X Per annum: La “casa” di Gesù

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Non mangerai

Nella sua riflessione sapienziale sulla natura dell’uomo, sulla sua origine, sul perché della presenza del male nel mondo – uguale alla situazione che l’autore vive al tempo dell’esilio babilonese –, il racconto mette in scena il serpente.

Esso è presentato come intelligente-nudo/‘ārûm più di tutte le bestie della campagna che YHWH il Signore aveva fatto/‘āśāh. Presente misteriosamente fin dalla creazione del mondo, esso tuttavia è una creatura che sottostà a YHWH, senza essere una potenza di pari grandezza, che giustifichi un dualismo originario, ontologico, con due esseri divini responsabili uno del bene nel mondo e l’altro di ogni male.

Esso opera una catechesi negativa sulle parole rivolte da YHWH all’umano dopo che gli aveva donato tutto il bene presente nel giardino, tranne il possesso/mangiare dell’albero del bene e del male.

Il serpente è simbolo della bramosia, che stravolge in divieto irragionevole di un Dio malvagio e invidioso quello che YHWH aveva inteso porre come limite buono all’essere umano perché si aprisse all’alterità, senza voler possedere e mangiare tutto, diventando un essere che tutto conosce/divora, che tutto possiede/conosce, senza un limite al delirio narcisistico di onnipotenza.

La colpa è sua!

YHWH Dio passeggia/mithallēk nel giardino (come passeggerà per quarant’anni in mezzo a Israele nel deserto, senza chiedere una dimora fissa, una «casa di cedro»: Lv 26,12; Dt 23,15; 2Sam 7,7) e l’essere umano, l’umanità sente la “voce/rumore/qôl” del passeggiante e si nasconde.

La coda di paglia per aver infranto il divieto/limite postogli da YHWH stravolge in visita ispettiva il passeggio mattutino del Dio creatore e amico, che aveva donato un ambiente lussureggiante alla sua creatura e aveva costituito l’umanità in dualità sessuata connotata da alterità paritaria e complementare nella reciprocità.

La coscienza della colpa tramuta in voce ispettiva del giudice la ricerca che YHWH compie dell’umano per prolungare un dialogo che fa esistere nel bene.

La nudità esposta dapprima senza vergogna, nella costatazione felice della comune mancanza che apre all’alterità integrativa sul piano di pari dignità, è avvertita come una realtà da coprire, in quanto toccata dalla comune trasgressione del limite.

L’umano maschile risponde/wayyō’mer, giustificando la paura che lo ha spinto a nascondersi dal Dio amico. Da visita amicale, la passeggiata di YHWH diventa una seduta giudiziaria del giudice che vuole appurare la verità per vincere la falsità, curare il male inflitto dal menzognero, facendo emergere la verità e anche le conseguenze infelici del limite trasgredito.

L’essere umano terragno/terricolo/hā’ādām (ma non “hā’îš/il maschio/l’essere maschile”) si deresponsabilizza, infrange l’alleanza con la donna con la quale pensava di aver costruito una salda unità e scarica su di lei la responsabilità di avergli porto il frutto dell’albero proibito. Cita il suo consenso acritico alla proposta della donna, espresso senza parola alcuna. D’altronde, egli aveva pensato fin dall’inizio che lei fosse uscita da lui, e che gli appartenesse come proprietà indiscussa («questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne», Gen 2,23).

Il serpente “nudo”

YHWH interroga la donna, che ammette la verità di essere stata ingannata dal serpente.

Il serpente è simbolo della bramosia, che le aveva fatto balenare l’immortalità, la divinità, l’onniscienza come traguardi possibili ancorché vietati da un Dio geloso e nemico dell’umano. Scoprire la verità e ammetterla è il primo passo di un percorso che fa giungere alla libertà. Il giudice che appare inquisitorio e pronto alla condanna, in verità è un’istanza veritativa che smaschera il male della menzogna.

Quello che appare essere la sentenza di un giudice “nemico” inizia dalla posizione processuale del serpente menzognero e ingannatore. Non c’è nessuna sentenza da parte di YHWH, nessuna maledizione. Il verbo essere non compare, men che meno all’imperativo (“sii tu maledetto”). Il giudice constata le conseguenze infelici di quel comportamento che non aveva rispettato il limite alla bramosia imposto da YHWH come legge di bene, di vita, di felicità e di accoglienza dell’alterità posto all’umano.

YHWH constata che il serpente è maledetto: “’ārûr ‘attāh/maledetto tu (sei)”. Il serpente non si trova nella condizione di fruizione dell’abbondanza della vita e del bene (“benedizione”) ma nella condizione opposta.

Il serpente ingannatore/la bramosia/il male striscia (e striscerà sempre in quanto sede permanente della bramosia) sul proprio ventre, senza la dignità e la bellezza regale dei piedi e delle gambe; si ciberà dell’assenza di cibo, la polvere di morte (cf. 3,19), fonte di sete inestinguibile e di fame perennemente insoddisfatta.

Amara constatazione

YHWH preevangelizza una battaglia impari, proclama il protovangelo di una vittoria certa, pur con strascichi minori di infelicità e di ferite dolorose. YHWH pone una inimicizia fra il serpente e la sua discendenza – la bramosia e la sua propagazione menzognera fagocitante –, e la donna e la sua discendenza.

La bramosia onnivora ferirà in modo limitato (il “calcagno”) l’umano, ma “la discendenza/il discendente/zera‘” (sostantivo maschile) della donna ferirà mortalmente (“la testa/rō’š”) il propagarsi del male che, con la pretesa di illuminare la donna, l’ha accecata e ingannata con la sua anticatechesi su YHWH.

Come ammoniranno i sapienti, «ognuno è punito per mezzo della cosa con cui pecca» (Sap 11,16).

YHWH constata che il residuo della bramosia nella donna la terrà unita in modo fusionale al figlio, da cui stenterà a staccarsi recidendo il cordone ombelicale. Per vincere la sua resistenza YHWH moltiplicherà le gravidanze e i distacchi. È una costatazione. Quando Eva concepirà Caino/Qayin dirà: “Ho comprato/qānîtî un uomo/maschio da/con/’et YHWH”. Delirio di onnipotenza – che prescinde dal concorso dell’uomo maschio – e possessività fusionale, semina del serpente/bramosia.

L’alleanza uomo-donna è infranta. YHWH costata che il desiderio sessuale femminile di comunione intima si rovescerà in dominio possessivo del maschio sulla donna, che in tal modo prolunga le sue parole iniziali sulla donna: «… è ossa delle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2,23).

La costatazione di YHWH sulla condizione dell’uomo è quella di un rapporto faticoso con “la terra/il suolo/hā’ădāmāh” che le era stata data da coltivare e da custodire come giardiniere operoso (cf. Gen 2,15 YHWH Dio prende l’umano e lo pone nel “giardino” [gan, sost. masch.] di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse [i suffissi verbali del testo ebraico sono invece femminili e quindi si riferiscono alla terra/hā’ădāmāh: perché “la” lavorasse e “la” custodisse]).

Il terreno/suolo non è maledetto neppure in Gen 3,17, dove si constata solamente la sua “maledizione”, cioè la “chiusura della sua bocca”, la sua avarizia nel donare i propri frutti, cioè la benedizione/abbondanza di vita buona e felice. Si costata, invece, che esso produrrà spine e cardi immangiabili e pungenti.

L’uomo deve strappare a forza i frutti dalla terra, con la fatica e il sudore della fronte. Con i residui della bramosia onnivora in corpo, l’uomo avrà un rapporto faticoso con la terra.

Aver ceduto alla bramosia ingannatrice, fa rompere i rapporti dell’umano con YHWH, fra uomo e donna all’interno della coppia e perfino fra l’uomo e la terra.

Non è difficile oggi costatare come la terra e la natura violate dalla bramosia onnivora dell’uomo si ritorcano ferite contro di esso, con dissesti idrogeologici prevedibilissimi, col surriscaldamento globale della terra, l’inquinamento progressivo dell’aria, l’onnipresenza della plastica negli oceani dove, ridotta in particelle infinitesimali, viene inghiottita dai pesci che l’uomo mangia, entrando così mortalmente nel ciclo alimentare umano. I femminicidi, la sottomissione forzata delle donne e le mutilazioni genitali femminili sono lì a testimoniare l’irriducibilità del desiderio possessivo del maschio.

Genesi non è racconto di fiabe per bambini. È lo specchio rivelatore della condizione umana.

Il protovangelo

La bramosia del serpente non avrà l’ultima parola. Il protovangelo di Gen 3,15 sta lì a dimostrarlo.

Nelle prime pagine della Bibbia è già piantata saldamente la promessa del Discendente, che sconfiggerà definitivamente la bramosia delirante e narcisistica con un amore oblativo che la schiaccerà con i piedi di Colui che annuncia il vangelo e con quelli dei suoi discepoli.

Un nuovo rapporto fra l’umano e Dio, fra uomo e donna, fra l’umano e la terra è possibile in Gesù.

Un sandwich marciano

Dopo aver descritto l’inizio del ministero di Gesù in Galilea (Mc 1,14–3,6) e il suo culmine in Galilea e dintorni (3,7–6,6a), nella terza sezione del suo vangelo, detta talvolta “sezione dei pani” (6,6b–8,30), Marco incentra la sua narrazione dei fatti e dei detti di Gesù attorno alla duplice moltiplicazione dei pani (6,6b–7,37; 8,1-26).

Le ostilità contro Gesù crescono, così pure viene ricordata l’incredulità – totale secondo l’evangelista Marco – dei Dodici e dei discepoli, proprio mentre il pastore di Israele allaccia i primi contatti col mondo pagano.

«All’interno della sezione dei pani gli elementi che compongono i due cicli si corrispondono simmetricamente: moltiplicazione dei pani (6,30-44; 8,1-10); incomprensione dei discepoli (6,52; 8,14-21); discussione con i farisei (7,1-23; 8,11-13); miracoli conclusivi (7,31-37; 8,22-26)» (A. Poppi).

In Mc 3,20-35 siamo in presenza di un tipico “trittico marciano” o “racconto intercalare” (da altri denominato, a mio avviso con terminologia efficace ma non “fine”, “racconto sandwich”). Una “storia esterna” (in questo caso, Mc 3,20-21.31-35) circonda e ingloba una “storia interna” (qui Mc 3,22-30).

Numerosi elementi delle due storie si richiamano, illuminando reciprocamente – per contrasto o per rafforzamento – i rispettivi significati più profondi. Si veda, ad es., il racconto “interno” dell’emorroissa (Mc 5,25-34), inglobato dal racconto “esterno” incentrato sulla rivivificazione della figlia di Giaìro (Mc 5,21-24.35-43). Le due donne appartenenti al popolo ebraico – una anziana e l’altra alle soglie del matrimonio e della generazione della vita – perdono “inutilmente” il sangue e addirittura la vita fino a che non incontrano Gesù sulla loro strada.

I parenti di Gesù

La famiglia, probabilmente il clan a cui Gesù apparteneva, “i parenti/quelli attorno a lui/hoi par’autou” vanno a cercarlo per riportarlo a casa. Egli predica continuamente, compie azioni miracolose, è assediato da folle di gente entusiasta, che gli derubano perfino il tempo per mangiare. Secondo loro, Gesù “è uscito fuori di sé/exestē”.

I parenti di Gesù lo vogliono “afferrare con forza/kratēsai”, mentre lui è “in casa/eis oikian”, cioè è all’interno del popolo nuovo di Israele, il popolo messianico che egli sta istruendo e sanando.

Lo vogliono “prendere/afferrare/catturare/arrestare” come farà Erode Antipa con Giovanni Battista (Mc 6,17) e come cercheranno di fare i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani con Gesù dopo aver ascoltato la parabola dei vignaioli omicidi e aver capito che era stata detta contro di loro (cf. Mc 12,12).

I capi dei sacerdoti e gli scribi torneranno alla carica due giorni prima della Pasqua e degli Azzimi, cercando di catturare Gesù con l’inganno per farlo morire (Mc 14,1). Il bacio che Giuda darà a Gesù sarà il segno di identificazione dato ai capi dei sacerdoti, agli anziani e agli scribi per arrestare Gesù nel podere del Getsemani (Mc 14,44). In effetti, lo arrestano (Mc 14,46), con la domanda meravigliata di Gesù sulla loro tempistica, dal momento che egli predicava nel loro tempio ogni giorno, «in mezzo a voi» (Mc 14,49).

Gesù, però, risorgerà, sfuggirà dalle loro mani, e l’unica cosa che gli avversari riusciranno ad afferrare sarà il “lenzuolo/syndona” che ricopriva il corpo nudo del giovane discepolo di Gesù (cf. Mc 14,51-52). La sua fuga (e la presenza del suo “doppio” simbolico nel sepolcro vuoto, il “giovane/neaniskos” di Mc 16,5) è anticipo di risurrezione pasquale.

La “casa” divisa

Nel “racconto interno” (Mc 3,22-30) Marco narra della disputa accesa scoppiata tra Gesù e un gruppo di scribi discesi da Gerusalemme in Galilea. Questi lo accusano di essere un posseduto da Beelzebùl – capo dei demoni – e di scacciare i demoni per mezzo di esso. Gesù ricorda a loro che un regno e una casa – quei “famigliari” presenti nel racconto esterno – divisi in se stessi non possono stare in piedi.

Non si può scacciare i demoni ed essere contemporaneamente a servizio di Beelzebùl, loro capo. Qualcuno può penetrare nella “casa” di un uomo forte, legarlo e saccheggiarne la “casa” solo se è più forte di lui.

Gesù è più forte dell’uomo forte che è Beelzebùl. Si può parlare male di Dio, peccare e venir perdonati. Attribuire però alle opere di bene compiute da Gesù, nella potenza dello Spirito Santo appartenente al mondo divino, un’origine demoniaca, equivale a peccare contro lo Spirito. Si attribuisce allo Spirito qualcosa di natura malefica all’eccesso. Un peccato imperdonabile, perché distorce la verità alla radice.

La vera famiglia/casa di Gesù

Il racconto “interno” del trittico marciano (o “racconto intercalare”) illumina per contrasto quello “esterno”. La casa/famiglia di Gesù non è demoniaca. È la casa del “più forte” del “forte”. È una casa/famiglia unita, non divisa in se stessa. I parenti di Gesù pensano che lui “sia fuori di sé/exestē <histēmi” e “se ne stanno in piedi fuori/exō stēkontes <part. perf. di stekō <histēmi)” (v. 31) della “casa” dove è Gesù.

Ma chi è fuori e chi è dentro?

A chi sta “fuori”, a chi non compie il passo iniziale della fede in Gesù, tutto il suo parlare e agire risulterà enigmatico, incomprensibile. Le parabole e i miracoli compiuti per illuminare e sostenere la fede dei discepoli, inaugurando così il Regno, per quelli “di fuori” resteranno puramente enigmatiche e non “paraboliche”, con l’effetto ermeneutico “parabola” loro proprio, che resterà a loro inaccessibile. «Ed egli diceva loro: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori (ekeinois de tois exō), invece, tutto avviene in parabole/en parabolais ta panta ginetai), affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato”» (Mc 4,11-12).

Gesù getta uno sguardo attorno a sé, sulla “folla/ochlos” che sta seduta attorno a lui (v. 32) in cerchio (v. 34) – nella casa (!) – e dichiara che quelle persone sono sua madre, suoi fratelli, sue sorelle. Sono la sua nuova e vera famiglia. Sono coloro che fanno la volontà di Dio.

Non sono persone demoniache, che operano il male e che sono divise al loro interno. Sono una casa/una famiglia/un regno dove impera sovrana l’unità. Una realtà divina e unita, non demoniaca e divisa. La sorgente delle parole che ascolta è divina, scaturisce dallo Spirito Santo. Egli rivela la volontà di bene di Dio, e dona anche la forza di “farla”.

La famiglia di Gesù ascolta e fa la volontà di Dio, rivelata da Gesù.

Al suo interno non c’è divisione e bramosia di possesso.

Al serpente onnivoro e narcisista è stata schiacciata la testa.

Nella famiglia di Gesù il limite dell’alterità complementare imposto da YHWH/Il Padre è rispettato come un dono che fa crescere.

Gesù illumina, non acceca.

Rivela, non inganna.

Siete già figli di Dio.

Nudi fiduciosi.

Figli, famiglia, casa di Dio.

Famiglia mia, famiglia di Gesù.

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