VI Pasqua: Lo Spirito, memoria sovversiva

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Circoncisione e fede

Nell’anno 49 (o 48) la Chiesa primitiva visse una svolta fondamentale. Alcuni giudei convertiti, scesi da Gerusalemme ad Antiochia di Siria, pretendevano che i fratelli etnico-cristiani lì residenti si facessero circoncidere per ottenere la salvezza (At 15,1). Sorse una grande discussione e una delegazione fu inviata a Gerusalemme, dove si tenne l’Assemblea di Gerusalemme o il Primo concilio di Gerusalemme.

Parlarono in molte persone, fra le quali soprattutto Pietro e Giacomo, il fratello del Signore. Pietro affermò che Dio non aveva fatto alcuna discriminazione fra i giudeo-cristiani e gli etnico-cristiani, purificando il cuore di questi ultimi con la fede (At 15,9). Si è giustificati per fede e non per la circoncisione.

Il resto della discussione si allargò dal problema della circoncisione imposta agli etnico-cristiani alle regole minimali da richiedere loro per una serena convivenza fraterna e la possibilità di condividere, oltre alla mensa eucaristica, anche la mensa della vita quotidiana.

La problematica raccontata in At 15 da Luca corrisponde al resoconto di Paolo in Gal 2,1-14. Le due prospettive sono però molto diverse. Paolo ha un punto di vista argomentativo-polemico, Luca (At 15) uno narrativo-consensuale.

Paolo riporta la non imposizione della circoncisione, la divisione dei campi di missione con l’approvazione dell’operato evangelizzatore di Paolo e la raccomandazione a lui fatta di ricordarsi dei poveri. Paolo non menziona però alcun decreto apostolico che imponesse regole alimentari particolari.

Qualcosa dev’essere stato comunque emanato a Gerusalemme. Paolo non lo ricorda nelle sue lettere, anche se nella sostanza delle sue esortazioni e dei suoi comportamenti egli raccomando sempre una convivenza rispettosa fra le due componenti del corpo ecclesiale (cf. 1Cor 8 -10 gli idolotiti; Rm 14,1–15,13 i “deboli” e i “forti” della comunità di Roma quanto ai cibi).

Qualche tempo dopo l’assemblea di Gerusalemme, in base a questo decreto Pietro, in visita ad Antiochia, si ritirò dalla commensalità con gli etnico-cristonai – coinvolgendo anche Barnaba –, provocando la fortissima irritazione di Paolo che lo affrontò a muso duro (incidente di Antiochia e seguito, Gal 2,11-14).

Decreto apostolico

Luca, che con ogni probabilità conosce Paolo attraverso la mediazione delle sue grandi opere missionarie ma non conosce le lettere paoline, venuto a conoscenza del prolungamento del concilio apostolico, ha inserito le misure prese con il decreto nel suo resoconto dei fatti, collegando strettamente due eventi che probabilmente, pur originando entrambi da Gerusalemme, sono eventi distinti e separati nel tempo.

Il decreto apostolico non accenna al problema della circoncisione o della fede per avere la salvezza. Rispetto a questo problema iniziale, il decreto opera due slittamenti. Da un piano soteriologico passa a un livello etico. Il secondo slittamento fa sì che si passi dai diritti degli etnico-cristiani a quelli dei giudeo-cristiani.

Il discorso di Pietro, e di Giacomo, preservano gli etnico-cristiani dal dover assumere il “giogo/peso/baros” della legge mosaica (cf. At 15,10.19), mentre le quattro astinenze indicate nel decreto preservano anche, in senso inverso, i giudeo-cristiani da una potenziale contaminazione da parte degli etnico-cristiani.

Il decreto si sofferma solo sulle linee di risoluzione di un conflitto di convivenza ecclesiale dovuto a problematiche alimentari. Non si propone certo la Torah come elemento necessario per la salvezza, ma si richiede agli etnico-cristiani l’osservanza di quattro elementi di delicatezza nei confronti dei giudeo-cristiani.

Le richieste del decreto non si pongono a livello soteriologico, non toccano cioè il piano dell’accesso alla salvezza o al suo mantenimento. Si pongono invece a livello etico, teso a garantire la possibilità di vivere insieme. Prescrivono le norme di vita comune fra giudeo-cristiani ed etnico-cristiani. Non si tratta solo di permettere la convivialità (bisognerebbe aggiungervi delle prescrizioni sulla kasherut), ma più fondamentalmente di garantire un vivere insieme.

Il decreto «enuncia i tabù da rispettare per preservare la purità che Dio ha accordato per grazia ai non giudei (15,9). “È importante conformarsi nel quotidiano a questa nuova prossimità con il Dio di Israele e al nuovo statuto che conferisce l’elezione e, di conseguenza, astenersi da tutte le impurità che non corrispondono a questa relazione con Dio”» (Marguerat, che seguiamo in queste note, cita qui un testo di Rost).

Astensione

Nel decreto apostolico gli etnico-cristiani sono chiamati ad astenersi da quattro elementi, citati con leggeri spostamenti, ininfluenti, rispetto a quelli proposti da Giacomo nel suo intervento (cf. At 15,19-20).

Le “carni offerte agli idoli” (cf. la discussione e le indicazioni di Paolo in 1Cor 8–10) porterebbero “contaminazione” (At 15,20). Daniele rifiuta di contaminarsi accettando i cibi preparati dal re (cf. Dn 1,8). La frequentazione degli idoli costituiva per la fede ebraica il peccato capitale (cf. At 7, 41-43). Didachè 6,3 – uno scritto siriano del 120 d.C. – si esprime così: «Per gli alimenti, assumi ciò che potrai, ma astieniti risolutamente dalle carni offerte agli idoli, perché è un culto di dèi morti».

Astenersi “dal sangue” è un comando costante nella pratica ebraica (Lv 3,17; 7,26-27; 17,10-14; Dt 12,16.23). Il sangue rappresenta la vita e appartiene al creatore (cf. Gen 9,4). Mosè «ci ha assolutamente vietato la consumazione del sangue, perché riteneva che il sangue contiene vita e respiro», ricorda lo storico ebreo Flavio Giuseppe (Antichità III,260). Forse si allude all’abitudine dei sacerdoti pagani di bere il sangue degli animali sacrificati.

Con la prescrizione circa “gli animali soffocati” si allude alla norma dei riti giudaici sulla macellazione, che richiedono lo sgozzamento rituale dell’animale per svuotarlo completamente del suo sangue (verbo šḥṭ, cf. Es 12,6; Lv 4,4.15; 14,5.6.50.51). In 1Sam 14,31-35 si racconta, invece, il peccato rituale del popolo contro YHWH (v. 33) nel momento in cui mangia la preda strappata ai filistei dopo la vittoria, macellandola per terra e mangiandola con il sangue (vv. 32.34); il re Saul cerca di porvi rimedio con un sacrificio corretto degli animali depredati offerto sul suo primo altare edificato a YHWH.

Il decreto apostolico intima, infine, di astenersi dalla porneia: si tratta dell’impurità, della dissolutezza, dell’immoralità sessuale. Con questo termine nella Bibbia si indica il vasto campo di tutte le relazioni sessuali illegittime: relazioni fuori del matrimonio (Tb 4,12; Sir 23,23), matrimoni vietati a certi gradi di parentela (Lv 18,6-23), prostituzione (Gen 38,15-22; Gdc 11,1; Os 1,2; 2,2-4; 4,12; Ez 16,30). Dal momento che le immagini sessuali sono state impiegate dai profeti come metafora della fedeltà all’alleanza con YHWH, la porneia indica anche l’idolatria, considerata come una prostituzione agli dèi stranieri (Os 5,4; 6,11; Ez 16,15-46; 23,7-35; Ger 3,6-8; 1Cor 10,8; Ap 2,14.20). La dissolutezza sessuale è bollata negativamente in numerosi “cataloghi di vizi/Lasterkatalog” ed è una presenza costante nella parenesi del NT (1Cor 6,18; 7,2; 2Cor 12,21; Gal 5,19; Ef 5,3; Col 3,5; 1Ts 4,3; Eb 13,4).

Noi e lo Spirito

Il decreto apostolico taccia i giudeo-cristiani scesi ad Antiochia come persone che, senza alcun incarico ufficiale dalla Chiesa madre di Gerusalemme, hanno turbato e sconvolto gli animi degli etnico-cristiani antiocheni. Definisce Paolo e Barnaba, con ciò approvandoli e difendendoli implicitamente, come «carissimi, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del Signore Gesù Cristo», e li invia insieme ai gerosolimitani Giuda e Sila a leggere, commentare e spiegare a voce il contenuto della lettera apostolica.

Le decisioni prese nell’assemblea di Gerusalemme sono attribuite all’autorità degli apostoli (“noi”) e allo Spirito Santo. La strana sequenza non intende mortificare e sequestrare “apostolicamente” ed “ecclesiasticamente” la potenza e la libertà dello Spirito, ma indicare che tutte le decisioni apostoliche sono compiute come mediazioni attuate su indicazione e impulso dello Spirito, senza alcun arbitrio da parte dell’istituzione apostolica. Certo, si riconosce che le astinenze indicate e intimate sono un “peso/baros” (v. 28), ma esse sono il minimo indispensabile (“il necessario/epanagkes”) per poter vivere insieme nel corpo vasto della Chiesa. La posizione presa è liberale – si sottintende – e avrebbe potuto esser ben più severa. «Implicitamente, è respinta la posizione radicale che decreta la necessità per la salvezza della circoncisione e del rituale mosaico (15,5)» (Marguerat).

L’assemblea di Gerusalemme del 49 fu una svolta epocale per la Chiesa. Radicata nel popolo dell’elezione permanente, essa si aprì a tutte le nazioni, non rimanendo rinchiusa in una possibile deriva settaria all’interno del variegato mondo giudaico. Insieme a ciò che viene raccontato in At 10,9-15 (Pietro e la tovaglia calata dal cielo) e alle indicazioni precise di Gesù contenute in Mc 7,1-23 (cf. il commento marciano in 7,19b: «Così rendeva puri tutti gli alimenti»), ma evidentemente non ancora assimilate dalla Chiesa, le norme del decreto apostolico permisero una giusta libertà agli etnico-cristiani nel rispetto però delle tradizioni legittime dei giudeo-cristiani.

L’evoluzione verso una Chiesa composta a stragrande maggioranza di etnico-cristiani portò a una totale relativizzazione del norme alimentari (non dell’idolatria). Questo non autorizza i cristiani a dimenticare o, peggio, a disprezzare le proprie radici ebraiche, permanenti e incancellabili.

Dimora

Il congedo di Gesù riportato nel vangelo di Giovanni (13,1–17,26) trova in 14,25-31 la fine del primo discorso di addio (14,1-31). Nei suoi discorsi di addio, Gesù menzionerà cinque volte lo Spirito, parlando di lui e della sua missione e promettendone l’invio (14,16.26; 15,26; 16,8.13).

Nel brano letto nell’odierna liturgia Gesù parte dalla costatazione che chi lo ama “conserva/osserva/tērēsei” la sua parola. È una questione di corresponsione a un amore che ci precede, quello dell’amore di Gesù per i suoi discepoli. La risposta è la custodia amorosa e concreta, che comprende il trattenere gelosamente il tesoro della sua parola (lo šāmar ebraico) e la messa in pratica (lo ‘āśāh ebraico) come espressione di corrispondenza cordiale a ciò che è ritenuta parola di vita, fonte di gioia e di pace. Chi la custodisce (e compie) diventerà l’abitazione del Padre e del Figlio, della Parola e di Colui che l’ha inviata nel mondo a rivelare il suo volto (cf. Gv 1,1.14.18). L’abitazione del credente diventa la nuova “dimora/monē” di Dio, in precedenza creduta essere nel tempio. Il Padre e il Figlio dimorano in chi custodisce e dimora nella Parola.

Il Paraclito

Nel suo discorso Gesù si pone quasi in un tempo fra i tempi, come se già si fosse allontanato dai suoi e parlasse dal suo luogo definitivo.

Mentre era con loro fisicamente, aveva sempre annunciato il Padre e le realtà ricordate nel discorso di addio. In 14,15 aveva rivelato di aver chiesto al Padre un altro Paraclito, un difensore e avvocato che proteggesse i discepoli nella loro testimonianza contrastata nel mondo. Uno Spirito Paraclito che avrebbe interiorizzato in loro la rivelazione del Padre (lo “Spirito di verità”).

Ora Gesù rivela che lo Spirito che il Padre invierà “passando” per l’unità di volontà e di amore costituita dalla persona del Figlio («nel mio nome») sarà il Paraclito. Questa volta non un “altro Paraclito” rispetto a Gesù, ma il vero avvocato difensore dei discepoli. È una Persona (“Egli/ekeinos”, pronome personale maschile), non uno Spirito generico (pneuma in greco è di genere neutro; ci si sarebbe aspettati quindi ekeino).

La funzione di assistenza e di difesa dei discepoli attuata dallo Spirito consisterà nell’“insegnare” e nel “ricordare” loro le parole dette in precedenza da Gesù. Non dirà altre parole, non aggiungerà rivelazioni ulteriori rispetto a quella compiuta da lui. Lo Spirito insegnerà ai discepoli la profondità di senso delle parole di Gesù, attualizzandole e rapportandole alle più varie situazioni vissute in quel momento dai discepoli, in modo da poterle “interpretare” e vivere con coraggio e fedeltà alla luce della parola originaria, unica e completa, costituita dal Verbo incarnato. Una memoria “sovversiva” di eventuali situazioni o proposte antievangeliche.

Pace e gioia

Gesù annuncia il dono della gioia tipicamente “sua”, differente da quella superficiale e banale offerta dall’insieme delle forze opposte a lui (“mondo”), spacciata attraverso consumo di beni, godimento più o meno sfrenato delle realtà creaturali e delle persone, dominio e potere esercitato nel campo della politica, della finanza e della sessualità.

La pace “donata/didōmi”, “consegnata/aphiēmi” da Gesù, si trasmette col dono generoso della propria vita sulla croce, non con il possesso e lo sfruttamento di cose o persone. La pace donata da Gesù, menzionata qui, sembra essere il frutto dell’inabitazione del Padre e del Figlio nel discepoli e dell’attività testimoniale e protettiva dello Spirito Paraclito. È la gioia donata da Gesù, ma proveniente dall’inabitazione della Trinità nel credente. Pace insondabile, inesauribile, non catturabile e sequestrabile dalle “piccole gioie”.

Gesù annuncia la sua partenza e ricorda che la gioia dei credenti dovrebbe essere grande perché egli raggiunge la pienezza della sua vita di Inviato del Padre e del dono della propria vita innalzato sulla croce che attira e coagula a sé tutti gli uomini nell’amore. Chi ama gioisce che l’Amato raggiunga la pienezza della sua vocazione, ciò per cui è stato pensato e amato da Dio Padre.

A livello di progettazione salvifica originaria il Padre è “più grande” di Gesù, Verbo incarnato che sta abbracciando nella tortuosità delle vicende storiche la pienezza della sua missione. Gesù preannuncia ai suoi la sua partenza dal mondo degli uomini e dal mondo chiuso alla sua persona. La modalità in cui avverrà potrà però destabilizzare più di un discepolo, e per questo motivo Gesù la annuncia fin d’ora, perché quando avverrà essi rimangano saldi nella fede in lui, nel progetto misterioso d’amore del Padre, sostenuti dalla protezione memoriale del Paraclito.

Amo il Padre

Il principe del mondo, cioè il capo oscuro e invisibile che guida e strumentalizza le forze negative ostili a Gesù e chiuse alla sua rivelazione, “viene”, in un presente drammatico. È l’“ora” negativa delle tenebre e in apparenza il principe oscuro vincerà, ma non può nulla contro la valenza profonda, divina, dell’amore salvifico rappresentato da Gesù.

Bisogna che questo scontro avvenga. È necessario che “il mondo” – cioè le forze ostili a Gesù ma anche l’insieme degli uomini e del creato opera di Dio – sappia quanto Gesù ama il Padre. Bisogna che conosca quanto Gesù abbraccia, perché condiviso fin dall’eternità, il suo piano di rivelazione del suo volto e del suo amore, che passa attraverso l’innalzamento gloriosamente tragico del Figlio, Verbo del Padre. Bisogna che il mondo conosca l’obbedienza del Figlio. È un’obbedienza fatta di corrispondenza d’amore, di condivisione, di volontà di rendere partecipi gli uomini del dialogo amoroso intratrinitario.

Gesù obbedisce a un comando del Padre. Ma il comando è solo desiderio condiviso di comunione d’amore allargata. Il Figlio obbedisce corrispondendo alla sua natura di recettività eterna dell’amore sorgivo che lo qualifica Figlio nei confronti del Padre, fonte di ogni bene.

È una gara d’amore, amore oneroso.

Un progetto divino che mostra la gloria di YHWH /Padre per quello che è.

Amore trinitario, gara a prevenirsi nel dono di sé.

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