VI Per annum: Beati voi, poveri

di:
Forti e indeboliti

Il profeta Geremia, gigante bambino della profezia biblica, propone una perla sapienziale che scavalca i tempi e giunge fresca anche nel terzo millennio, intriso di delirio di onnipotenza nella parte “forte” del pianeta, contrapposto al volto dolente degli schiacciati e degli impoveriti che abitano sull’altra parte della sfera, che non hanno neppure la forza fisica per alzare il volto e far sentire la loro voce.

Falsa onnipotenza e debolezza che inclina alla disperazione, poiché inascoltata da secoli e ridotta al silenzio dal filtro micidiale delle cinque grandi agenzie di informazione planetarie (attenuato, ma non eliminato, dalla potenza di internet e dei social ben usati dalle persone immerse nelle realtà più dimenticate del mondo).

Stoltezza e sapienza. I due volti dell’umanità di sempre.

L’alternativa

Due vie si aprono dinanzi all’uomo di ogni tempo e all’umanità intera. L’aveva già prospettato il Deuteronomio, mettendo davanti a Israele un’alternativa ben precisa. Due vie, fra cui scegliere. La via della vita e la via della morte. Stendi la mano dove vuoi, ma valuta bene le conseguenze della tua scelta. È un tema caro delle “omelie” deuteronomistiche (cf. Dt 11,26-29 e Ger 18,7-10; 42,10-22) e dell’esortazione sapienziale presente in vari libri biblici: cf. Dt 30,15-20; Sal 1; Pr 4,18-19; Sir 15,17; 33,14.

Geremia propone una riflessione sapienziale fondata su una forte contrapposizione fra “maledizione” (vv. 5-6) e “ benedizione” (vv. 7-8) che possono toccare l’uomo a seconda delle scelte che farà liberamente.

Geremia parla di un geber, in entrambi i corni della sua alternativa. Esso può significare l’“uomo forte”, il “guerriero”, ma può anche indicare l’“uomo” in genere, l’umanità. Se è questo il caso, ci si può domandare se Geremia si rivolga all’umanità intesa come popolo sic et simpliciter o a una comunità segnata dal patto dell’allenza con il quale YHWH l’ha stretta a sé per una vita piena, nella custodia dell’Alleato per eccellenza. Una scelta non esclude l’altra. Non sempre in esegesi si è chiamati a scegliere, suggerisce il grande esegeta J.-N. Aletti.

“Braccio di carne”. Maledizione sul “self made man”

Geremia parla a nome di YHWH e annuncia una maledizione, senza però arrivare a dire che essa proviene direttamente da lui: “Maledetto l’uomo che…/’ārûr haggeber ‘ăšer…”. Il caso contemplato prevede una maledizione non proveniente direttamente da YHWH (come avverrebbe se ci fosse la specificazione esplicita “da me”). Il porsi nel campo di forze opposto a quello retto dal bene-dire è frutto solamente della scelta libera del geber, un’automaledizione!

L’“uomo/geber” che “confida/bāṭāḥ” in modo continuativo (participio della coniugazione qal) appoggiandosi fiducioso – solamente, è implicito! – sull’“uomo/’ādām” che proviene dalla polvere del suolo (‘ădāmāh) si espone da solo alla male-dizione, al campo di forze governato dal male. La fiducia malriposta nel (solo) uomo fragile e terreno/terroso viene specificata come tipica di colui che “pone (nella) carne il suo braccio/śām bāśār zar’ô”.

Il braccio dell’uomo (specialmente la [mano] destra) è sinonimo della sua forza, della sua potenza operativa ed è riferita tanto all’uomo che a YHWH: cf. Dt 5,15; 9,29; Ger 21,5; Sal 89,2. In 2Cr 32,8 si ricorda la contrapposizione tra il “braccio di carne” e l’aiuto divino: «“Siate forti e coraggiosi! – dice il re Ezechia agli abitanti di Gerusalemme impauriti dalle minacce del re assiro Sennàcherib che, nel 701, assedia Gerusalemme –. Non temete e non abbattetevi davanti al re d’Assiria e davanti a tutta la moltitudine che l’accompagna, perché con noi c’è uno più grande di quello che è con lui. Con lui c’è un braccio di carne, con noi c’è il Signore, nostro Dio, per aiutarci e per combattere le nostre battaglie”. Il popolo rimase rassicurato dalle parole di Ezechia, re di Giuda».

È evidente che non si tratta di demonizzare la sana dose di autostima che ognuno deve avere, pena di incorrere una vita perennemente infelice. Lo spiega subito Geremia nella terza parte del v. 5.

La fiducia malriposta e fuoriposto coltivata dal self made man è messa in parallelo con l’ateismo pratico, l’“allontanare il cuore da YHWH”. Il “cuore/lēb” biblico corrisponde a ciò che noi occidentali moderni denominiamo come la “mente”, nella quale coltiviamo l’intelligenza, la volontà, la capacità decisionale che segue il discernimento compiuto seguendo l’input della coscienza.

Per l’uomo biblico il “cuore/lēb” è l’intelligenza aperta e obbediente alla luce di Dio e non volutamente tetragona nei suoi confronti.

“Allontanare il cuore da YHWH” equivale a confidare solamente nella propria umanità fragile e caduca, non onnipotente, incapace di tener presenti tutte le variabili importanti e decisive per una vita veramente “realizzata” e felice, “buona”.

Mele di Sodoma

Un uomo dal “cuore” lontano di YHWH non vive, sopravvive. Sembra avere un vita normale, ma se lo “apri” e lo guardi dentro, provi una delusione enorme, un inganno. Geremia lo paragona a un ‘a’ar che vive a stento nell’Arabah, un tratto della depressione della Rift Valley o Great Rift Valley o anche Grande fossa tettonica, una vasta formazione geografica e geologica che si estende per circa 3.500 km in direzione nord-sud, dal sud-ovest dell’Asia nell’attuale Siria all’est dell’Africa in Mozambico.

L’Arabah si stende dall’estremità del Mar Morto, posto a 415 m. sotto il livello del mare, fino al Golfo di Aqaba o di Eilat, sul Mar Rosso. È veramente un posto infuocato (ḥārēd) nel deserto, una “terra salata/’ereṣ melēḥāh” inospitale, come dice Geremia, inabitabile (“lō’ tēšēb = non [vi] potrai abitare”. Proprio l’opposto della “terra dove scorre latte e miele” nella quale YHWH ha introdotto Israele perché vi “abitasse/yāšab” (cf. Es 3,8; Lv 20,24; Nm 13,27; Sir 46,8; Ger 11,5; Ez 20,15). Una “terra salata” come quella che si diparte dal Mar Morto o “Mare del sale”, come viene chiamato oggi in ebraico (Yam Hammelaḥ), fino ad arrivare a Eilat sul Mar Rosso.

L’uomo dal cuore lontano da Dio vivrà in luoghi come l’Arabah, sopravvivendo in un’esistenza grama, simile a quella dell’’a’ar. Chi lo traduce con «ginepro» (Lopasso), chi con «tamerisco» (CEI 2008, che però in ebraico è ‘ēšel), chi con «cardo» (Alonso Schökel) .

Circa ‘a’ar, mi è piaciuta molto l’identificazione proposta nel dicembre 2004 a un gruppo di pellegrini a En Ghedi, sulla riva occidentale del Mar Morto, da parte della nostra guida biblica, Gabriella Carfagna. Ci mostrava una “mela di Sodoma”, invitandoci ad aprirla. Mentre ci si aspettava non chissà che cosa, ma almeno un contenuto liquido, più o meno commestibile che fosse, il contenuto si rivelò essere un batuffolo di cotone sfilacciato, immangiabile e totalmente inaspettato, ingannevole.

Ti avvicini a un “uomo dal cuore lontano da YHWH”, lo “apri” per vedere la ricchezza interiore e vi trovi solamente un batuffolo di cotone, insipido, innaturale, “inutile”, ingannevole e contraddittorio con quello che mostrava all’esterno.

Verrà il “bene/ṭôb”, forse la pioggia. Si veda Ger 5,25 ma soprattutto Dt 28,12 che la identifica con la benedizione di YHWH: «Il Signore aprirà per te il suo benefico tesoro (‘et-’ôṣărô haṭṭôb), il cielo, per dare alla tua terra la pioggia (meṭar-’arṣe) a suo tempo e per benedire (ûlebārēk) tutto il lavoro delle tue mani: presterai a molte nazioni, mentre tu non domanderai prestiti»; Sal 85,13. Dalla pioggia proviene la fertilità del suolo e quindi il benessere del paese.

Quando verrà “il bene”, l’’a’ar neppure lo vedrà. Chiuso in se stesso, con tutte le forze tese in moto centripeto a conservare il minimo vitale che scorre nelle vene, per non disperderlo nella terribile evaporazione della vita quotidiana, l’’a’ar non riuscirà nemmeno a individuare la pioggia, a riconoscerla, a percepirla come “il bene”, a gustarla, ad assimilarla per crescere e non rimanere perennemente in una vita asfittica e condannata a un livello minimale di pura sopravvivenza.

Chi vedrà l’uomo “dal cuore lontano da YHWH” penserà di poter ricevere vita, protezione, frutto, gocce di umidità nutrienti, ombra.

Sarà deluso come uno che apre una “mela di Sodoma”.

La apri e dentro non c’è niente. Fili di cotone immangiabili, che fanno quasi schifo.

E ti fanno venir ancora più sete di quella che già ti attanaglia la gola.

Albero con radici in acqua

All’opposto dell’“uomo dal cuore lontano da YHWH”, l’uomo che si automaledice e si autocondanna a una vita asfittica e risicata, a nome di YHWH Geremia rivela che è “bene-detto l’uomo/bārûk haggeber” che (si) è situato nel campo di forze dominato dal bene e dalla vita di YHWH.

Con immagini pregnanti, immediatamente comprensibili, “assaporabili”, “bevibili” – specie per chi vive o conosce la vita del deserto infuocato dell’Arabah – e che illustrano vividamente la bene-dizione di cui sta parlando (e anche le beatitudini lucane del Vangelo), Geremia paragona l’uomo “che confida in YHWH/yibṭaḥ baYHWH”, colui “la cui sicurezza sarà YHWH/wehāyāh YHWH mibṭaḥô” e non nell’uomo fragile e terroso, a un albero trapiantato presso l’acqua, presso un “canale/yûbal” verso cui stende le radici.

Yûbal/corrente, corso d’acqua” ricorre solo qui in tutta la Bibbia (in Gen 4,21 è il figlio del terribile Lamek e della sua prima moglie, Ada: egli fu il padre di tuti i suonatori di cetra e di flauto).

L’immagine dell’albero con le radici che affondano in “corsi d’acqua/palgê mayim”, in questo caso, apre l’intero Salterio (Sal 1,3). Essa simboleggia il corno dell’alternativa che viene proposto quale vera vita spirituale di chi vuol essere felice con YHWH grazie alla preghiera, all’invocazione, al riconoscimento onesto delle proprie colpe, alla lode per la sua grandezza, al ringraziamento per i suoi doni.

L’albero che vuole crescere nella vita potrà (e dovrà) attingere alle fresche acque dei 150 salmi del Salterio…

Rami verdi e frutti buoni

Chi attinge con continuità all’acqua della vita non avrà da temere né il caldo terribile e soffocante della vita spesso impossibile con gli altri esseri umani e il male del mondo, con la siccità di periodi bui della depressione, della mancanza di lavoro o di salute, della pace e della prospettiva di bene.

L’“uomo-mela di Sodoma/’ar’ar” “non vedrà/lō’ yireh” il bene quando verrà.

Chi confida in YHWH, invece, “non dovrà temere/non temerà/lō’ yirā’ quando arriverà il caldo (da vocalizzare così il “katub/scritto” TM yir’e, senza necessariamente correggere in “yireh/vedrà” come “comanda di leggere/qere” la correzione della Masora, seguita dalle traduzioni della LXX e del Targum).

I rami pieni di vita di colui che attinge da YHWH, acqua della Vita che sgorga dal lato destro del tempio (cf. Ez 47,1) e dal fianco trafitto di Gesù in croce (Gv 7,37-39; 19,33-34), saranno sempre “verdi/ra’ănan” e non smetteranno mai di produrre frutti (buoni stavolta, senza inganni e senza data di scadenza).

L’uomo che confida in YHWH partecipa della sua vita, anche nelle condizioni più estreme di pressione che la vita gli può presentare, fino a togliergli il fiato dall’arsura.

Vivrà, e darà vita, bellezza verde su sfondo marron scuro del deserto, frescura che allarga i polmoni nell’asfissia della vita senza Dio.

Secondo un antico detto, il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, mentre l’Antico è svelato nel Nuovo: «Novum in Vetere latet et in Novo Vetus patet» [Sant’Agostino, Quaestiones in Heptateucum, 2, 73: PL 34, 623; cf. Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 16] ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 129.

Il brano delle Beatitudini riportato nel Vangelo di Luca ne è un esempio lampante.

Le Beatitudini “pianeggianti”

Dopo aver pregato una notte intera sul monte e aver scelto i Dodici (Lc 6,12-16), Gesù scende e si ferma in un luogo pianeggiante (epi topou pedinou) (Lc 6,17a). Qui egli rivolge alla gran folla dei suoi discepoli e alla grande moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie. Gesù guarisce anche i tormentati dagli spiriti impuri e una forza che usciva da lui guariva tutti, annota Luca (cf. Lc 6,17b-19).

Gesù, però, vuol guarire in profondità tutti gli uomini, di tutti i tempi, non solo quei pochi che erano presenti, modesti anticipi della gloria del Regno. Egli intende guarire gli uomini con la Parola di Dio, con la parola che descrive lo statuto dei credenti in lui. Essi potranno viverla con la potenza dello Spirito che effonderà su di loro (cf. At 2,1ss, la Pentecoste, primavera della Chiesa che apre la seconda parte dell’opera lucana Lc-At).

Ad essi rivolge ora il destabilizzante “Discorso della pianura” (Lc 6,20-49).

Trasfigurare il mondo

Anche l’evangelista Luca colloca le Beatitudini come grande portale del suo “Discorso della pianura” (“Discorso inaugurale”, BJ). Come nel Vangelo di Luca, anche in quello di Matteo le folle circondano come un secondo anello Gesù, che però parla innanzitutto ai discepoli che si avvicinano a lui, il primo anello (cf. Mt 5,1). Matteo noterà, però, che, alla fine di tutti questi discorsi, le folle furono stupite (cf. Mt 7,28). Se il Discorso della montagna di Matteo (Mt 5,1–7,27) è rivolto innanzitutto ai discepoli, esso deve raggiungere però tendenzialmente tutte le genti del mondo, per rinnovare la faccia della terra con lo spirito delle beatitudini.

La Lumen gentium vede questo come lo splendido compito precipuo dei religiosi: «Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i membri dell’ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose del secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia, per la loro speciale vocazione, sono destinati principalmente e propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini» (religiosi suo statu praeclarum et eximium testimonium reddunt, mundum tranfigurari Deoque offerre non posse sine spiritu beatitudinum) (LG 31/363).

Luca riporta quelle che probabilmente sono state le beatitudini e anche i forti “guai” profetici pronunciati da Gesù un forma breve, icastica, concreta. Luca ha organizzato i detti in una struttura compatta, in cui alle quattro menzioni di “beati” si contrappone la dura ammonizione dei quattro “guai a voi” di accorato dolore profetico.

Beati voi…

Matteo menziona nove promesse di bene accompagnate da una motivazione. Hanno tutto un tono generale: Beati coloro che…”.

Rispecchiando probabilmente in modo più fedele il tono del discorso di Gesù, Luca riporta quattro beatitudini accompagnate da una motivazione, rivolte alle persone presenti in quel momento. Esse hanno infatti tutte un tono diretto e concreto: “Beati voi, che…”.

Matteo menziona nove promesse di bene accompagnate da una motivazione assicurate. Hanno tutto un tono generale dal tono generale: «Beati coloro che…».

Rispecchiando probabilmente in modo più fedele il tono del discorso di Gesù, Luca riporta quattro beatitudini assicurate in modo concreto fin d’ora alle persone presenti in quel momento e accompagnate dalla loro relativa assicurazione. Esse hanno tutte un tono diretto e concreto: «Beati voi, che…».

Il Gesù di Luca ha presente situazioni concrete di povertà, di fame, di pianto e di persecuzione provocate e attuate con la forza o con l’insulto, con l’infamia e la calunnia. Il Gesù di Luca è molto concreto e non spiritualizza le situazioni degli astanti. Tuttavia, neanche il Vangelo di Luca “beatifica” le situazioni umane di povertà, di fame, di pianto o di persecuzione.

La beatitudine non si riferisce a una situazione materiale o spirituale in sé. Le persone concrete vengono dichiarate beate perché Gesù è venuto con il suo Regno, con la sua presenza, la sua parola di salvezza, la sua prassi di guarigione fisica e spirituale. Le persone possono godere e rallegrarsi di una gioia spirituale, intima e intensa perché, venendo, Gesù ha scelto la parte dei poveri, dei deboli, degli afflitti e dei peccatori. Si è schierato con loro, ha espresso la sua scelta preferenziale, che metterà in pratica in tutta la sua vita pubblica.

Gesù non dichiara beato il potere, il predominio esercitato con il potere economico, politico, giuridico o sociale. Gesù prende invece su di sé coloro che, nel momento presente, portano il peso soffocante della vita, reso ancor più duro dall’oppressione sadica e insensibile da parte dei potenti.

La gioia è quella del Regno. La gioia della beatitudine viene con Gesù. La gioia viene promessa prima di tutto a coloro che in questo momento non godono già delle sicurezze della vita derivanti dall’abbondanza dei beni materiali e immateriali a disposizioni.

Gesù assicura ai presenti che non godono ancora del bene di una vita materiale e spirituale serena e pacifica la sua presenza solidale e redentrice, in quanto Figlio di Dio. Nessuna spiritualizzazione delle beatitudini in Luca, di modo che divengano dono e compito insieme, dono e atteggiamento spirituale da coltivare, come avviene (legittimamente, secondo il proprio piano teologico-spirituale proprio) nel vangelo pastorale di Matteo. La beatitudine deriva ai poveri di ogni tipo anche dal fatto di essere sulla stessa linea d’onda con i profeti che prima di loro hanno trovato il rigetto e il disprezzo dei loro correligionari.

La “ricompensa/misthos” assicurata ai poveri esprime con linguaggio commerciale e ragionieristico la pienezza della vita di fede e di amore quali discepoli di Gesù che, iniziata nel presente, troverà la sua pienezza in Dio (= cielo). La proposizione manca del verbo essere, e si presenta quindi come una frase nominale che esprime una costatazione della situazione presente di beatitudine e di “ricompensa” che inizia fin d’ora per i poveri.

Guai a voi, che ora…

Veemente esce dalla bocca di Gesù non una maledizione (!), che pur ci si poteva aspettare quale contrappunto alle quattro beatitudini (cf. Sal 1; Ger 17,7), ma un quadruplice “guai/hôy” che pronuncia come un grido accorato, un grido non solo di dolore o di compassione come quello che si udiva nelle elegie funebri innalzate dalle prefiche (cf. 1Re 13,30; Ger 22,18), ma anche accorato dolente, misto di compassione e di minaccia, come quello tipico degli gli oracoli profetici (cf. Ab 2,6.9.15.19; Sof 2,5; Am 6,1; Ger 30,7; 48,1 ; Ez 13,3.18).

Il “guai” accorato e duro allo stesso tempo, compassionevole ma destabilizzante, gridato da Gesù, non tradisce un atteggiamento sadico e punitivo. Ha una tonalità partecipe, esprime il dolore profetico dell’uomo di Dio che intravede una vita rattrappita in se stessa, “castrata” e appiattita sul presente, già sazia e paga dei beni procurati autonomamente sulla terra, ma priva dei beni immateriali che derivano dai rapporti, dalle relazioni, dagli affetti condivisi, dalla compartecipazione alla sorte degli altri uomini.

I ricchi, i sazi e i gaudenti sono paghi della loro situazione attuale, pensano di non dover dipendere da nessuno per la loro vita o di non aver alcunché da compartecipare con altri esseri umani che si trovano in difficoltà e in situazioni ben più misere della loro.

La contrapposizione si basa sul contrasto fra un “ora” e un futuro che ribalterà radicalmente la situazione. È uno schema argomentativo tratto dall’apocalittica, che vede il termine della vita di ogni uomo e del cosmo con un giudizio tremendo che rovescerà le situazioni attuali, per dimostrare chiaramente chi nella vita passata era nel giusto, chi aveva veramente ragione e chi era nel torto, chi aveva davvero vissuto la vita piena proposta da YHWH e chi si era accontentato di quello che vedeva e toccava, accumulandolo senza fine.

Vita da “inguaiato”

Come lo stato di felicità/beatitudine inizia sulla terra e si realizza in pienezza in Dio (= il cielo), così anche il “guai” ha una valenza di presenzialità, è riferito a una vita sciatta, rinsecchita, sazia e disperata, drogata da disvalori stimati come quelli che soli realizzano la vita dell’uomo, facendola emergere “sopra” gli altri, se non “contro” gli altri.

La vita dell’“inguaiato” comincia già fin dal presente ad essere quella di una “mela di Sodoma”: insipida, insignificante, deludente e ingannevole nei confronti di chi le si avvicina attendendo positività, freschezza e grazia.

La sopravvivenza rinsecchita dell’uomo-“mela di Sodoma in terra salmastra”, avrà il suo culmine negativo nella mancanza di frutti, nella delusione progressiva, nella depressione drogata con barbiturici, nel non-senso del perché si debba scegliere una cosa invece di un’altra, dal momento che non esisterebbe niente di assoluto né una scala valoriale che dia senso ad un impegno anche faticoso piuttosto che al disimpegno scafato e all’egoismo strafottente e desolato.

La vita non è la ricerca dell’essere benvoluti e accettati da tutti e a tutti i costi. Significherebbe essere né caldi né freddi, ma tiepidi e vomitevoli (cf. Ap 3,16). Uomini per tutte le stagioni, uomini senza qualità, uno, nessuno, centomila.

L’uomo beato cerca la verità di se stesso, una vita ritenuta come un dono ricevuto di cui rendere partecipe il volto di ogni uomo da custodire come tesoro prezioso. L’uomo evangelico non cerca la popolarità unanimista, il voto bulgaro, la “devozione” delirante dei beneficiati a busta paga.

L’uomo benedetto ha la grazia di accogliere l’invito a stendere le radici verso la vita e a non ritrarle in un’entropia progressiva e asfissiante.

Gesù vuole gli uomini beati fin d’ora, alberi da frutto felici di sé perché hanno qualcosa da dare agli altri e persone da accogliere in gioia di compartecipazione.

Uomo, donna, abbi cura di me.

[…] Il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro 
Basta mettersi al fianco invece di stare al centro
L’amore è l’unica strada, è l’unico motore
È la scintilla divina che custodisci nel cuore
Tu non cercare la felicità semmai proteggila
È solo luce che brilla sull’altra faccia di una lacrima

È una manciata di semi che lasci alle spalle 
Come crisalidi che diventeranno farfalle.

 Ognuno combatte la propria battaglia
Tu arrenditi a tutto, non giudicare chi sbaglia
Perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso
Perché l’impresa più grande è perdonare se stesso
Attraversa il tuo dolore arrivaci fino in fondo
Anche se sarà pesante come sollevare il mondo
E ti accorgerai che il tunnel è soltanto un ponte
E ti basta solo un passo per andare oltre
Ti immagini se cominciassimo a volare
Tra le montagne e il mare
Dimmi dove vorresti andare
Abbracciami se avrai paura di cadere
Che nonostante tutto
Noi siamo ancora insieme
Abbi cura di me qualunque strada sceglierai, amore
Abbi cura di me
Abbi cura di me
Che tutto è così fragile
Adesso apri lentamente gli occhi e stammi vicino
Perché mi trema la voce come se fossi un bambino
Ma fino all’ultimo giorno in cui potrò respirare
Tu stringimi forte e non lasciarmi andare.
Abbi cura di me.

(Simone Cristicchi)

O Dio, Padre mio, abbi cura di me.

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