parere accademico nell’ambito di una discussione d’alto livello fra rispettabili maestri di Israele.

Può essere un innocuo “testare” l’interlocutore per far emergere il pensiero del collega, ma anche un “tentare al male”, inducendo l’interlocutore a esprimere un parere contrario alla lettera della Torah, diventando in tal modo passibile di colpa grave di cui “essere accusato/katahēgorein” nel sinedrio.

Scribi e farisei conoscono la prassi di bontà e di misericordia attuata da Gesù nei confronti di poveri e di peccatori, il suo vivere ai margini della legalità giuridica e religiosa, pur senza gesti eclatanti di violazione della Torah. Un borderline. Ci sono stati certo alcuni miracoli non strettamente necessari per salvaguardare la vita compiuti di sabato, ma nulla di veramente serio… Alcune volte il collega si è perfino permesso di perdonare personalmente i peccati, cosa riservata a YHWH. Posizione questa più grave, ma catalogabile come exploit di megalomani e di narcisismo del soggetto, per il resto tutto sommato innocuo.

Se Gesù condividerà la loro impostazione giuridica rigida e consentirà alla morte della donna per lapidazione, si mostrerà rigoroso, rigidamente osservante della Torah, contraddicendo la sua prassi di misericordia e di perdono seguita fin ad allora.

Se, al contrario, non condividerà la linea giuridica seguita dagli scribi e dai farisei, contraddirà la Torah data da YHWH per mezzo del suo profeta Mosè. La via è stretta, e non ci sono vie di fuga.

Gesù prende tempo, scrivendo per terra. Forse sta scrivendo proprio i loro nomi, che scompariranno come la polvere della terra insieme ai loro peccati (Ger 17,13: «O speranza d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva»). Forse il suo alzare e chinare il capo due volte potrebbe essere un rimando alla Torah data due volte al Sinai, dopo una doppia salita e discesa di Mosè sul monte. A livello narrativo, rappresenta un momento di rallentamento completo, di arresto del ritmo del tempo del racconto teso a suscitare suspense nel lettore, e sottolinea la profondità e la decisività della risposta che Gesù darà alla fine del suo silenzio.

Chi è senza colpa…

Al culmine della suspense creata, Gesù risponde rimandando all’usanza che gli accusatori/testimoni di un reato capitale contro una persona punibile con la lapidazione siano i primi ad assumersi la responsabilità dell’esecuzione della pena. Anche se nei confronti di Stefano si sfociò in linciaggio popolare extragiudiziario, la scena di At 7,57-58 è illuminante anche per il caso della donna adultera di Gv 8,1-11: “i testimoni/hoi martyres” (!) lasciano i loro mantelli ai piedi del giovane Saulo per essere più liberi nei movimenti richiesti dal lancio delle pietre (vv. 58.59: elithoboloun [2x]).

Gesù invita gli accusatori/testimoni a prendersi la loro responsabilità, previo un serio esame di coscienza sulla propria innocenza rispetto ai loro peccati/reati della stessa gravità dell’adulterio, ma rimasti nascosti perché “nessuno ha visto e non ha sentito niente”. Chi fra di loro si considera totalmente identificato con l’assenza di peccati, “colui che di voi è-senza-peccato/ho anamartēmatos hymōn” può procedere alla lapidazione…

Gli accusatori/testimoni abbandonano il campo uno a uno, iniziando dai più anziani. È evidente un rimando al peccato degli anziani susanniti smascherati dal giovane Daniele mentre già si conduceva a morte la bella Susanna accusata da loro di adulterio con un giovane spasimante (cf. Dn 13,45-64, in specie i vv. 56-59).

Gli anziani giudici fornicavano bellamente con le donne di Israele, ma esse tacevano per timore di non essere credute. «Invecchiato nel male!», sbotta Daniele contro uno di loro! (cf. Dn 13,52). Ma una figlia di Giuda ha trovato il coraggio di ribellarsi e non ha potuto sopportare la vostra iniquità, costata poi con orgoglio (v. 57b).

Non si tratta per Gesù di rendere impossibile il pronunciamento di qualsiasi giudizio in tribunale a causa della comune malvagità di tutti, imputati e giudici, di fronte a Dio. Gesù non si pone a livello giuridico, ma meta-giuridico, religioso, teologico. Fa già capolino la sua linea biblico-teologica di ispirazione della sua filosofia e teologia del diritto, che si rifà al pensiero profondo e iniziale del Padre nel dare le sue istruzioni/leggi. Emerge già, inoltre, la sua linea di comprensione misericordiosa del peccatore, compartecipe della comune fragilità umana, da non identificare sadicamente tout court col male commesso ma da “assumere” per andare a YHWH insieme, per comunione e non per separazione.

Questo è per Gesù il modo nuovo di salvaguardare la santità in Israele. «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo», aveva detto YHWH (Lv 19,2). Ciò equivale a dire santità di amore, “alterità” dal mondo per perfezione di amore misericordioso. Gesù lo aveva chiesto ai suoi discepoli nel “Discorso della pianura” (Lc 6,17-49): «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (cf. Lc 6,36). Richiesta parallela alla perfezione di amore – e non tanto di perfezione morale , di amore indiscriminato uguale a quello che il Padre riserva ai cattivi e ai buoni, ai giusti e agli ingiusti: «Voi, dunque, siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).

È l’ultimo esempio dei sei “superamenti/eccessi” – e non antitesi – con i quali Gesù illustra proprio l’“eccesso/traboccare/superamento qualitativo/perisseuein” del compimento della volontà del Padre da parte dei discepoli di Gesù rispetto a quello molto rigoroso e letterale degli scribi. Una splendida sala (Mt 5,43-48) del “Discorso della montagna” (Mt 5,1–7,28), in cui si entra dopo aver superato il bellissimo portale delle Beatitudini (Mt 5,1-1-12).

Salvare, non giudicare

Se ne vanno tutti. «Lo lasciarono solo, e la donna era là nel mezzo». Se lo lasciano solo, significa che è Gesù è l’unico senza peccati…

Restano solo loro due, misera et misericordia (Agostino). Gesù si alza in piedi. La donna imputata è degna di ricevere onore con la posizione eretta, e non seduta magistrale o china, striata di superiorità rispetto alla miseria morale circostante non degna di esser neppure guardata negli occhi…

Nessuna domanda inquisitoria, nessun supplemento d’indagine, nessuna richiesta di spiegazione ulteriore su una ferita che già fa tanto soffrire. La donna ha già sofferto abbastanza, da sola.

Gesù domanda alla donna solo qualcosa riguardante la sorte dei giudici/testimoni e l’eventuale esito negativo di una loro avvenuta sentenza. «Nessuno mi ha condannata», risponde la donna.

Sembra proprio che Gesù sia rimasto totalmente estraneo a ciò che lo circondava, “santo”, cioè totalmente “altro” rispetto a quel mondo giuridico impastato di esteriorità, incoerenza, “fariseismo” se è permesso dire. Sepolcri imbiancati, dissimulati. Ci si contamina solo a passarvi sopra senza saperlo…

«Neppure io ti condanno/Oude egō se katakrinō» dice Gesù. «Non sono venuto nel mondo per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47b) griderà alla fine dei suoi giorni, poco prima di “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1-3).

Gesù non condanna la donna innanzitutto perché non ha tutti gli elementi in mano per farlo, ma soprattutto perché questo non è lo scopo del suo essere venuto nel mondo. La sua finalità è positiva, creativa, generativa di vita. Non è venuto per accecare gli uomini puntando loro in faccia la verità del Padre, parola che, se rimane “lettera”, uccide, anche se è del Nuovo Testamento!

Gesù non agisce da giudice che si limita ad applicare una norma precisa, con l’annessa pena prevista. Men che meno si abbassa a identificare totalmente la persona con il suo sbaglio, il suo peccato, la sua colpa, il suo bersaglio mancato, il suo sentiero interrotto… La persona è sempre superiore agli sbagli commessi e la pena deve colpire e sradicare il male dal mondo, non il peccatore che lo compie.

Al Padre si va insieme, in comunione, e non per separazione fra presunti “puri e giusti” e presunti “peccatori colpevoli”.

Va’ e non peccare più

Negativamente, Gesù non condanna. Positivamente, egli apre alla donna una strada di vita, di cammino responsabile: «Va’ e d’ora in poi non peccare più/poreou, kai apo to noun mēketi hamartane».

Sulla bocca di Gesù il secco imperativo greco – ancorché con una “qualità” di continuità, ripetitività – deve essere stato un sereno yiqtol aramaico: “Andrai/Potrai andare/Dovrai andare”. Gesù prospetta delicatamente alla donna un’azione non compiuta, in-finita, un cammino aperto. Gesù dà fiducia, infonde speranza, prospetta un cammino graduale secondo le proprie forze. Il male del bersaglio mancato per bassezza di tiro e mancanza di forza motrice (= peccato/hamartia) non può avere l’ultima parola. Bisognerà starsene ben lontani, certo, perché non porta da nessuna parte, non dà alcuna gioia duratura e vera, non realizza ma destruttura, non crea comunione ma distrugge relazioni feconde di gioia e di vita.

Sub Verbo

Gesù non compie degli atti giuridici. Non chiede un alleggerimento della pena o una sua commutazione in fustigazione o altro. Non si pone a tale livello. Egli si mette su un piano religioso, teologico, in linea diretta con l’intento originario che abitava nel cuore del Padre quando voleva rapportarsi ai suoi figli dando loro anche delle indicazioni di vita, le “Dieci Parole”.

Gesù persegue una filosofia e una teologia del diritto che lo informi con una prospettiva di rispetto dell’uomo/del reo, della sua non identificazione col male compiuto, del suo recupero sempre possibile e mai dato per perso. Cerca un orientamento pre-giuridico, un “diritto creativo” non immediatamente applicabile in tutti i casi e indiscriminatamente, ma una filosofia e una teologia del diritto ispiratore di bene, di promozione umana, di aperture speranzose in quel che la persona umana può ancora dare ed essere al di là dei propri errori.

Non ci si può limitare a “inchiodare” una persona sul suo passato, ma occorre avere la fantasia e la grandezza di cuore di aprirgli cammini possibili di felicità responsabile nel futuro.

Applicare materialmente una norma a un caso giuridico preciso può essere molto facile, e lo si è fatto per molto tempo, con esiti ben constatabili. Ma la “lettera” uccide, ripeto, anche se è lettera del Nuovo Testamento. È convinzione di san Tommaso d’Aquino.

Avere sulle persone gli occhi e il cuore di Dio Padre e di Gesù, volerle “salvare” pur nell’assunzione di responsabilità, “facendo la verità nella carità”, secondo la legge della gradualità. Tutto questo non è contraddire la Tradizione e provocare la distruzione della Chiesa, come pensano alcuni.

È un abbassarsi per intercettare i battiti del cuore di Gesù chino per terra, “santo”, “altro” dalle nostre ristrettezze mentali morali e giuridiche, per sentirne il moto di vita destinato a tutti: “Va’ e non peccare più. Non mancare più il bersaglio del tuo desiderio, la via giusta della tua felicità”.

Nella sua vita e nelle sue disposizioni sacramentarie, canoniche, liturgiche… la Chiesa deve sempre stare sub Verbo. È la freschezza del Vangelo, la Parola Buona che è Gesù, che deve avere l’ultima parola ed essere la fonte direttamente ispiratrice di ogni altra disposizione ecclesiastica.

È il perdono di Gesù.

Può stupire i rigorosi, scandalizzare i rigidi.

«Ecco, proprio adesso faccio una cosa nuova» (cf. Is 43,19a).

Non ve ne accorgete?

È il Vangelo, bellezza!

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