VI Per annum: Le beatitudini, una lieta notizia

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Chi ha del denaro da investire, non lo affida al primo imbonitore che trova per strada. Si informa, chiede consiglio a qualche esperto in economia, verifica quali sono le azioni in calo e quali in rialzo, quali danno maggior affidamento, quali sono in svendita. Solo alla fine, dopo aver ben ponderato i rischi, sceglie quali comperare.

La nostra vita è un capitale prezioso che Dio ha messo nelle nostre mani e che va fatto rendere. Su quali valori giocarla? Quali sono le azioni che faranno lievitare il capitale? Alcune sono richiestissime e la maggioranza degli uomini punta tutto su di esse: il successo ad ogni costo, la carriera, il denaro, la salute, la gloria, il look, la ricerca del piacere. Sarà una scelta indovinata?

Altre azioni sono invece svalutate: il servizio agli ultimi svolto senza tornaconto, la pazienza, la sopportazione, la rinuncia al superfluo, la generosità verso chi è nel bisogno, la rettitudine morale… Come viene considerato nella nostra cultura chi punta su questi valori: un saggio, un ingenuo, un sognatore, un idealista?

Avessimo molte vite, potremmo tentare di giocarne una su ogni ruota, ma ne abbiamo una sola, irrepetibile: non è permesso sbagliare.

E’ indispensabile e urgente il parere di un intenditore affidabile, ma incombe il pericolo di scegliere il consigliere sbagliato.

Mai come in questo caso si rivela saggio il detto: “Non ti fidare di nessuno, nemmeno degli amici”. Punta sui valori che Dio ti garantisce.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Beato chi pone la sua speranza nel Signore”.

Prima Lettura (Ger 17,5-8)

Così dice il Signore:
5 “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
che pone nella carne il suo sostegno
e il cui cuore si allontana dal Signore.
6 Egli sarà come un tamerisco nella steppa,
quando viene il bene non lo vede;
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
7 Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è sua fiducia.
8 Egli è come un albero piantato lungo l’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi;
nell’anno della siccità non intristisce,
non smette di produrre i suoi frutti”.

La lettura inizia con un’affermazione nitida, ma anche sconcertante: Maledetto l’uomo che confida nell’uomo.

C’è già tanta sfiducia nel mondo, siamo già tanto diffidenti e circospetti! Le dolorose esperienze di tradimenti, infedeltà e intrighi messi in atto a volte da persone insospettabili e da amici ci hanno portato a coniare il detto fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Siamo indotti ad immaginare secondi fini, a supporre inconfessati progetti egoistici anche dietro le proposte più sincere e disinteressate. Geremia c’invita forse ad essere ancora più prudenti, a stare ancor più in guardia?

Non è questo il significato della raccomandazione del profeta. Egli vuole darci un criterio di vita e di sapienza.

Non riponete – dice – la vostra fiducia nei valori che vengono proposti dagli uomini. Chi lo fa è come un tamerisco piantato in luoghi aridi, in una terra di salsedine dove nessun arbusto può svilupparsi e crescere. Il mondo basato su questi pseudo-valori è come un deserto inabitabile, è un luogo dove non si può sviluppare una vita sociale, dove è impossibile vivere.

La seconda parte della lettura (vv.7-8) descrive l’uomo benedetto, quello che punta sulle azioni giuste, quelle garantite da Dio. Costui è come un albero piantato presso le sorgenti d’acqua. Anche nel periodo della siccità mantiene le foglie verdi, produce frutti gustosi.

Chi gioca la sua vita sui valori proposti dagli uomini è maledetto. Non vuol dire che Dio lo castigherà, ma che si è rovinato puntando sui valori sbagliati. Il profeta constata che la vita costruita sulle proposte degli uomini si conclude con un disastro: di tutti i beni ai quali sono stati dedicati tempo, energie, sacrifici non rimarrà nulla. Tutto verrà consumato quando “il fuoco metterà alla prova la qualità dell’opera di ciascuno” (1 Cor 3,13).

Chi fonda la sua vita su Dio invece, chi crede nei valori da lui proposti, anche se agli occhi degli uomini appare come un fallito… è beato! Non si dice che riceverà un premio, ma che ha indovinato la vita.

Il bene fatto, l’amore seminato, la pace che ha costruito rimarranno per sempre. “Il crogiuolo è per l’argento e il forno è per l’oro, ma chi prova i cuori è il Signore” (Prv 17,3) e, alla fine, quello che conta è il suo giudizio.

Seconda Lettura (1 Cor 15,12.15-20)

Fratelli, 12 se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? 15 Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono.
16 Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; 17 ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 18 E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. 19 Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.
20 Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti.

Per i corinti non costituiva un problema la risurrezione di Cristo della quale erano fermamente convinti, ma la risurrezione degli uomini. Su questo punto Paolo vuole che i cristiani abbiano le idee chiare: “Se i morti non risorgono – dice – neanche Cristo è risorto” (v.16). E se Cristo non è risorto le conseguenze sono drammatiche: la fede rimane senza alcun fondamento, coloro che sono morti credendo in Cristo sono persi per sempre, sono scomparsi, è come se non fossero mai esistiti. E i cristiani che ancora sono vivi? Questi meritano solo di essere commiserati perché non si godono nemmeno i piaceri della vita, come fanno invece i pagani. Paolo calca evidentemente un po’ le tinte perché, in realtà, ci sono molti che conducono una vita austera pur non credendo nella risurrezione. Resta il dato di fatto: se Cristo non è risorto, i cristiani sono degli illusi.

Per spiegare meglio il proprio pensiero, l’apostolo ricorre all’immagine delle primizie. I primi frutti non sono qualcosa di diverso dal resto del raccolto, sono soltanto l’inizio. Cristo è come la primizia dei risorti, tutti gli altri uomini che muoiono dopo di lui lo seguono e ne condividono la sorte.

A tutti noi è capitato di trovare persone molto buone, generose, che si comportano in modo esemplare, benché non credano in un’altra vita. Non v’è dubbio che queste saranno accolte nella casa del Padre, anzi, passeranno avanti a tanti che di cristiano hanno solo il nome. Ora, se queste persone stanno già comportandosi tanto bene, perché disturbarle, perché annunciare loro la risurrezione, perché parlare loro di una vita eterna?

Il Vangelo non è un codice di leggi da osservare, come purtroppo qualcuno continua a pensare, ma è un annuncio di gioia per ciò che Dio ha fatto per noi. Non è giusto che qualcuno viva nell’ignoranza della grande notizia che lo riguarda. Gli si deve dire subito: “Dio ha un progetto d’amore su di te, tu godrai della sua salvezza, tu vieni dal nulla, ma non precipiterai di nuovo nel nulla, sei nato da un gesto d’amore e sei destinato all’incontro con l’Amore”. Tutti devono sapere che la vita in questo mondo è una gestazione che ci prepara alla nascita ad una nuova forma di vita. Questa speranza fa valutare tutto ciò che accade in questa vita – le gioie e i dolori, le fortune e le disgrazie – in una prospettiva completamente nuova.

Vangelo (Lc 6,17.20-26)

17 Disceso con i Dodici, Gesù si fermò in un luogo pianeggiante.

C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.
20
Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva:
“Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.
21 Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.
Beati voi che ora piangete, perché riderete.
22 Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. 23 Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti.
24
Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione.
25
Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete.
26
Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti”.

A tutti fanno piacere i complimenti. Sono particolarmente graditi quelli delle persone prestigiose, potenti, illustri.

Anche Gesù rivolge i suoi complimenti (“beato” significa: mi congratulo con te per la scelta che hai fatto).

Li rivolge a quattro categorie di persone e mette in guardia da altrettante scelte opposte, pericolose perché allettanti e apparentemente assai gratificanti.

I rabbini del tempo di Gesù si servivano spesso della forma letteraria delle beatitudini e delle maledizioni.

Per inculcare i valori sui quali vale la pena costruire la vita dicevano: “Beato colui che…”; per mettere in guardia da proposte ingannevoli e illusorie usavano invece l’espressione: “Guai a chi si comporta in questo o in quest’altro modo”. Anche Geremia – lo abbiamo sentito nella prima lettura – usa lo stesso linguaggio sapienziale, parla di beato e di maledetto. Essendo questo il modo di comunicare impiegato dai saggi in Israele, non desta meraviglia che nei Vangeli si trovino alcune decine di beatitudini e anche ripetute minacce. Ricordiamo alcune di queste beatitudini: “Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45); “Beato il ventre che ti ha portato” (Mt 12,49); “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli” (Lc 12,37); “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv 20,29); “Quando dai un banchetto invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato” (Lc 14,13-14); “Beato chi non si scandalizza di me” (Mt 11,6); “Beati i vostri occhi che vedono” (Mt 13,16)…

Bastano queste poche citazioni per evidenziare come, al tempo di Gesù, fosse usuale il ricorso alla beatitudine per veicolare un insegnamento.

Le più note delle beatitudini sono quelle di Matteo (Mt 5,1-12) e quelle di Luca (Lc 6,20-26) che sono proposte nel Vangelo di oggi. Vale la pena rilevare le principali differenze fra questi due elenchi.

In Matteo Gesù proclama le beatitudini seduto in cima ad un monte (Mt 5,1), mentre in Luca le annuncia in una pianura (Lc 6,17) e questo è un dettaglio marginale. Più significativo è il fatto che in Matteo le beatitudini sono otto, mentre in Luca sono solo quattro e sono accompagnate da altrettanti “guai a voi!”.

Matteo “spiritualizza” le beatitudini, parla di “poveri… in spirito”, di gente che “ha fame e sete… di giustizia”. In Luca invece le beatitudini sono fortemente “terrestri”, dice: “Beati voi poveri, voi che ora avete fame, voi che ora piangete” e denuncia come pericolose le situazioni opposte: “Guai a voi ricchi, a voi che ora siete sazi, a voi che ora ridete”. Nulla di “spirituale”. In Luca tutto è molto concreto.

Veniamo ora al brano di oggi. Per comprenderlo è necessario stabilire a chi sono rivolte le beatitudini. “C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente… Alzati gli occhi verso i suoi discepoli diceva: Beati voi poveri…” (vv. 17-20). E’ evidente che i destinatari delle “beatitudini” e dei successivi “guai a voi” non sono le folle, ma soltanto i discepoli e, in prospettiva, la comunità cristiana.

Cominciamo dalla prima beatitudine: Beati voi poveri!.

In che senso Pietro, Andrea, Giovanni e gli altri apostoli vengono considerati poveri? Certo non sono ricchi, ma neppure miserabili, possiedono una casa ed una barca; molta gente sta peggio di loro. Come mai solo loro sono proclamati beati? Cos’hanno fatto di straordinario?

Per capire il significato di questa beatitudine possiamo partire dall’ultimo versetto del Vangelo della scorsa domenica. Al termine della pesca miracolosa, Gesù affida a Simone il compito di sottrarre gli uomini alla morte e portarli alla vita e Luca conclude: “Essi, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11). Un po’ più avanti, nello stesso capitolo, viene narrata un’altra chiamata, quella di Levi e la conclusione è la stessa: “Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (Lc 5,28).

Nel Vangelo di Luca, lasciare tutto viene ripreso, come una specie di ritornello, al termine di ogni chiamata: “Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri” – chiede Gesù al notabile ricco (Lc 18,22).

Questa povertà volontaria non è qualcosa di facoltativo, non è un consiglio riservato ad alcuni che vogliano comportarsi da eroi o essere più bravi degli altri, è ciò che caratterizza il cristiano: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).

Come privarsi di tutti i beni? Bisogna forse gettare fuori della finestra ciò che si ha – col rischio che vada in mano a dei fannulloni – e ridursi in miseria, diventare accattoni? Sarebbe una stoltezza, un’interpretazione dissennata delle parole di Gesù. Egli non ha mai disprezzato la ricchezza, non ha mai invitato a distruggerla. Ne ha denunciato, sì, i rischi e i pericoli: ad essa si può attaccare il cuore e può divenire un ostacolo insuperabile per chi vuole entrare nel regno di Dio (Lc 18,24-25). I beni di questo mondo sono preziosi, indispensabili alla vita, ma vanno mantenuti al loro posto, guai sopravvalutarli o peggio trasformarli in idoli.

Povero in senso evangelico è colui che, illuminato dalla parola di Cristo, dà ai beni il loro giusto valore. Li apprezza, li stima, sa che sono un dono di Dio, ma proprio perché sono un dono non se ne appropria, capisce che non gli appartengono, si rende conto di essere solo un amministratore e li investe in conformità ai progetti del padrone. Tutto ha ricevuto in dono, tutto trasforma in dono.

Povero in senso evangelico è colui che non possiede nulla per sé, che rinuncia a adorare il denaro, rifiuta l’uso egoistico del proprio tempo, delle proprie capacità intellettuali, dell’erudizione, dei diplomi, della posizione sociale… E’ colui che si fa simile al Padre che sta nei cieli il quale, pur possedendo tutto, è infinitamente povero perché non trattiene nulla per sé, è dono totale.

L’ideale del cristiano non è l’indigenza, ma un mondo di poveri evangelici, un mondo in cui nessuno accumula per sé, nessuno sperpera, ognuno mette a disposizione dei fratelli tutto ciò che ha ricevuto da Dio. “Beati voi poveri!” non è un messaggio di rassegnazione, ma di speranza, speranza in un mondo nuovo dove nessuno più sia bisognoso (At 4,34).

La promessa che accompagna questa beatitudine non rimanda ad un futuro lontano, non assicura l’entrata in paradiso dopo la morte, ma annuncia una gioia immediata: “Vostro è il regno di Dio”. Dal momento in cui si sceglie di essere e di rimanere poveri, si entra nel “regno di Dio”, nella condizione nuova.

Coloro che non compiono questo passo decisivo continuano a ragionare secondo la logica terrena, hanno il cuore legato alle ricchezze che possiedono e ripongono in esse le loro speranze di felicità. Non sono liberi… Non sono ancora beati.

Solo i veri discepoli sono beati perché hanno capito che la vita dell’uomo non dipende dai beni che possiede e, non avendo il cuore legato al “denaro”, lo possono aprire anche a quella salvezza che va al di là di questo mondo.

Quali saranno le conseguenze della scelta della povertà evangelica? Che cosa devono aspettarsi i discepoli che rinunciano all’uso egoistico delle ricchezze?

A queste domande Gesù risponde con la seconda beatitudine: Beati voi che ora avete fame (v.21).

Nessuna illusione, nessun raggiro, nessuna promessa di una vita facile, agiata e comoda. La fame reale, non quella spirituale, sarà la conseguenza inevitabile cui andranno incontro coloro che mettono tutto ciò che possiedono a servizio dei fratelli. Proveranno l’indigenza, i disagi, le privazioni; a volte mancheranno anche del necessario, ma saranno beati.

A loro Gesù rivolge i suoi complimenti e assicura: “Il Signore vi sazierà”. Attraverso di voi Dio costruirà il mondo nuovo in cui ogni fame, ogni bisogno verrà soddisfatto; attraverso di voi, Dio preparerà un banchetto per tutti coloro che non dispongono del minimo indispensabile per la sussistenza (Is 25,6-8), attraverso di voi egli “sazierà di pane i suoi poveri” (Sal 132,15), “darà il pane agli affamati” (Sal 146,7).

Anche la terza beatitudine – Beati voi che ora piangete – prende in considerazione uno stato di disagio concreto e penoso (v.21). Chi si è fatto povero prova tristezza e sconforto perché, malgrado tutti i suoi sacrifici e il suo impegno, non vede immediatamente e miracolosamente risolti i problemi dei poveri. Sperimenta la delusione e giunge anche a piangere.

Dio lo consolerà tramutando il suo pianto in gioia. I semi di bene da lui gettati nel dolore cresceranno e daranno frutti copiosi (Sal 126,6). La sua condizione è simile a quella della donna che sta per partorire: “è afflitta, ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21).

L’ultima beatitudine – Beati voi quando sarete perseguitati, insultati, odiati… – è diversa dalle precedenti. E’ più lunga, non descrive la condizione attuale dei discepoli, ma annuncia qualcosa di doloroso che accadrà in futuro, non contiene la promessa di un capovolgimento della situazione, ma invita a rallegrarsi e gioire proprio quando si diverrà oggetto di vessazioni per causa del Figlio dell’uomo (vv.22-23).

Chi rifiuta di adeguarsi ai principi che dominano in questo mondo – quelli dell’egoismo, della competizione, della sopraffazione, della ricerca del proprio interesse – viene combattuto e messo al bando come pericoloso per l’ordine stabilito. Il mondo antico non si rassegna a scomparire, non acconsente di cedere in modo pacifico il passo ad una società fondata sui principi del dono gratuito, della disponibilità al servizio disinteressato, della ricerca dell’ultimo posto. Chi opta per questo mondo nuovo si pone in contrasto con la mentalità condivisa dai più e subito viene isolato e perseguitato. L’approvazione e il consenso degli uomini è un segno negativo. La persecuzione è il destino che da sempre accomuna tutti i giusti: così sono stati trattati i profeti dell’AT.

Il discepolo non è felice “malgrado” la persecuzione, non esulta perché un giorno le sofferenze finiranno e in futuro godrà di un premio in cielo. E’ beato nel momento stesso in cui è perseguitato. La persecuzione infatti è la prova inconfutabile che sta seguendo il Maestro.

I quattro guai non aggiungono nulla a questo messaggio, riaffermano semplicemente, in forma negativa, le beatitudini.

Sono diretti ai discepoli per metterli in guardia dal pericolo sempre incombente anche su di loro di lasciarsi di nuovo adescare dalla “logica di satana”, dai principi di questo mondo.

Chi ricomincia a rendere culto al conto in banca e alla carriera, chi pensa al proprio interesse, si perde dietro le lusinghe e le seduzioni dalle ricchezze, accumula per sé e sperpera, mentre altri piangono e muoiono di fame, costui è “maledetto”. Non che Dio lo odi o lo punisca, è “maledetto” perché ha fatto la scelta sbagliata, si è collocato fuori del “regno di Dio”. Riceve le lodi e i complimenti degli uomini, ma non quelli di Dio.

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