XI Per annum: Il seme potente

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L’enigma e la parabola

Nell’anno 609 a.C., il faraone Necao, che aveva in precedenza sconfitto e ucciso il re di Giuda Giosia, nomina Ioiakìm nuovo re di Giuda. Nel 605, il re di Babilonia Nabucodònosor sconfigge l’Egitto e, nel 597, deporta come prigioniero a Babilonia Ioiachìn (o Ieconia), che era succeduto a Ioiakìm, morto nel frattempo, regnando in Gerusalemme per soli tre mesi.

Nabucodonosor nomina Sedecìa quale re vassallo in Giuda. Sedecìa, fratello di Ioiachìn, presta un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, diventando un ennesimo regno vassallo di Nabucodònosor e suo prezioso avamposto difensivo sul confine occidentale contro le eventuali pretese espansionistiche dell’Egitto.

Nel 588, però, Sedecìa viola il giuramento contratto con Nabucodònosor e cerca aiuto nell’Egitto del faraone Ofra. Il re babilonese reagisce prontamente e sottomette Giuda con la forza, conquistando Gerusalemme nel 586, distruggendone il tempio e deportando gran parte della popolazione.

Le notizie arrivarono velocemente tra gli esiliati a Babilonia. La possibile alleanza con l’Egitto dovette riaccendere le speranze di una liberazione prossima. Il profeta Ezechiele, che viveva con i deportati a Babilonia, compose l’oracolo riportato nel c. 17 del suo libro probabilmente nel 588. Appena viene a conoscenza della ribellione di Sedecìa, il profeta contrasta le speranze umane dei deportati. Sedecìa non è il re legittimo di Giuda, né si può riporre la speranza in un re umano. Non è certo dall’Egitto che verrà la salvezza.

Avendo presenti i drammatici eventi storici di quegli anni si può capire chiaramente l’enigma (ḥîdāh) e la parabola (māšāl) raccontati da Ezechiele ai deportati su ordine di YHWH. L’enigma non è difficile, la parabola assomiglia più ad una allegoria, dove la decodificazione dei particolari è quasi più importante del filo logico della storia narrata, con la domanda in essa insita alla quale il lettore è portato quasi inevitabilmente a rispondere nella direzione indicatagli dall’autore del testo.

Il cedro e la vigna

Ezechiele parla di una grande aquila (hannēšser haggādôl, Nabucodònosor) che, dopo aver sorvolato il Libano, strappa un germoglio (Ioiachìn, re di Giuda) dalla cima del cedro (’erez) e lo trapianta in una terra seminata e ricca di acque (Babilonia), perché diventi una vigna (gepen) fiorente. Venne però un’altra grande aquila (nešer-’ eḥad gādôl, l’Egitto del faraone Ofra) e la vite piegò verso di lei le sue radici e i suoi tralci. Ezechiele domanda al suo pubblico se la vigna riuscirà a sopravvivere o seccherà al vento caldo d’oriente (Nabucodònosor), lo scirocco.

Nei vv. 11-21 Ezechiele stesso decodifica in un testo in prosa l’enigma-parabola espressa dapprima in poesia. Sedecìa ha violato un patto, che aveva stipulato usando con tutta probabilità anche il nome del suo Signore. YHWH afferma che Sedecìa ha infranto il “mio” patto (v. 19[bis]). Pur essendo solo un giuramento umano, YHWH vi è coinvolto quale garante della verità espressa da Sedecìa e non può sopportare l’impudente rottura della parola data con giuramento.

Inoltre, «l’alleanza del popolo e del re con il Signore esige che si accettino tanto i suoi comandamenti generali quanto le sue decisioni particolari nella storia, da lui comunicati ripetutamente tramite gli oracoli profetici. Sedecia, col ribellarsi al piano storico di Dio formulato da Geremia, ha violato l’alleanza con il Signore. Il giuramento di sudditanza di Sedecia, re per grazia di Nabucodònosor, si ritorce contro di lui. In modo parallelo, la vendetta umana si ritorce in strumento del castigo di Dio» (Alonso Schökel).

Il re di Giuda pagherà il suo atto vile con la distruzione di Gerusalemme e non ne uscirà vivo. In effetti, Sedecìa fu catturato a Gerico mentre tentava di fuggire dai nemici, fu condotto a Ribla, il quartiere generale delle operazioni di Nabucodònosor. In questa città dell’Oronte, in Siria, situata a 34 km a sud di Homs, il re babilonese fece uccidere i figli di Sedecìa davanti ai suoi occhi, fece cavare gli occhi al re vassallo ribelle e lo deportò con sé a Babilonia, dove incontrerà la morte.

Chi infrange un patto non può sperare di uscirne vivo e senza danni. YHWH dirige la storia secondo un suo piano di salvezza per Israele, lasciando liberi gli uomini di agire secondo le loro logiche umane, che egli rispetta.

Ma che ne sarà della casa di Davide, nella quale si è condensata la speranza di un’esistenza imperitura di Israele, il popolo di YHWH, che ad esso ha rivolto una promessa irrevocabile di sussistenza permanente? (cf. 2Sam 7; Sal 89). Ezechiele risponde rifacendosi alla sovranità storica di YHWH, che può realizzare le sue promesse al di là e al di sopra di tutte le vicende umane.

Uccelli annidati nel cedro frondoso

Nell’aggiunta in prosa di Ez 17,22-25, si riafferma la speranza di Israele, colorandola di toni messianici. YHWH in persona stavolta prenderà un tralcio dal cedro alto e superbo, dalla gemma che sta in cima strapperà una barbata e la pianterà su un monte alto e solitario sul superbo monte di Israele (il monte Sion a Gerusalemme).

Si tralascia l’immagine della vigna (gepen) per tornare a quella del cedro (’erez). È il cedro legittimo. L’albero vecchio ne trae vantaggio, ma la pianta è nuova. «Se agli inizi l’oracolo alimentò la speranza di un ritorno in patria, con una dinastia legittima rinnovata, più tardi esso fu letto come profezia messianica» (Alonso Schökel). Altri oracoli che impiegavano immagini tratte dal mondo vegetale furono letti in chiave messianica: cf. Is 11; Ger 23,5; 33,15; Zc 3,8.

Quale albero, per antonomasia, del Libano, nella Bibbia il cedro viene contrapposto, in quanto albero alto e nobile, al rovo (Gdc 9,15), all’issopo (1Re 5,13), al cardo (2Re 14,9); per il suo legno, al sicomoro (1Re 10,27; Is 9,9); in quanto albero silvestre e frondoso a quelli da frutta (Sal 148,9). Il cedro metterà rami e diventerà frondoso (così accettando il suggerimento, proposto nell’apparato critico della BHS e ripreso da Alonso Schökel, di leggere p’rh [fronda] invece di pry [frutto/i]) e maestoso (’addîr, detto di piante come la vite in Ez 17,8 e del cedro in Ez 17,23, di persone nobili e re [Sal 136,18], di Dio potente e grande [Is 33,21; Sal 76,5; 93,4]).

All’ombra dei suoi rami e nell’intrico rigoglioso delle sue fronde faranno il loro nido tutti i passeri e tutti gli uccelli. Nell’immagine dei passeri che si annidano si può leggere la situazione dei regni vassalli al tempo del re Davide.

Umilio e innalzo, rendo secco e rinverdisco

L’aggiunta si conclude dettagliando la logica paradossale che guida l’opera di YHWH nella storia. Egli è capace di rovesciare le logiche umane, umiliando (hišpaltî, gr. LXX egō kyrios ho tapeinōn) il superbo ed esaltando (higbahtî/gr. LXX hypsōn) l’umile. La sua opera porta morte e risurrezione dove gli uomini si aspettano il contrario: YHWH secca l’albero verde e rinverdisce l’albero secco.

YHWH pone alle sue parole una firma incancellabile, che non può essere contraddetta da progetti puramente umani. YHWH è coerente, potente e fedele. Ciò che dice (dibbēr), egli lo fa (‘āśāh). La sua parola è efficace, è parola-fatto (dābār).

La logica paradossale di YHWH regge tutta la storia di Israele. Da sempre egli ha scelto strumenti deboli, piccoli e inconsistenti agli occhi degli uomini per realizzare i suoi piani di salvezza. Pastori, ragazzi, donne, piccoli gruppi di guerrieri hanno sconfitto re potenti, avversari temibili, eserciti senza numero. YHWH/Il Padre confermerà le sue scelte paradossali anche nel Nuovo Testamento, incentrato sul suo Figlio incarnato.

L’inno di Maria nel Magnificat (Lc 1,46-55) riprende il canto di Anna (1Sam 2,1-10), donna senza figli – irrisa ripetutamente con sadismo feroce da Peninnà, sua avversaria feconda –, che diventa per grazia di YHWH madre del profeta Samuele.

Gesù, il Verbo di Dio incarnato, sigillerà autorevolmente la logica seguita da Dio suo Padre: «Perché chiunque si esalta sarà umiliato» (da Dio, tapeinōyhēsetai, passivum divinum) «e chi si umilia sarà esaltato» (da Dio, hypsōthēsetai, passivum divinum) (Lc 14,11).

La parabola

 Nel discorso parabolico del c. 4, l’evangelista Marco ha raccolto quattro parabole con le quali Gesù ha inteso illustrare il mistero del regno di Dio. La liturgia di oggi presenta le ultime due.

Quella raccontata da Gesù è una vera e propria parabola: un racconto fittizio, con una trama sorretta da un filo logico che, a partire dalla realtà quotidiana conosciuta dagli ascoltatori, intende illustrare il mistero di una realtà “altra”, per lo più quella del regno di Dio. A questo referente extradiegetico, al di fuori del racconto, Gesù si riferisce in modo particolare attraverso gli elementi paradossali del racconto, difficilmente riscontrabili nel mondo vitale degli uomini. Ciò che lega il racconto parabolico al referente extradiegetico è il tertium comparationis, l’elemento che collega in modo ferreo le due realtà.

Con una domanda precisa o con un invito implicito ma chiaro, Gesù provoca ciascuno degli ascoltatori a dare una risposta alla domanda posta dalla logica del racconto. Essa non potrà che essere una e una sola soltanto, se la persona è onesta con se stessa e se non vuole cadere nell’irrazionalità.

Questo costituisce l’effetto parabola, non ottenibile in altro modo. La parabola non è un insegnamento da accettare o no, ma una storia su cui prendere posizione personalmente, per poi applicare alla propria vita la risposta data in prima persona. In questo modo le parabole rimangono sempre “vive”, “fresche”, a differenza delle allegorie, che “si spengono” una volta decodificate nei loro elementi.

Il seme “automatico”

Il regno di Dio non è il seme. Il regno di Dio e la sua logica, la sua vita interna, possono essere paragonati a una storia entro cui vige una logica e uno sviluppo che è possibile seguire con la propria onestà intellettuale. Nel regno di Dio, nell’instaurarsi cioè progressivo della regalità/sovranità di Dio nel mondo degli uomini a partire dal popolo convocato, cioè la Chiesa, si sviluppa una storia simile a quella narrata nel racconto parabolico. Nel regno di Dio si sviluppa una storia paragonabile, più o meno da vicino, alla storia che si sviluppa nelle parabole narrate da Gesù.

Come avviene nel mondo agricolo della Palestina del I secolo, un uomo getta il seme sopra la terra, prima di arare il terreno che lo fa andare sotto terra. Il seme sviluppa progressivamente i suoi stadi vegetali: stelo, spiga, spiga piena di grani (da quindici a trenta). Il vegliare continuo del contadino non potrebbe impedire o accelerare la crescita della spiga.

Oggi è evidentemente possibile accelerare la crescita e aumentare la resa del prodotto per chilometro quadrato, dopo aver ottenuto incroci di specie tramite prodotti geneticamente modificati, ma il “mistero” affascinante della crescita delle messi rimane immutato davanti a chi lo contempla con sguardo sapienziale. Che il contadino vegli o che dorma, il seme germoglia e cresce secondo un processo che (al tempo di Gesù) egli non conosce e non sa spiegare.

Anche oggi, comunque, l’evento prodigioso della forza vitale del seme che fa biondeggiare i campi seminati nei mesi precedenti suscita ogni anno l’ammirazione stupita dell’agricoltore. La terra produce automaticamente (automatē hē gē karpophorei), con la forza generativa propria e cioè senza una causa visibile, la spiga piena di chicchi, il “frutto”, passando attraverso vari stadi evolutivi.

La mietitura

Quando il frutto “dà/permette/consegna/affida/elargisce/cede/paradoi<paradiodōmi”, immediatamente l’“uomo” “manda/invia/apostellei” la falce, perché (il tempo del)la mietitura “è giunto/parestēken<paristēmi”.

Oltre a quella della vendemmia, nell’immaginario biblico la mietitura (con l’immagine della falce che la accompagna) è il simbolo del giudizio escatologico di Dio che interviene alla fine della storia per raccogliere i frutti della vita degli uomini (cf. Ap 14,14: “falce affilata/drepanon oxy” in mano a uno sulla nuvola simile a un uomo. 15 comando: “invia/pempson” la falce. 16 colui che sedeva sulla nube gettò/ebalen la falce sulla terra. 17: un altro angelo con un’altra spada affilata. 18[bis]: grido a voce alta per l’“invio della falce/pempson ton drepanon” per vendemmiare i grappoli della vite della terra. 19: l’angelo “gettò la sua falce/ebalen to drepanon autou” sulla terra).

Spesso l’interpretazione comune ha messo l’accento sull’attività giudicatrice finale da parte di Dio, mentre la parabola sembra porre l’accento – con la descrizione “lenta” e dettagliata delle varie fasi di maturazione della spiga – sul dispiegarsi misterioso ma “potente in modo automatico” della forza generativa insita nel seme di grano stesso.

Gesù intendeva probabilmente parlare del Padre che semina la sua Parola potentemente efficace al di là della collaborazione o meno da parte dell’uomo. Al tempo della messa per iscritto del Vangelo di Marco (probabilmente nel 70 d.C.), la Chiesa intendeva probabilmente ricuperare la parola originaria di Gesù riferendola all’opera potente di Gesù risorto che faceva “crescere la sua Parola” incentrata sul mistero pasquale (cf. At 6,7: la parola di Dio cresceva; 12,24; la parola di Dio cresceva e si sviluppava; 19,20 la Parola cresceva e si rafforzava secondo la potenza del Signore). Tutto questo in mezzo a difficoltà incontrate nel rapporto col mondo giudaico e con quello pagano.

Ognuno degli ascoltatori non poteva che essere d’accordo con la logica che sorreggeva la storia raccontata da Gesù e con il suo esito naturale, conseguito attraverso passaggi misteriosi e automatismi sconosciuti e affascinanti, non creati dall’uomo ma – al massimo – ritrovati, accompagnati, modificati, potenziati.

A Gesù e alla Chiesa interessa cogliere nella storia la forza prodigiosa, immanente, “automatica” del seme della Parola, che è capace di crescere in situazioni umanamente molto difficili e contrarie. La Chiesa può aver compiuto un’applicazione ecclesiale di alcune parabole, a volte modificando la “direzione” del racconto fatto da Gesù (cf. la parabola del seminatore in Mc 4,1-9 rispetto alla sua applicazione ecclesiale riportata in 4,13-20). Resta il fatto della grande consolazione che la compagine della Chiesa ne ricava, sentendo che la vicenda della Parola nel crogiuolo della storia è totalmente/automatē nelle mani di Dio e del suo Cristo.

Capocchia di spillo

Anche la logica che sorregge la storia successiva raccontata da Gesù per illustrare al meglio la realtà del regno di Dio e la sua logica interna è del tutto evidente e condivisibile. La parabola narra del piccolissimo seme di senape che diventa col tempo la più grande fra le piante dell’orto, offrendo riparo al nido degli uccelli.

La logica della storia non può che essere condivisa da ogni ascoltatore che sia attento osservatore della natura e sia onesto con se stesso. È impressionante l’enorme contrasto tra la piccolezza iniziale del seme di senape e la rispettabilissima grandezza della pianta matura, capace di ospitare alla sua ombra i nidi degli uccelli.

Nell’estate del 1982 potevo osservare questo spettacolo proprio di fronte all’entrata del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme. Il seme di senape era ai tempi di Gesù il seme più piccolo visibile a occhio nudo, grande come la capocchia di uno spillo. Purtroppo i semi di senape raccolti per essere mostrati agli studenti furono persi miseramente durante il viaggio. Non avviene così della parola di Dio e del popolo che la accoglie e la vive con l’entusiasmo e la determinazione forniti dallo Spirito Santo.

Il regno di Dio trova le sue primizie primaverili nella vita della Chiesa, mentre il suo esito finale è solo nella mente e nel cuore di Dio. Gesù consola e rafforza la vita di fede della Chiesa, senza volerle inoculare alcun delirio di onnipotenza e di machismo ecclesiale.

La pianta di senape non può decidere quale uccello o nido ospitare fra i suoi rami. La Chiesa accoglie tutti. È la “locanda/pandokeion<pan + dechomai/tutti accogliere” (cf. Lc 10,34), alla quale il Buon Samaritano porta il disgraziato viandante politraumatizzato, affidandolo a “Colui che tutti accoglie/pandokeus (Lc 10,35). È il rifugio alpino che non può respingere nessuno, la nave in mare che non lascia nessuno in mare ad annegare, l’albergue che ti viene incontro consolante sul Camino di Santiago.

Potenza automatica misteriosa, crescita assicurata, esiti impressionanti rispetto agli umili inizi. La vicenda del seme della Parola e della vita ecclesiale non intende spingere a cullarsi su un “automatismo” miracolistico che induca ad atteggiamenti di superiorità o – al contrario – di passività rassegnata. Altre parole di Gesù e del Nuovo Testamento stimoleranno all’opera fruttuosa del credente.

In questa pagina del Vangelo di Marco ha però il sopravvento la consolazione della compagnia di Dio, che ha in mano il cammino di ogni uomo. Egli vuol far entrare tutti nel suo Regno, attraverso i confini visibili e invisibili della sua Chiesa visibile.

Il trapianto ha sempre successo quando opera Dio.

Il piccolo ramo diventa un cedro frondoso e superbo.

Il seme invisibile agli occhi si trasfigura in rami accoglienti di nidi.

Nella Chiesa c’è serena fiducia. La primavera “spinge” l’estate.

Il seme ha una forza “automatica”, ma il custode di Israele non dorme mai (cf. Sal 121,3-4).

Anche gli automatismi hanno bisogno di manutenzione…

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